ECONOMIA, Usa-Cina. Tregua sui dazi di Trump: accordo sulla «fase uno», ma ci sarà una «fase due»?

Grandi le aspettative, tuttavia sono fondati i dubbi sulla prosecuzione di un’intesa che sconta gli effetti delle dinamiche della globalizzazione dei decenni passati e dello strapotere del dollaro

Usa e Cina hanno avviato una nuova fase (distensiva) nei rapporti bilaterali in campo economico? È l’inizio della fine dell’era dei dazi commerciali imposti dall’amministrazione presieduta da Donald Trump?

Forse no, ma è presto per dirlo. Dopo due anni di guerra commerciale, scatenata da Washington a colpi di dazi e combattuta dalla potenza capitalista emergente (la Cina comunista) con varie armi, non esclusa quella della svalutazione della propria moneta, ieri i belligeranti sono pervenuti alla firma di una “tregua”.

Nella East Room della Casa Bianca, alla presenza di varie personalità – l’ex segretario di stato Henry Kissinger, il consigliere economico del presidente Larry Kudlow, il segretario al Commercio Wilbur Ross, Ivanka Trump e suo marito Jared Kushner – il presidente Trump e il vice premier cinese Liu He hanno siglato l’accordo che avvia la cosiddetta (e attesa) «fase uno» dell’accordo in campo economico tra le due maggiori potenze mondiali.

Per la parte cinese i termini dell’accordo prevedono l’acquisto di ulteriori beni e servizi prodotti negli Stati Uniti d’America per  un valore complessivo di duecento miliardi di dollari.

Pechino si è anche impegnata a non procedere nuovamente nelle sue classiche svalutazioni della propria moneta e, inoltre, a comunicare con regolarità interventi sul renminbi/yuan, consultandosi sul mercato valutario.

Infine, a partire da aprile la Repubblica Popolare consentirà il pieno controllo da parte di società finanziarie straniere.

Dal canto loro, gli Usa hanno assunto l’impegno della revoca dei nuovi dazi recentemente imposti ma non applicati – sarebbero dovuti scattare il 15 dicembre scorso, ma sono stati “congelati” in vista della firma di questo accordo – per  un ammontare del 15% su circa 160 miliardi di dollari di propri prodotti.

Permangono tuttavia ancora in vigore quelli al 25% su 250 miliardi di dollari di importazioni da Pechino, mentre verranno ridotte al 7,5% le tariffe imposte sulle categorie residuali di prodotti cinesi, per un totale stimato in 120 miliardi di dollari.

Nell’occasione Trump ha pubblicamente affermato che «i dazi esistenti saranno rimossi quando la fase due verrà completata» aggiungendo poi di non intravedere la necessità di una Fase tre.

Ma non sono pochi i dubbi sollevati dagli analisti economici riguardo a questo importante accordo, interrogativi ingenerati dai comportamenti e dalle prospettive a breve-medio termine da entrambe le parti.

I cinesi nel recente passato hanno dichiarato ufficialmente che avrebbero incrementato significativamente le importazioni di beni statunitensi, ma alle dichiarazioni non sono però seguiti i fatti, per lo meno non nei termini che ci si attendeva.

Inoltre, resta aperto il controverso fondamentale problema delle tecnologie di Pechino che rappresentano una delle fonti di tensione tra i due Paesi, principalmente i divergenti standard applicati e la questione del 5G nelle comunicazioni.

Per quanto riguarda gli americani, questa pubblicizzata scelta potrebbe rinvenire le sue ragioni soprattutto sul piano della comunicazione e della propaganda in vista della prossima campagna elettorale per le presidenziali negli Usa.

Trump e il suo partito guarda infatti con interesse al proprio elettorato, in particolare a quella fascia di popolazione americana delusa degli Stati dell’Unione maggiormente colpiti dalla crisi seguita alla delocalizzazione degli anni precedenti, come quelli manifatturieri che hanno visto nel tempo chiudere le fabbriche e ridursi l’occupazione.

In questo senso, tenendo bene presente che il deficit Usa (della bilancia dei pagamenti e commerciale) costituisce ormai da decenni un cardine dell’economia.

L’America “a debito” dalla fine del Gold Standard emette dollari e li impone a tutto il  mondo, ma con l’implementazione della globalizzazione – che era rimasta semicongelata per tutto il periodo della Guerra fredda – ciò ha fatto sì che le potenze nel frattempo emerse attraverso questo sistema con i biglietti verdi stampati si siano gradualmente comprati notevoli quote del debito pubblico di Washington (il più grande del mondo) oltre ad altri suoi importanti asset.

E questo all’elettorato statunitense colpito da queste dinamiche non va più bene, dunque cerca in “uomo forte” come Trump qualcuno che tali dinamiche almeno le freni.

A questo punto l’interrogativo preoccupante: l’accordo di ieri verrà rispettato? Insomma, è destinato a durare anche con riguardo a economie globalizzate e a tal punto interconnesse come quelle di Usa e Cina?

I dazi di Trump non faranno ripartire il manifatturiero e l’agricoltura del  Mid West come un tempo, poiché la divisione del lavoro di questo inizio di terzo millennio non ne verrà intaccata. I risultati ottenuti ieri dai negoziatori statunitensi andrebbero dunque ridimensionati nella loro portata, poiché destinati a spiegare i loro effetti “riequilibratori” in un termine temporale non a caso coincidente con la travagliata campagna elettorale del tychoon.

Due anni passeranno in fretta e, salvo il verificarsi di eventi che lo rimetteranno in discussione, questo accordo permarrà in vigore il tempo utile a Trump per cercare di ottenere un secondo mandato alla Casa Bianca.

Soltanto in quel momento si potrà verificare la solidità dell’intesa e l’eventuale passaggio alla sua «fase due».

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