ANNI DI PIOMBO, Giorgiana Masi. A 45 dall’uccisione della giovane militante radicale sul fatto permangono le zone grigie

Il 12 maggio 1977 a Ponte Garibaldi a Roma una ragazza veniva assassinata con un colpo di pistola. A distanza di decenni non ha avuto ancora giustizia. Di seguito pubblichiamo la ricostruzione dei fatti di Gianluca Ruotolo, tratta da un suo articolo di stampa pubblicato da “ilformat.info” il giorno dell’anniversario di quella morte

di Gianluca Ruotolo, pubblicato da “ilformat.info” 13 maggio 2022, https://ilformat.info/2022/05/13/12-maggio-1977-una-ragazza-di-nome-giorgiana/Il 1977 in Italia fu un anno terribile. La primavera di violenza iniziò l’11 marzo a Bologna con l’omicidio di Pierfrancesco Lorusso, militante di Lotta Continua. Il giorno successivo a Torino fu ucciso il brigadiere Giuseppe Ciotta mentre il 22 a Roma l’agente Claudio Graziosi cadde ucciso dal nappista Antonio Lo Muscio cercando di arrestare la terrorista Maria Pia Vianale su un autobus. Nel pomeriggio Angelo Cerrai, una guardia zoofila in borghese, fu ucciso per errore dalla polizia mentre inseguiva i nappisti con la pistola in pugno. Un mese dopo, il 21 aprile, una nuova fiammata: la polizia, nelle prime ore del mattino, sgomberò l’Università di Roma occupata da studenti vicini all’area dell’Autonomia e più tardi, nel pomeriggio, elementi vicini agli autonomi reagirono con spari e con il lancio di bottiglie Molotov.

ANNI DI PIOMBO

Nel quartiere di San Lorenzo altri manifestanti aprirono il fuoco contro le forze dell’ordine ferendo l’agente Antonio Merenda e altri due poliziotti, oltre ad un carabiniere. Subito dopo un giovanissimo agente di ventidue anni, Settimio Passamonti, venne raggiunto da due colpi di pistola morendo sul colpo. Nel corso degli incidenti rimase ferita anche la giornalista Patrizia Bermier. Il 22 aprile il ministro dell’interno Francesco Cossiga annunciò in Parlamento di aver vietato nella capitale e nel intero Lazio, fino al successivo 31 maggio, tutte le manifestazioni pubbliche. Nella sua relazione al Parlamento il ministro Cossiga, citando una famosa lirica di Pasolini, dichiarò: «Deve finire il tempo dei figli dei contadini meridionali uccisi dai figli della borghesia romana».

Il provvedimento inizialmente era stato votato dal comitato interministeriale per la sicurezza a capo del quale sedeva il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Successivamente, e nonostante qualche tentennamento, lo aveva approvato anche il ministro dell’Interno Cossiga con il sostegno del Partito comunista italiano (Pci), partito politico che in quel periodo faceva parte della maggioranza di solidarietà nazionale. Il Pci chiedeva «fermezza, ordine, sicurezza nella democrazia», valutando i fatti come un «criminoso assalto armato allo Stato e alla società».

SOLIDARIETÀ NAZIONALE

Nel periodo della solidarietà nazionale che riuniva in una maggioranza blindata Democrazia cristiana (Dc) e Pci gli spazi di opposizione erano molto ristretti. In Parlamento i più duri contro il governo Andreotti erano i Radicali e Lotta continua, che assieme ai movimenti e alla sinistra extraparlamentare conducevano la loro battaglia anche nelle piazze. Per loro e per gran parte del mondo giovanile, il ministro era «Kossiga» con le due esse del cognome scritte con le rune, alla tedesca, come facevano le SS. Non era una novità, poiché anni prima anche il cognome del segretario di stato americano Henry Kissinger era stato scritto allo stesso modo. In quella fase gli spazi politici praticabili erano ridotti e il Partito Radicale organizzò per il 12 maggio in piazza Navona un sit-in in occasione del terzo anniversario del referendum sul divorzio, una iniziativa che avrebbe dovuto servire a raccogliere firme per sostenere altri referendum abrogativi. Nonostante il divieto la manifestazione si svolse comunque e registrò la presenza di circa cinquemila agenti delle forze dell’ordine in assetto antisommossa e, soprattutto, di numerosi agenti in borghese mimetizzati tra la folla.

DEMOCRAZIA BLINDATA

Nel pomeriggio la polizia chiuse gli accessi a piazza Navona e nel corso della giornata si verificarono numerosi incidenti con il lancio di bombe incendiarie e colpi d’arma da fuoco. Verso sera, intorno alle sette, ci fu un tentativo di mediazione da parte di alcuni parlamentari che cercarono un accordo con le forze dell’ordine per consentire ai manifestanti di lasciare il centro muovendosi verso viale Trastevere. L’onorevole Mimmo Pinto, deputato di Lotta Continua, qualificandosi tesserino parlamentare alla mano, venne sollevato di peso dalla polizia e allontanato dalla piazza. Da quel momento in poi la situazione precipitò e scoppiarono gli incidenti più gravi. Secondo quanto dichiarato alla Camera il giorno successivo dal ministro dell’Interno Cossiga, i manifestanti a un certo punto avrebbero assalito le forze di polizia in piazza San Pantaleo, mentre più tardi, verso le ore sette del pomeriggio, avrebbero eretto due barricate, una in via Arenula e un’altra su ponte Garibaldi, mettendo di traverso alcune automobili e prelevando il carburante poi incendiato a terra allo scopo di creare una cortina fumogena.

CADUTA A TERRA «COME FOSSE INCIAMPATA»

Proprio durante l’evacuazione vennero lanciati dei fumogeni e anche esplosi colpi d’arma da fuoco, provenienti a quanto sembra dallo stesso Ponte Garibaldi. Mentre i manifestanti si allontanavano venne ferito a un polso l’allievo sottufficiale dei Carabinieri Francesco Ruggeri. Oltre a lui vennero colpite altre sette persone, fra cui la giovane Elena Ascione, che rimase ferita a una coscia. Intorno alle ore venti molti manifestanti si trovavano ormai oltre il ponte, in piazza Giuseppe Gioacchino Belli e, sulla base delle varie testimonianze rese da chi si trovava in quel luogo in quei momenti, la Masi cadde a terra «come fosse inciampata». La giovane, invece, era stata colpita all’addome da un colpo d’arma da fuoco. Venne immediatamente caricata su una vettura che la trasportò all’ospedale dove, però, giunse cadavere. Nel corso delle operazioni di polizia vennero identificate quarantanove persone, delle quali undici in seguito tratte in arresto per vari reati, tra i quali quelli di tentato omicidio, lesioni personali e porto abusivo di armi.

INFILTRATI TRA I DIMOSTRANTI

Nei giorni successivi divampò una polemica durissima. Molti testimoni protestarono contro la brutalità della forze dell’ordine riferendo che alcuni poliziotti avevano sparato con il fucile mentre una guardia municipale avrebbe a sua volta esploso alcuni colpi di pistola all’ indirizzo dei dimostranti. In molti, tra cui i parlamentari radicali Mimmo Pinto e Marco Pannella, sottolinearono nelle loro dichiarazioni la presenza di agenti in borghese infiltrati tra i dimostranti, sostenendo la loro responsabilità negli incidenti. L’autore dell’omicidio rimase ignoto, tuttavia vi fu un durissimo scambio di accuse. I radicali pubblicarono un libro bianco completo, “12 maggio ore 13, la ricostruzione della strage attraverso le testimonianze”, adombrando le gravi responsabilità del ministro dell’Interno, il quale, dal canto suo, negò che la polizia avesse mai fatto uso d’armi da fuoco, al contrario di quanto sostenuto dai radicali nella loro pubblicazione di denuncia, dove invece si sosteneva il contrario sulla base di un filmato.

IL VIDEO DENUNCIA DEI RADICALI

Si tratta di un video di sei minuti e mezzo autoprodotto dai radicali e da Lotta Continua, un documento impressionante oggi visibile in rete in cui fanno da commento alle immagini le parole pronunciate alla Camera dei Deputati dal ministro Cossiga e del sottosegretario Lettieri, che esclusero esplicitamente l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, questo mentre il filmato mostrava almeno due agenti di polizia in uniforme che, pistola in pugno, sparavano ripetutamente da dietro una colonna. Prima e dopo si vedevano anche alcuni altri poliziotti sparare con il fucile, presumibilmente per lanciare dei candelotti lacrimogeni e si riconosceva inoltre chiaramente l’agente Giovanni Santone in abiti civili e armato di pistola. Veniva ripreso anche Mimmo Pinto quando sollevato di peso dalla polizia e allontanato dalla piazza. Secondo le opposizioni, il comportamento delle forze dell’ordine si desumeva anche da centinaia di fotografie che ritraevano agenti armati «travestiti da “autonomi” e dispersi nella folla tra i manifestanti».

L’INTERVISTA DI “REPUBBLICA” DEL 2017

Tra i poliziotti venne riconosciuto il citato Santone, infiltrato in abiti borghesi, che indossava un maglione e recava al seguito una borsa di pelle tipo “Tolfa” serrando nel proprio pugno una pistola. In quei giorni il disegnatore satirico Giorgio Forattini realizzò una vignetta divenuta celebre che raffigurava Cossiga vestito come quel poliziotto e con la pistola in mano. Trent’anni dopo i fatti, nel 2017, Santone rilasciò un’intervista al quotidiano “La Repubblica”, la prima, nella quale dichiarò di aver solo ubbidito agli ordini ricevuti dai suoi superiori. Egli affermò inoltre di non essere obbligato all’uniforme in qualità di guardia di Pubblica Sicurezza e di aver usato la borsa di pelle come portaoggetti per le sigarette, il portafoglio e la carta igienica. Nella medesima intervista, Santone sostenne che Cossiga era stato «il più grande ministro dell’Interno di sempre» e, soprattutto, sottolineò come Giorgiana Masi fosse rimasta vittima di «fuoco amico», ribadendo così la propria estraneità ai fatti, rammentando infine anche le numerose minacce ricevute al telefono, alle quali lui aveva risposto con degli insulti.

«IGNOTI PROVOCATORI»

I radicali chiesero più volte l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, mai insediata, ribadendo sempre la responsabilità morale di Cossiga, che però venne sempre respinta da quest’ultimo, che invece la rimpallava a Marco Pannella, poiché, «nonostante il divieto aveva deciso di promuovere la manifestazione senza curarsi del grave rischio di scontri e incidenti nei quali vennero coinvolti i partecipanti». Cossiga, anzi, si dichiarò pronto a dimettersi a una condizione: quella di avere «le prove che la polizia aveva sparato». L’inchiesta giudiziaria sui fatti del 12 maggio 1977 venne chiusa tre anni dopo, il 9 maggio 1981, dal giudice istruttore Claudio D’Angelo su conforme richiesta del Pubblico ministero, con la dichiarazione di impossibilità di procedere «poiché rimasti ignoti i responsabili del reato». Nella sentenza si escludeva la responsabilità sia dei Radicali, «considerati notoriamente nonviolenti», che delle forze dell’ ordine, mentre invece veniva sostenuto che «dopo la rimozione delle barricate i colpi sarebbero stati esplosi indiscriminatamente da ignoti provocatori».

DEPISTAGGI E RITROVAMENTI

Vent’anni dopo i fatti, nel 1997, il neofascista Angelo Izzo accusò Andrea Ghira, suo complice nel massacro del Circeo, di avere sparato a quella manifestazione solo per colpire una qualunque femminista. Si trattava di dichiarazioni spontanee rese a un giudice, tuttavia totalmente inventate e prive di alcun fondamento. Ghira, infatti, dal giugno 1976 risultava arruolato nel Tercio, la “legione straniera” spagnola, utilizzando il falso nome di Massimo Testa de Andrés, egli pertanto non poteva essere presente a Roma nel 1977, come in seguito accertato sulla base dei documenti di espatrio. Insomma, parole in libertà. L’anno successivo (1998), le indagini vennero riaperte a seguito del casuale ritrovamento nell’intercapedine di un bagno dell’università di Roma “La Sapienza” di una pistola Beretta mod. 70 a canna corta. L’arma, abbandonata da molti anni, venne confrontata con il proiettile che aveva ucciso la Masi nel quadro di un’indagine su Fabrizio Nanni, esponente dell’Autonomia che era deceduto nel 1979, fratello della brigatista rossa Mara Nanni. L’inchiesta aveva preso avvio da alcune dichiarazioni rese da un testimone anonimo, secondo il quale il Nanni avrebbe colpito la Masi per errore. Vennero disposte perizie balistiche su tutte le pistole calibro 22 trovate nei covi delle Brigate rosse, ma senza alcun esito.

LA VERSIONE DI COSSIGA

Nei decenni successivi Cossiga tornò più volte sull’argomento mediante affermazioni via via diverse e tra di loro contraddittorie. In un’intervista rilasciata al giornalista Aldo Cazzullo trent’anni dopo i fatti, il Presidente emerito si disse pentito delle maniere forti usate contro il movimento, giungendo ad ammettere che la sera del 12 maggio erano presenti tra la folla agenti provocatori armati appartenenti alla polizia, ma «a sua insaputa». La responsabilità venne scaricata sul questore di Roma che lo aveva tenuto all’oscuro e che, per tale motivo, sarebbe stato immediatamente rimosso. Sul nome dell’ assassino rispose: «La verità la sapevamo in quattro: il Procuratore della Repubblica di Roma, il capo della Squadra Mobile, un maggiore dell’Arma dei Carabinieri e io. Ora siamo in cinque: l’ho rivelata a un deputato di Rifondazione comunista che continuava a rompermi le scatole. Non la dirò in pubblico per non aggiungere dolore a dolore».

UNA ULTERIORE VERSIONE DEI FATTI

Già un paio di anni prima egli era intervenuto attraverso un’intervista rilasciata a “La Repubblica”, nella quale, esprimendo non pochi dubbi, ascriveva invece la responsabilità dell’omicidio di Giorgiana Masi ai compagni di quest’ultima, che sarebbe stata uccisa «da colpi vaganti sparati da dimostranti, forse suoi compagni e amici con i quali si trovava, contro le forze dell’ordine». «Il terribile dubbio serpeggiò allora tra i servizi investigativi – sottolineò in quell’occasione Cossiga – e venne poi confermato in tempi recenti dal Prefetto Fernando Masone, ex capo della Polizia. Ho taciuto fino ad ora, salvo che con un amico deputato di sinistra radicale, per motivi di carità».

Cossiga negò recisamente la responsabilità dei carabinieri, sostenendo che «il reparto che si trovava dall’altra parte del ponte, subito accusato di aver aperto il fuoco, per ordine dell’Autorità giudiziaria fu disarmato da elementi della Squadra Mobile e, alla perizia, risultò che nessun colpo era stato sparato».

IL LIBRO DELL’AGENTE «BETULLA»

Nel 2011 usci postumo il libro-intervista Cossiga “mi ha detto”, di Renato Farina. Va detto che l’autore era anche membro dei servizi con il nome di copertura «agente betulla» e che quel volume venne duramente criticato da Pasquale Chessa, biografo di Cossiga, che in una intervista rilasciata al settimanale “l’Espresso” nel luglio 2011, non solo avanzò una serie di dubbi sulla sua attendibilità, ma affermò anche attraverso un gioco di parole che «gli scoop di Farina erano farina del sacco di (Pio) Pompa», noto agente segreto dell’epoca che ebbe per altro anche alcuni problemi giudiziari. Chessa mise in evidenza gli errori contenuti nel libro, asserendo che anche Giuseppe Cossiga, figlio del Presidente emerito, era stato contrario alla sua pubblicazione. Nel libro Farina riferiva una pretesa verità «dolorosa» sull’omicidio della Masi, senza però portare prove a sostegno. Chi era l’ assassino secondo Cossiga? Ecco la risposta. «È stato il fidanzato [Gianfranco Papini]. Ha tentato di uccidersi. Una sera ha tentato di uccidersi. Quando vennero a dirmelo i magistrati, c’erano carabinieri e poliziotti. E dissi: “Non tocca a me dirvelo, lasciamo correre e non aggiungiamo dolore a dolore (…)».

È STATO IL FIDANZATO

«Il fidanzato stava sparando contro i carabinieri al di là del ponte e ha sbagliato, si è spostata la fidanzata e… ora credo sia giunto il tempo, da quel 12 maggio del 1977, di poter rivelare questi fatti. Lo faccio finalmente per tutelare l’onore di polizia e carabinieri ingiustamente e ripetutamente accusati. E per una volta anche per elogiare i magistrati per la loro pietà e il loro buon senso». Fin qui le parole riferite da Farina. La tesi di Cossiga non ha prove a sostegno, anzi, Vittoria Masi, sorella di Giorgiana, aveva già riferito nel 2007 che il tentato suicidio del Papini era dovuto al dolore causato dalla perdita della fidanzata e non era collegato al delitto. I giornali del 14 maggio scrissero infatti che il giovane aveva tentato il suicidio col gas il giorno prima «perché sconvolto dall’uccisione della sua ragazza e in seguito a una notte di interrogatori».

La vicenda giudiziaria si concluse senza certezze e senza imputati. Tranne uno: l’avvocato Boneschi, denunciato per diffamazione dal Giudice istruttore Claudio D’Angelo. Sul caso di Giorgiana Masi non c’è ancora una verità definitiva. Non c’è alcuna verità.

Condividi: