AEROSPAZIO, droni armati. Le recenti esperienze maturate nei teatri bellici hanno imposto prepotentemente all’attenzione il ruolo di questi sistemi d’arma

In Libia e in Nagorno-Karabakh hanno drammaticamente posto il dilemma relativo alla difesa dai sistemi a pilotaggio remoto, che, secondo non pochi analisti della materia, avrebbero ridisegnato i contorni della guerra moderna

Nel corso dei combattimenti in Libia e nel Nagorno-Karabakh dello scorso anno, i sistemi a pilotaggio remoto (SAPR, noti anche come UCAV, unmanned combat air vehicle) hanno spesso distrutto i sistemi delle difese aeree basati a terra, sistemi d’arma concepiti per la loro neutralizzazione, facilitando così le successive operazioni delle unità di fanteria e corazzate contro le forze nemiche, divenute vieppiù vulnerabili.

Eventi come la distruzione del sistema antiaereo e antimissile di produzione russa S-300 in dotazione alle forze armene, colpito da un UCAV azero di produzione israeliana (si è trattato di uno IAI Harop, drone anti-radiazioni ottimizzato per la funzione SEAD), evidenziano come il mutevole bilancio delle effettive capacità tra le piattaforme a pilotaggio remoto e dei conflitti nel prossimo futuro.

Lessons learned

In un recente articolo a firma Tom Kington pubblicato dal sito web specializzato defensenews.com, viene ripresa l’opinione recentemente espressa da un ricercatore britannico presso il Royal United Institute, Justin Bronk. Egli ha sottolineato come le ultime esperienze maturate nel Caucaso e in Nord Africa abbiano dimostrato che  «se una forza schierata non è in grado di difendere il proprio spazio aereo, l’impiego su larga scala di UAV da parte nemica può rendergli la realtà estremamente pericolosa».

In Libia la conferma a questo assunto è invece pervenuta dall’UCAV Bayraktar TB2 turco, sistema d’arma fornito da Ankara alle forze di tripoli sue alleate, impiegati con successo dal dispositivo schierato dal presidente Fajez al-Serraj, trovatosi assediatosi nella capitale. Gli UCAV di produzione (e impiego?) ceduti da Erdoğan al Governo di Tripoli si sono rivelati decisivi contro i sistemi missilistici antiaerei mobili di produzione russa Pantsir S-1 (SA-22 Greyhound) che il generale Khalifa Haftar aveva ricevuto attraverso una triangolazione con gli Emirati Arabi Uniti (EAU) che lo sostenevano.

TB-2 vs Pantsir S-1

Il Pantsir fino ad allora si era dimostrato una temibile minaccia sia per i TB-2 turchi che per i MQ9 Reaper, abbattendo due di questi ultimi UCAV, uno statunitense e uno dell’Aeronautica militare italiana.

Tuttavia, i TB-2 sono stati in grado di ingaggiare con successo i bersagli nemici facendo fuoco da distanze al di fuori della portata di questi ultimi. Non solo, conflitto durante, i tecnici di Ankara hanno anche apportato significative migliorie ai loro sistemi d’arma intervenendo sul software del drone, giungendo in questo modo a impiegare con elevati termini di risultato quegli stessi UCAV nel successivo conflitto nel Nagorno-Karabakh, tra il mese di settembre e quello di novembre dello scorso anno.

In particolare, è stato accertata la letalità del binomio tra il drone TB-2 e il munizionamento di produzione israeliana IAI Harop, sistemi compatibili tra loro, tenuto conto che Ankara fino al momento della dura crisi politico-diplomatica con Gerusalemme, che ha comportato limitazioni alle importazioni di materiali di armamento dallo Stato ebraico, l’impresa turca Bayraktar aveva impostato il suo UCAV sulla base dei profili del monomotore IAI Heron, macchina che ha poi venduto anche al Qatar d all’Ucraina.

Una minaccia da non sottovalutare

Insomma, quella degli UCAV è divenuta una minaccia oltremodo seria, soprattutto per quelle forze che, temporaneamente oppure per propria conformazione, non possono disporre di una copertura amica dello spazio aereo sovrastante il campo di battaglia, poiché, qualora impiegati in quantità significative, queste sofisticate piattaforme a pilotaggio remoto possono incrementare sensibilmente la vulnerabilità del dispositivo schierato a terra.

L’analista in materia di UCAV presso il think tank Royal United Services Institute or Defence and Security Studies, ha comunque concluso riconducendo il discorso nei termini reali, affermando che in ogni caso «neppure i droni sono invulnerabili, perché, ad esempio risentono molto dei disturbi elettronici intenzionalmente prodotti dagli avversari», come è avvenuto in Siria a causa del jamming generato dalle unità di guerra elettronica russe giunte in appoggio alle forze di al-Assad.

Bronk per il futuro prevede che, soprattutto le forze armate sguarnite sul lato della componente aeronautica, indirizzino sempre più i loro investimenti verso nuove componenti della difesa aerea ritenute efficaci nei confronti dei droni al fine di bilanciarne il potenziale offensivo.

I possibili rimedi

Egli ha fatto esplicito riferimento al sistema russo 9K37M1-2 Buk-M1-2 (NATO SA-17 Grizzly), semovente antiaereo che ha sostituto in linea il SA-11 Gadfly. Il SA-17 ha una gittata di settantacinque chilometri, quindi molti di più rispetto ai dieci dei missili lanciati dal TB-2, ma, secondo Bronk un’alternativa valida risiede anche nel più economico e contenuto sul piano delle prestazioni 9K330 Tor (NATO SA-15 Gauntlet), i cui missili hanno un raggio di azione fino a dieci chilometri.

In Occidente si rinvengono invece sistemi quali il NASAMS (National Advanced Surface-to-Air Missile System, missile dalla gittata di quindici chilometri che fa attualmente parte della cintura difensiva della capitale statunitense Washington), oppure il NASAMS 2, che ha un raggio d’azione di oltre trenta chilometri.

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