TURCHIA, repressione e potere. Erdoğan e il deficit di democrazia

La scomparsa del Pontefice e le due guerre che si stanno combattendo ai confini dell’Europa hanno fatto passare in secondo piano gli avvenimenti in corso nel Paese anatolico. La “democrazia” cosi come viene intesa in Occidente viene messa in discussione quotidianamente e, ad avviso di alcuni osservatori, la situazione si avvicinerebbe addirittura di più a quella di una dittatura piuttosto che a un’autocrazia. È anche l’opinione personale espressa da queste colonne dal generale dell’Esercito italiano Giuseppe Morabito, per lungo tempo in missione nei Balcani e oggi, in ausiliaria, membro del Direttorio della NATO Defense College Foundation. Un’analisi pubblicata a pochi giorni dal recente vertice di Roma tra Italia e Turchia, durante il quale la Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni incontrava il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e nello stesso giorno in cui a Istanbul venivano represse duramente dalla polizia le manifestazioni popolari di celebrazione del 1 maggio, la Festa dei Lavoratori

1 maggio 2025, note di redazione – Quest’oggi a Istanbul, nel quartiere di Sisli la polizia ha fermato o tratto in arresto più di quattrocento persone che avevano tentato di manifestare in occasione della festività del Primo Maggio confluendo verso Piazza Taksim. In precedenza, le autorità di sicurezza turche avevano vietato lo svolgimento di manifestazioni di massa. Nell’occasione la polizia ha presidiato in massa l’intero centro della città. Piazza Taksim è il luogo simbolo delle proteste del 2013 contro l’allora primo ministro e attuale presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, questa è dunque la ragione alla base del divieto di svolgimento di manifestazioni sono in quel luogo. Tra i fermati ci sono anche degli avvocati che provavano a seguire i casi degli arresti. Tuttavia, malgrado i divieti diversi gruppi di studenti e di lavoratori hanno tentato egualmente di radunarsi nei punti già precedentemente stabiliti. A Istanbul la situazione permane particolarmente tesa in seguito all’arresto del sindaco Ekrem Imamoglu, effettuato il 19 marzo scorso, personalità politica considerata tra i maggiori oppositori di Erdoğan.

DEFICIT DI DEMOCRAZIA IN TURCHIA

a cura di Giuseppe Morabito – Questa settimana, Italia e Turchia hanno formalizzato undici accordi di cooperazione. Il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan è stato accolto martedì scorso a Roma dalla Presidente del Consiglio dei ministri italiana Giorgia Meloni, con la quale ha affrontato le tematiche relative agli scambi commerciali, alle politiche migratorie e, soprattutto, alla Difesa. Tra gli accordi firmati, il più importante concerne una collaborazione tra Leonardo SpA e la turca Baykar, relativamente alla produzione di droni a uso militare. La visita, focalizzata soprattutto sul miglioramento delle relazioni tra Ankara e Roma ha reso evidente ancora una volta come si pongano centrali le relazioni in ambiti quali la gestione dei flussi migratori e la sicurezza. Erdoğan governa la Turchia in maniera autoritaria. Di recente il suo potere è stato oggetto di proteste in tutto il paese, a seguito dell’arresto per ragioni politiche del sindaco di Istanbul e principale avversario politico del presidente, Ekrem Imamoglu. Tuttavia, di tale nefandezza non se ne è fatto cenno nel corso dell’incontro romano.

IL VERTICE MELONI-ERDOĞAN A ROMA

Tra le questioni trattate a Roma c’è stata l’immigrazione. Giorgia Meloni ha ringraziato Erdoğan per avere «sostanzialmente azzerato» le partenze di migranti dalle coste turche. Inoltre si è parlato anche della Libia, un paese di fondamentale importanza sia per Roma che per Ankara; infine, dei negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina e del conflitto nella Striscia di Gaza. L’intero l’incontro è stato palesemente strutturato allo scopo di evitare momenti imbarazzanti o spiacevoli, ponendo come centrale il tema relativo agli scambi commerciali, che nel 2024 hanno registrato un ammontare di ventotto miliardi di euro e hanno rinvenuto nel citato accordo tra Leonardo SpA e Baykar l’elemento di maggiore importanza. Va al riguardo però rammentato, che, con encomiabile lungimiranza, nell’aprile di quattro anni fa l’allora Presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi ebbe a dichiarare che: «Sotto la guida del presidente Erdoğan la Turchia, nell’ultimo decennio, si è allontanata dallo stato di diritto, dalla democrazia e dalle libertà fondamentali». In sostanza lo definì «un dittatore». Sempre nel 2021, il Presidente del Gruppo del Partito popolare europeo (PPE), Manfred Weber, si allineò a Draghi affermando che «la Turchia non è un paese libero per tutti i suoi cittadini» e «se l’Europa vuole costruire un partenariato costruttivo con Stati come la Turchia, ed è nel nostro interesse strategico farlo, dovremmo parlare chiaramente e onestamente dei fatti sul campo».

FATTI, NON PAROLE

La Turchia ha un parlamento e un presidente eletto, verso il quale si nutrivano (e si nutrono) però una serie di preoccupazioni e con i quali l’Europa coopera in numerosi ambiti. A suo tempo si concluse che si trattava di un quadro complesso, ma che non spettava all’Unione europea qualificare un sistema o una persona. Le preoccupazioni nutrite da Bruxelles nei confronti di Ankara concernevano la libertà di espressione, i diritti fondamentali (inclusi quelli delle donne) e l’indipendenza del sistema giudiziario. Nel Paese dall’inizio di questo mese le ondate di arresti politici sono divenute comuni, ma, se negli anni scorsi venivano giustificandoli con la volontà di Erdoğan di abolire il vigente regime di tutela militare, oggi vengono eseguiti centinaia di tali arresti per ragioni politiche. Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul, dopo essere stato incarcerato è stato posto in isolamento in una cella per cinque settimane e soltanto di recente sono state rese note le sue condizioni di detenzione nel carcere di Silivri. «Ho disegnato la mia stanza e i miei amici l’hanno illustrata», ha ha fatto sapere Imamoglu, uomo politico molto popolare, quindi ritenuto in grado di sconfiggere Erdoğan alle prossime elezioni. I detenuti nelle carceri turche ricorrono ai loro account “X” grazie all’aiuto fornito loro dagli avvocati, poiché non dispongono né di telefoni e neppure di Internet. Imamoglu è stato arrestato cinque settimane fa, il 19 marzo, e da allora non è più apparso in pubblico.

SOFFOCATA L’OPPOSZIONE: L’ARRESTO DI IMAMOGLU

Il 19 marzo più di un centinaio di persone sono state arrestate assieme a lui, mentre il 26 aprile successivo altre cinquantaquattro hanno subito la medesima sorte. La galera in Turchia è divenuta una costante del potere: durante i processi celebrati tra il 2007 e il 2013 erano all’ordine del giorno. «Che succede? Non potete riempire il vostro fascicolo giudiziario vuoto?», scrisse Imamoglu su “X” comentando le ennesime carcerazioni, parole chiaramente rivolte a Erdoğan. «Siete stati ingannati di nuovo? – ha egli aggiunto – Erdoğan è noto per le sue dichiarazioni divisive. Siamo stati ingannati, ha affermato in diverse occasioni. una volta ha dichiarato di essere stato ingannato da Fethullah Gulen», riferendosi al defunto leader dei gulenisti, precedentemente alleati di Erdogan, ma in seguito accusati di aver orchestrato il fallito colpo di stato del 2016. Questo quando il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è al bando da anni. «Coloro che hanno trasformato la magistratura in un apparato governativo continuano a tradire la nazione con nuove operazioni, cercando ciecamente di rimuovere gli ostacoli di fronte a chiunque abbiano venduto il Canale di Istanbul».

IL PROGETTO RELATIVO AL CANALE DI ISTANBUL

Sempre su “X”, il 17 aprile Imamoglu ha sostenuto che è suo convincimento che il governo in carica stava sfruttando la sua prigionia per accelerare il megaprogetto del Canale di Istanbul. La moglie del portavoce di Imamoglu, Murat Ongun, figura tra gli arrestati del 26 aprile scorso. Suo marito ha in seguito dichiarato pubblicamente: «Avete arrestato la mia amata, che non ha commesso alcun crimine prima di diventare mia moglie, all’alba davanti ai miei figli. Pensavo che donne e bambini fossero sacri. Che fossero immuni dai conflitti politici. Non avete coscienza».  Ongun si è quindi appellato ai suoi amici per far sì che i suoi figli non vengano abbandonati mentre i loro genitori sono entrambi detenuti in carcere. La sera del 15 luglio 2016 una parte dell’esercito tentò un colpo di stato contro il presidente Erdoğan attraverso il blocco delle due principali città del Paese, Istanbul e la capitale Ankara. Il parlamento venne bombardato, e il comandante in capo delle forze armate venne preso in ostaggio. I militari golpisti tentarono di catturare anche Erdoğan, che però gli sfuggì.

15 LUGLIO 2016: TENTATO GOLPE O «FAKE GOLPE»?

L’operazione si rivelò organizzata malissimo. I golpisti erano una minoranza all’interno dell’esercito, inoltre scarsamente coordinati tra loro. Nel giro di qualche ora le forze fedeli a Erdoğan riuscirono a riprendere il controllo della situazione e alle primissime ore del mattino del giorno seguente tutto si esaurì. Nonostante questo, più di duecentocinquanta persone vennero uccise, si trattò in massima parte di cittadini che durante la notte erano scesi in piazza a sostegno di Erdoğan, mentre oltre duemila rimasero ferite. Da anni si mette in dubbio l’effettiva organizzazione del golpe. Chi conosce la reale efficienza delle forze armate turche rileva la impossibilità che un colpo di stato possa essere stato cosi male organizzato. Fatto è, che in seguito il Paese è cambiato in maniera profonda. Si è parlato di fake golpe, che sarebbe stato organizzato dalle frange dei servizi segreti che sostenevano Erdoğan allo specifico intento di eliminare i suoi avversari politici. Apparve quantomeno strano, se non addirittura improbabile, che i ribelli non fossero riusciti ad arrestare il Presidente e che, inoltre, soltanto parte delle forze armate abbia cospirato contro di lui. In quelle ore cruciali, il mancato controllo dei media e dello spazio aereo ingenerò dei sospetti, poiché – si osservò – i colpi di stato nel continente africano sarebbero stati organizzati molto meglio.

NULLA È PIÙ COME PRIMA

L’immagine di Erdoğan divenne quella della vittima, ed egli seppe approfittarne per liberarsi dei suoi nemici interni. Accusò Fethullah Gülen e la sua organizzazione di aver messo in piedi l’operazione, e avviò una campagna di eliminazione delle minacce interne, che condusse all’arresto di centinaia di migliaia di persone e al licenziamento di altre centinaia di migliaia dagli incarichi pubblici ricoperti nell’esercito, nell’istruzione e nel sistema giudiziario, seppure molti di loro non avessero nulla a che fare con il tentato golpe. Da allora arresti e condanne non si sono mai interrotti. Non solo: anche la politica turca è cambiata, perché Erdoğan si è rafforzato e ha iniziato ad varare misure sempre più autoritarie e liberticide, che hanno colpito l’opposizione. È mutata anche l’economia e la politica estera, sempre più scostata dalla NATO, organizzazione della quale la Turchia è membro, per approcciare la Russia e la Cina Popolare. Nel vertice romano il Presidente turco ha ringraziato l’Italia e il Governo Meloni per il loro sostegno all’ingresso di Ankara nell’Unione europea. Per la verità, va ricordato come la leader del partito attualmente di maggioranza relativa prima di assumere il potere a Palazzo Chigi si disse contraria all’ingresso della Turchia nella compagine comunitaria, chiedendo addirittura la revoca dello status di paese candidato ad Ankara, sostenendo che un ingresso del Paese anatolico avrebbe provocato «l’islamizzazione dell’Europa». Ma, pecunia non olet: i quasi trenta miliardi di scambi commerciali inducono a chiudere un occhio sull’interpretazione della democrazia da parte di Recep Tayyip Erdoğan.

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