GIUSTIZIA, diritti virtuali. I diritti umani nell’era digitale

Tra le principali conseguenze del processo di digitalizzazione, l’ampliamento degli spazi di socialità e la crescita dei mezzi per la tutela dei diritti umani costituiscono sicuramente alcuni dei cambiamenti più evidenti e tangibili

a cura del professore e avvocato Roberto De Vita e dell’avvocato Valentina Guerrisi – Tra le principali conseguenze del processo di digitalizzazione, l’ampliamento degli spazi di socialità e la crescita dei mezzi per la tutela dei diritti umani costituiscono sicuramente alcuni dei cambiamenti più evidenti e tangibili. L’argomento è stato affrontato dal professore e avvocato Roberto De Vita e dell’avvocato Valentina Guerrisi sulla rivista Online devita.law, https://www.devita.law/diritti-virtuali/

È sotto gli occhi di tutti la straordinaria opportunità che l’era digitale offre ad individui e gruppi sociali, i quali – seppur molto diversi o distanti tra loro – sono oggi in grado di entrare in contatto, interagire e prendere coscienza di sé e dei propri diritti e libertà inalienabili. Allo stesso tempo, però, il crescente utilizzo di tecnologie e servizi digitali (in termini di risorse economiche o di governance) rischia di costituire il “lato oscuro” della digitalizzazione, specialmente allorquando il deliberato sfruttamento di tali strumenti sfocia nel cosiddetto «autoritarismo digitale».

La diffusione massiva di campagne di disinformazione su temi divisivi e di assoluto rilievo (quali la salute pubblica o, perfino, la vita democratica dei paesi), l’utilizzo di mezzi informatici come armi di attacco verso il singolo e le comunità sono solo alcune delle minacce perpetrate attraverso la rete, che rappresentano un mezzo sempre più potente di controllo e limitazione delle libertà dell’individuo.

EFFETTI PERVASIVI SUI DIRITTI UMANI

I principali osservatori e studiosi internazionali hanno da tempo messo in evidenza come le tecnologie digitali abbiano effetti sempre più pervasivi sui diritti umani, i quali ormai difficilmente possono essere distinti in base alla collocazione nel mondo “reale” ovvero in quello “digitale”. A conferma di tale indirizzo, un recente studio dell’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica [1] ha sottolineato come la digitalizzazione e le trasformazioni digitali abbiano accelerato il processo di cambiamento della società, incidendo soprattutto sul c.d. “spazio civico” ovvero “the physical, virtual, and legal place where people exercise their rights to freedom of association, expression, and peaceful assembly” [2].

Non resta, pertanto, che esaminare quali siano, ad oggi, i benefici ed i potenziali pericoli per una società che, grazie alla digitalizzazione, sta ridisegnando i confini dei propri spazi di libertà e gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali dei propri consociati.

EFFETTI POSITIVI DELLA DIGITALIZZAZIONE

Secondo l’OCSE tale influsso ha prodotto molteplici effetti positivi come, ad esempio, la creazione di nuovi spazi online – molto spesso alternativi ai luoghi “tradizionali” – per l’esercizio di diritti fondamentali quali la libertà di espressione, di riunione e di associazione, con grande impatto soprattutto nei paesi in cui tali diritti sono stati da tempo sospesi o vengono duramente repressi. Allo stato, infatti, in più di un centinaio di paesi nel mondo (ovvero più dell’80% della popolazione mondiale) l’esercizio di tali diritti viene ostacolato, represso o negato [3] attraverso legislazioni restrittive, utilizzo della censura e controllo della stampa e delle informazioni, nonché uso eccessivo della forza e delle sanzioni nei confronti dei dissenzienti. La disponibilità di nuovi luoghi di aggregazione e dialogo online ha consentito anzitutto la diffusione di dati e informazioni sulla condizione di tali paesi e, soprattutto, il rafforzamento di azioni volte a garantire la tutela concreta di tali diritti.

La digitalizzazione ha contribuito, inoltre, al rafforzamento degli spazi civici cosiddetti «tradizionali», poiché la rete ed i social media costituiscono uno strumento fondamentale per le organizzazioni e gli attivisti per informare e mobilitare gruppi sempre più grandi di persone, nonché per organizzare e coordinare, in pochissimo tempo e con scarse risorse economiche, manifestazioni pubbliche ed azioni di protesta. L’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha evidenziato l’importanza di tale trasformazione [4]: i social media, ad esempio, hanno dato voce ad una vera e propria “coscienza civica globale”, rafforzando e consolidando il ruolo svolto dai singoli attori in tutto il mondo; basti pensare all’effetto di movimenti come il #MeToo, che ha contribuito a sensibilizzare in maniera effettiva l’opinione pubblica sul tema delle molestie sessuali nei confronti delle donne.

L’interconnessione e il dialogo globali hanno inoltre consentito una migliore diffusione delle informazioni e, di conseguenza, la possibilità di ottenere l’attenzione ed il supporto concreto da parte delle istituzioni internazionali. In base al Report del 2019 [5] dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, in meno di tre settimane l’hashtag #BringBackOurGirls è stato diffuso in tutto il mondo, portando alla luce il fenomeno dei rapimenti in Nigeria e del conflitto di Boko Haram, prima di allora poco noto all’opinione pubblica. Allo stesso modo, in Armenia, le piattaforme di social media, gli strumenti di live streaming e le app di comunicazione hanno svolto un ruolo chiave nella c.d. “velvet revolution” del 2018 che ha portato alle dimissioni del Primo Ministro. Molti altri movimenti in tutto il mondo sono supportati dai social media, come dimostrato dal movimento #BlackLivesMatter negli Stati Uniti, dal #RoadSafetyMovement in Bangladesh, dalla campagna #FeesMustFall in Sudafrica e dal movimento globale #FridaysForFuture e #ClimateStrikes, che ha coinvolto migliaia di giovani e giovanissimi su temi che, un tempo, riuscivano ad interessare solo alcune fasce o categorie determinate di persone.

GLI IMPATTI NEGATIVI

Nonostante i notevoli effetti positivi, l’OCSE ha rilevato come la trasformazione digitale comporti altrettanti rischi e pericoli i quali, se non adeguatamene vagliati e contrastati, impattano in maniera devastante sulla tutela dei diritti umani: l’enorme mole di informazioni scambiata e condivisa in rete è controbilanciata dalla disinformazione e dalla diffusione di fake news e opinioni estreme; allo stesso tempo, la crescita di comunità online molto forti, all’interno delle quali proliferano narrazioni particolari, può frammentare e polarizzare l’opinione pubblica; lo sviluppo di strumenti digitali per l’attivismo civico e la partecipazione politica può rischiare di emarginare alcuni gruppi demografici che non sono in grado (perché non hanno le risorse economiche e sociali) o non sono inclini (per età o estrazione sociale) a impegnarsi allo stesso livello di altri, che sono meglio rappresentati sulla rete.

Come evidenziato dalla Raccomandazione sull’Intelligenza Artificiale del Consiglio OCSE del 2019, queste trasformazioni “may have disparate effects … notably regarding … inequalities, and implications for democracy and human rights, privacy and data protection, and digital security” [6].

La platea di soggetti che utilizza le risorse tecnologiche per finalità negative è molto vasta e variegata, comprendendo sia attori istituzionali e governativi, che enti privati. Quanto ai primi, l’OCSE riporta come pratiche avverse e restrizioni legali per limitare l’attivismo pubblico e controllare i media e le informazioni vengano utilizzate non solo in stati notoriamente autoritari ma anche in democrazie liberali. La libertà di parola viene censurata bloccando e controllando la condivisione digitale delle informazioni (ad esempio attraverso i c.d. “internet shutdowns”), oppure attraverso una maggiore criminalizzazione dell’attivismo on line. I soggetti maggiormente colpiti, peraltro, sono proprio le donne, sia giornaliste che attiviste per i diritti umani [7].

La diffusione di informazioni false rappresenta una delle principali minacce per lo spazio civico digitale. Questa pratica è più comune nei paesi autocratici, tuttavia anche le democrazie sono bersaglio di false informazioni diffuse dai governi stranieri. La manipolazione online e la disinformazione vengono utilizzate principalmente per distorcere i processi elettorali e il dibattito pubblico, e talvolta quale strumento di istigazione alla violenza. Sul punto, il Report delle Nazioni Unite evidenzia: “States are using digital technology to silence, surveil and harass dissidents, political opposition, human rights defenders, journalists, whistle-blowers, activists and protesters; and to manipulate public opinion, including through misinformation campaigns, cyberattacks and government-sponsored trolling” [8].

Perfino il ricorso ad un linguaggio generico e vago nell’ambito della sicurezza nazionale, della sicurezza pubblica e della legislazione in materia di antiterrorismo lascia ampio spazio agli abusi, soprattutto per ciò che concerne la sorveglianza di massa. Ad esempio, secondo il New York Times negli ultimi anni l’Egitto ha bloccato oltre 500 siti web e introdotto leggi che criminalizzano le critiche al governo sui social media, invocando presunte preoccupazioni di sicurezza nazionale e ordine pubblico per limitare le espressioni online di dissenso ed arrestare i cittadini attivi sulla rete [9].

La pandemia da Covid-19 nel 2020 e la relativa emergenza globale hanno inoltre portato gli Stati all’utilizzo massivo di sistemi di sorveglianza per frenare la diffusione del virus. Tuttavia, sebbene il ricorso a tali tecnologie sia stato giustificato dalla crisi sanitaria, il rischio di abuso è molto alto, come segnalato di recente anche dalle Nazioni Unite, secondo le quali ciò che oggi viene tollerato per via dell’emergenza potrebbe divenire “normale” una volta superata la crisi, e ciò senza aver adottato adeguate tutele per evitare discriminazioni, intrusioni ingiustificate o altre violazioni dei diritti dell’individuo [10].

Una ricerca del 2018 dell’Organizzazione Freedom House ha evidenziato come nel solo 2017 almeno 17 paesi hanno approvato o proposto leggi per limitare i media on line nel nome della lotta alle fake news ed alla manipolazione del consenso; 18 paesi sui 65 analizzati hanno approvato nuove leggi o direttive per incrementare l’utilizzo di sistemi di sorveglianza di massa, esponendo a gravi pericoli (persecuzioni, diffusione incontrollata di dati e monitoraggio) gli individui [11]. L’analisi degli internet users da parte di Freedom House ha, inoltre, evidenziato come su 3.8 miliardi di persone con accesso alla rete [12], il 71% di essi viva in paesi in cui gli individui vengono arrestati o imprigionati per aver postato on line contenuti politici, sociali o religiosi; ben il 65% vive in paesi in cui gli individui vengono attaccati o uccisi per le attività sul web; il 46% infine vive in paesi in cui l’accesso alle piattaforme dei social media è temporaneamente o permanentemente ristretto, ovvero in cui le autorità disabilitano la rete e gli atri mezzi di comunicazione on line per ragioni politiche.

Numerosi sono, infine, gli attori “privati” che, attraverso l’uso distorto dei mezzi digitali, rischiano di compromettere seriamente la sfera dei diritti fondamentali. Tra questi vi sono sicuramente le c.d. big tech che controllano e dominano i mezzi ed i servizi digitali, ma anche le aziende di consulenza e ricerca (basti ricordare, tra tutti, il caso che ha coinvolto di recente la società Cambridge Analytica), le grandi multinazionali e finanche i singoli gruppi di attivisti estremisti e haters (c.d. “hate groups”).

NASCITA DI NUOVE FORME DI ESCLUSIONE

L’analisi delle azioni poste in essere soprattutto dagli attori privati ha condotto l’OCSE ad individuare un nuovo e preoccupante rischio per gli individui, ovvero la nascita di nuove forme di esclusione. Ed infatti, mentre nei contesti in cui gli individui hanno pari accesso alle tecnologie digitali la digitalizzazione offre l’opportunità di superare molte forme di disuguaglianza economica ed esclusione sociale, nei luoghi in cui ciò non avviene proliferano nuove divisioni.

Il cosiddetto «digital divide» mette così a confronto nazioni che possiedono infrastrutture, fondi, risorse umane e politiche legislative adeguate e pronte ad adattarsi una rapida trasformazione, con paesi che, al contrario, non hanno tali capacità: nel 2018, secondo una ricerca della International Telecommunication Unit, solo il 24% della popolazione africana aveva accesso ad Internet, a differenza dell’80% della popolazione europea [13]. Il digital divide però può esistere anche all’interno di uno stesso paese, tra zone rurali e zone urbanizzate ovvero in relazione ai diversi livelli di educazione ed istruzione, o in base a differenti gap generazionali o di genere.

Le barriere del digital divide sono legate, inoltre, all’aumento dei costi e alla commercializzazione degli spazi online. La disponibilità e l’accesso alle informazioni digitali a un costo e una qualità accettabili sono stati e continuano a rappresentare un ostacolo per molti gruppi svantaggiati. Nel 2019 l’accesso globale degli utenti di Internet alla banda larga era al 51% [14]. Ciò significa che quasi la metà degli utenti di Internet al mondo non ha accesso a servizi wireline o wireless ad alta velocità. Queste lacune persistono in tutti i tipi di luoghi, dalle piccole città ai quartieri urbani, e tra gruppi demografici di ogni appartenenza, livello di istruzione o livelli di reddito.

Pertanto, nell’era in cui le libertà vengono esercitate sempre più attraverso la rete, le persone che non vi hanno accesso vengono automaticamente tagliate fuori dallo spazio civico digitale. Nel giugno 2019 gli utenti attivi di Internet erano quasi 4,5 miliardi, ovvero il 58% della popolazione globale[15]. Ciò significa che il 42% – poco meno della metà della popolazione mondiale – non utilizza ancora Internet. Questo, secondo l’OCSE, determina una grave posizione di svantaggio strutturale nell’esercizio dei diritti digitali; inoltre, le discrepanze nell’uso delle tecnologie da parte di gruppi demografici distinti portano a rappresentare in modo sproporzionato alcuni gruppi (sovra o sottorappresentati) negli spazi civici e nei forum di governance online, minando seriamente il principio democratico della rappresentanza inclusiva di tutte le persone.

L’OCSE, infine, pone particolare attenzione all’impatto dell’AI (machine learning e big data), evidenziando come la maggior parte di tali tecnologie vengano prodotte in paesi autoritari all’interno dei quali i diritti umani non hanno adeguato riconoscimento né tantomeno tutela. Allo stato, la Cina è uno dei maggiori produttori di tecnologie di sorveglianza basate sull’AI con una distribuzione in circa 63 paesi in tutto il mondo [16]. Ciò comporta non solo un aumento della compromissione dei diritti civili e delle libertà delle persone che vivono in tali stati, ma l’aumento del rischio di abuso da parte di paesi considerati democrazie liberali [17].

A fronte di questo quadro complessivo, l’OCSE rileva come la maggior parte delle istituzioni e delle normative nazionali non siano progettate per affrontare adeguatamente nessuna delle sfide emergenti legate alle tecnologie digitali e allo spazio civico. Nonostante l’esistenza di direttive e strumenti internazionali per guidare la governance e la regolamentazione digitale – tra cui la privacy, la protezione e la sicurezza dei dati (ad esempio i principi guida ONU-OHCHR su imprese e diritti umani, il regolamento generale sulla protezione dei dati dell’UE e la raccomandazione del Consiglio dell’OCSE sull’intelligenza artificiale) – l’adesione effettiva ai loro principi rimane limitata. Al contrario, i paesi preferiscono sviluppare una propria risposta autonoma e ad adottare approcci disparati nei confronti delle big tech, del controllo e della regolamentazione delle tecnologie digitali o delle norme di sicurezza digitale.

Tuttavia, la mancanza di unitarietà di azione contribuisce ad aumentare le discrepanze sociali, rischiando di fatto di vanificare gli importantissimi effetti positivi della digitalizzazione ed i progressi raggiunti nella tutela concreta dei diritti umani e delle libertà fondamentali nell’era digitale.

RIFERIMENTI

[1] OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development).  2020. ‘Digital Transformation and The Futures of Civic Space to 2030.’ OECD Development Policy Papers.

[2] http://www.civicus.org/documents/reports-and-publications/reporting-civic-space/Guide-to-Reporting-Civic-Space-Media-Toolkit.pdf

[3] https://findings2020.monitor.civicus.org/rating-changes.html

[4] UN-OHCHR (2019), Report of the Special Rapporteur on the rights to freedom of peaceful assembly and of association.

[5] UN-OHCHR (2019), Report of the Special Rapporteur on the rights to freedom of peaceful assembly and of association, cit..

[6] https://legalinstruments.oecd.org/en/instruments/OECD-LEGAL-0449

[7] OECD (2019), Written consultation on ’the impacts of digital transformation on civic space’ – Inputs from the DAC-CSO Reference Group.

[8] UN-OHCHR (2019), Report of the Special Rapporteur on the rights to freedom of peaceful assembly and of association, cit..

[9] The New York Times (2019), ‘We’re at War’: A Covert Social Media Campaign Boosts Military Rulers.

[10] United Nations (2020), COVID-19 and Human Rights.

[11] Freedom on the Net 2018: The Rise of Digital Authoritarianism.

[12] Dato riferito al 2019 – Freedom on the Net 2019: the crisis of social media.

[13] ITU (2018), Emerging Trends, ICT4SDG, Infrastructure, Regulation.

[14] Broadband Commission for Sustainable Development, ITU, UNESCO (2019), The State of Broadband: Broadband as a Foundation for Sustainable Development.

[15] https://www.internetworldstats.com/stats.htm

[16]  Carnegie Endowment for International Peace (2019), The Global Expansion of AI Surveillance.

[17] Paesi come gli Usa, la Francia, il Giappone, la Germania o Israele sono tra i principali produttori ed esportatori di tecnologie AI di sorveglianza, così come big tech private (es. Google e Amazon) stanno effettuando ingenti investimenti nel settore.

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