LIBIA, conflitto e petrolio. Gli Usa incontrano Haftar. Nella delegazione anche Matthew Zais, vicedirettore aggiunto presso Il Dipartimento energetico

Perché si muovono gli americani? Per i petrolieri italiani uno sviluppo che potrà avere esiti positivi; Marsiglia (Federpetroli): «Se si sono mossi gli Stati Uniti, a breve si vedranno dei risvolti nella vicenda».

La notizia è ufficiale: domenica scorsa una delegazione statunitense ha incontrato in Libia il generale Khalifa Haftar per discutere con lui sulla situazione nel paese nordafricano.

Scarno e prevedibile il comunicato stampa ufficiale diffuso dal Dipartimento di Stato di Washington: «I funzionari statunitensi – vi si legge infatti – hanno incontrato il generale Khalifa Haftar domenica per discutere con lui i passi finalizzati al raggiungimento della sospensione delle ostilità e di una risoluzione politica del conflitto in atto».

In essa viene inoltre sottolineato il pieno sostegno fornito da Washington al mantenimento della sovranità e dell’integrità territoriale libica, esprimendo al contempo anche «una seria preoccupazione per lo sfruttamento del conflitto da parte della Russia a spese del popolo libico».

Gli Stati Uniti si sono dunque seduti al tavolo con l’uomo forte di Tobruk, l’ex ufficiale dell’esercito di Muhammar el-Gheddafi che è in guerra ormai da anni con il presidente libico internazionalmente riconosciuto, quel Fayez al-Serraj fortemente sostenuto dall’Italia.

Del fatto che a Washington non stessero scherzando si è avuta conferma (anche) dalla delegazione inviata su quel lembo insanguinato di Nord Africa, poiché essa includeva Victoria Coates (vice consigliere per la Sicurezza nazionale per gli affari del Medio Oriente e del Nord Africa), Richard Norland (ambasciatore statunitense in Libia), il brigadier generale Steven deMilliano (alto ufficiale di US Africom, il comando strategico competente per territorio) e Matthew Zais (vice segretario principale per gli affari internazionali presso il Dipartimento dell’energia degli Usa).

E, proprio quest’ultimo ha avuto poi modo di twittare che è stato «un colloquio proficuo ieri con il generale Haftar. Gli Stati Uniti vogliono lavorare con la Libia per far sì che possa uscire dalla guerra civile in grado di amministrare in modo efficace le risorse energetiche libiche per il bene di tutti i libici».

I colloqui sono avvenuti a distanza di più di sette mesi dall’avvio dell’offensiva delle forze del Libyan National Army di Haftar, che hanno puntato su Tripoli, sede del governo di concordia nazionale presieduto da al-Serraj, questo mentre la Germania continua a lavorare alla Conferenza di Berlino sulla Libia.

Il generale di Tobruk in questo momento controlla buona parte della Libia orientale e alcune zone del sud.

Le conseguenze di questo apparente cambio di passo si rifletteranno anche sull’Italia, ma allora in che modo va interpretata la missione diplomatico-militare americana?

È possibile leggerla semplicisticamente come un’avvenuta formalizzazione della decisione di “scaricare” al-Serraj in vista di una successiva ricomposizione guidata del quadro complessivo libico, tenendo però in debito conto il generale alleato di emiratini, egiziani, francesi e russi?

Quegli stessi Russi che da qualche tempo in Medio Oriente e Nord Africa compaiono sempre più stesso, e non soltanto nelle frasi allarmanti dei disperati lanci di agenzia di libyaobserver.ly, il sito web di informazioni riconducibile al governo di Tripoli, che non perde l’occasione per rimarcare la partecipazione dei contractors russi del Gruppo Wagner ai combattimenti nei sobborghi periferici della capitale.

Un allarme per altro recentemente avvalorato nel corso del briefing dell’inviato Onu in Libia Ghassan Salame al Consiglio di Sicurezza, che non ha mancato di avvertire sulla rilevanza dei «chiari effetti» dell’intervento di attori esterni in Libia.

Nei vari paesi dell’Africa settentrionale Washington schiera attualmente qualcosa come tremila militari, un dispositivo che ha conosciuto un incremento proprio a partire da quello che avrebbe dovuto essere un presidente isolazionista, cioè quel Donald Trump dei disimpegni delle forze armate Usa dalle aree di crisi sparse nel mondo.

Anche in una regione ritenuta tutto sommato secondaria negli scenari internazionali come il Maghreb, dove al pari del resto del pianeta Usa e Cina si scontrano per l’egemonia.

La Libia non sfugge a queste inesorabili leggi, che – paradossalmente – per decisione del governo di al-Serraj ha aderito al progetto della cosiddetta «Via della seta» cinese, avendo allo stesso tempo unità militari statunitensi sul proprio territorio.

La Libia, seppure ormai frammentata, permane in ogni caso un paese dove l’Italia esercita ancora una certa influenza.

Roma però non può farcela da sola in Libia e allora nel recente passato è andata a chiedere aiuto agli americani, tuttavia i rapporti internazionali sono estremamente complicati, dettati dai più vari  variegati interessi.

Fino a domenica scorsa Washington ha giocato a far credere a molti di avere due piedi in due staffe, di sostenere Tripoli ma anche Tobruk, dichiarando sempre nelle sedi ufficiali (ma questo è ovvio) di sostenere il governo legittimo, cioè quello di al-Serraj, che è riconosciuto dall’Onu ed è appoggiato, oltreché da Roma, anche da Ankara e Doha.

Ma, la firma del memorandum sulla Via della seta stipulato nel marzo scorso dal Governo Conte 1 ha infastidito non poco gli americani, che hanno reagito lasciando campo libero ad Haftar, permettendogli di raggiungere con le sue forze la periferia di Tripoli. Una dinamica che ha creato molti problemi all’Italia.

Ma a Washington non interessava che il generale di Tobruk conquistasse la capitale libica attraverso la completa debellatio del suo rivale al-Serraj, a loro andava benissimo anche una prolungata impasse.

In fin dei conti è un comportamento sulla falsariga di quello posto in essere nel 2011, quando francesi e britannici ritennero di poter abbattere il colonnello Gheddafi attaccandolo militarmente facendo al contempo affidamento su milizie e tribù sue rivali.

A quel tempo gli americani rimasero alla finestra a guardare con indifferenza cosa accadeva, poi, costretti dai bisogni dei loro alleati (Parigi e Londra esaurirono infatti le scorte di munizionamento di precisione) dovettero intervenire, ma con scarso entusiasmo, trascinandosi dietro i jet fighters di un ormai vacillante governo Berlusconi.

E oggi? Si tratta di uno sviluppo non indifferente che viene osservato con estrema attenzione dall’Italia, dove numerosi operatori del settore dell’Oil & gas nutrono rilevanti interessi nel Paese nordafricano sconvolto dalla guerra civile.

Secondo Michele Marsiglia, presidente di FederPetroli Italia, si tratterebbe invece di «un segnale evidente che finalmente qualcosa si muove. Gli Stati Uniti non sono così facili a rendere pubbliche questo tipo di meeting, specialmente adesso. La cosa che per noi dà importanza all’incontro è che oltre all’ambasciatore americano in Libia Richard Norland e ad alcuni consiglieri, era presente all’incontro il vicedirettore aggiunto del Dipartimento energetico Matthew Zais. Se si sono mossi gli Stati Uniti, a breve si vedranno dei risvolti nella vicenda, specialmente sul piano energetico e in vista di prossime elezioni”.

Egli ha quindi aggiunto: «Adesso più che mai la situazione politica a Tripoli inizia a essere meno di azione ma più istituzionale e di confronto, a questo punto anche le aziende dell’Oil & Gas potranno iniziare a ragionare con una visione diversa, tempo al tempo. L’Italia energetica oggi deve essere vigile e presente in Libia con l’aiuto del Governo italiano, altrimenti perderemo importanti occasioni economiche».

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