L’OPINIONE, Medio Oriente. Israele, gli Usa e il «nemico regionale»

Mentre si riaccendono le tensioni alla frontiera settentrionale dello Stato ebraico, Il generale dell'US Army Mark Milley, capo dei Joint Chiefs, incontra i vertici militari e dell’intelligence israeliani in una base aerea della IASF nel sud del Paese

di Giuseppe Morabito, generale dell’Esercito italiano in ausiliaria, analista della NATO Defense College Foundation – Domenica scorsa le forze di difesa israeliane (IDF) hanno intercettato un drone in ingresso nello spazio aereo israeliano proveniente dal Libano. L’IDF ha comunicato di aver neutralizzato il drone usando una tecnologia in suo possesso di assoluta avanguardia e, secondo le prime valutazioni, lo scopo del drone intercettato parrebbe essere stata la sorveglianza, piuttosto che l’attacco a strutture dello Stato ebraico.

Secondo i media locali, il sistema di difesa di Gerusalemme avrebbe preso il controllo del dispositivo in forma elettronica, infatti, già lo scorso anno, una società israeliana aveva confermato di aver sviluppato una capacità anti-drone in grado di prendere il controllo dei droni avversari e farli atterrare ovunque, oppure di riutilizzarli contro chi li avesse inviati in missione ostile. Una tecnologia che potenzialmente rende anche possibile sia reimpiegarli dopo l’intercettazione e la cattura sia estrarre/entrare in possesso dei dati raccolti dal essi prima della loro intercettazione.

La zona di confine tra Israele e Libano era stata “tranquilla” nelle ultime settimane, dopo che Hezbollah e IDF all’inizio di quest’anno, in piena crisi a causa della pandemia da Covid-19, si erano scambiati minacce reciproche.

Tutto questo nonostante il fatto che Israele e i suoi vicini siano palesemente preoccupati di combattere gli effetti del virus. Anche quando l’attenzione del governo e gran parte degli sforzi dell’esercito erano concentrati nella lotta contro il Covid-19, Israele non si è in ogni caso discostato dalle «linee rosse» tracciate nel nord del paese, allo scopo almeno di rallentare milizia sciita libanese dall’ottenere armi avanzate (in particolare sistemi di precisione), impedire all’esercito iraniano di mettere piede in Siria e, conseguentemente, impedire a Hezbollah e agli altri gruppi filo-iraniani presenti nell’area di dispiegarsi lungo il confine siriano sulle alture del Golan.

Infatti, la neutralizzazione del generale Soleimani – capo dei Guardiani della Rivoluzione della Repubblica Islamica iraniana, all’inizio di gennaio – ha ridotto la capacità di Teheran di condurre azioni terroristiche ambiziose nel nord di Israele, mentre al contempo il coronavirus ha inferto un duro colpo all’Iran stesso. Il terribile stato dell’economia del Libano ha però innalzato il livello di preoccupazione, a seguito del riaccendersi delle tensioni tra Hezbollah e IDF.

In tale quadro, Israele ha da poco effettuato un raid aereo sulla capitale siriana, nel corso del quale sono stati eliminati cinque combattenti stranieri, tra i quali un membro di Hezbollah, tutti sospettati di legami terroristici con l’Iran.

Sempre venerdì scorso, l’esercito israeliano ha fatto trapelare che i suoi elicotteri d’attacco hanno colpito diverse posizioni dell’esercito siriano in risposta a attacchi di artiglierie e missili alle alture del Golan occupate da Israele. Conseguentemente Hezbollah ha promesso di vendicarsi e I’IDF ha dovuto rinforzare il confine nord con il Libano con l’invio di unità di fanteria.

In particolare, è doveroso ricordare che nel sud del Libano la missione Onu UNIFIL e che dal 7 agosto 2018 l’Italia per la quarta volta ricopre l’incarico di capo missione e Force Commander con il generale di divisione dell’Esercito Stefano Del Col, alle cui dipendenze operano quasi 10.500 militari provenienti da quarantacinque paesi. La consistenza massima annuale, che ha visto da poco – incredibilmente controversa a livello politico – approvazione del rinnovo dell’autorizzazione parlamentare, è per il contingente nazionale impiegato nella missione di 1076 militari, 278 mezzi terrestri e 6 mezzi aerei; in ambito nazionale l’operazione è denominata “Leonte”.

In questo quadro d’incertezza lo scorso venerdì la più alta personalità militare degli Stati Uniti d’America si è recata in visita nello Stato ebraico, logicamente per motivi di sicurezza senza preavviso, allo scopo di discutere delle “sfide alla sicurezza regionale” in una fase di acute tensioni con l’Iran e i suoi alleati in tutto il Medio Oriente.

Il generale dell’US Army Mark Milley, capo dei Joint Chiefs, ha incontrato i vertici militari e dell’intelligence israeliani in una base aerea nel sud del Paese, dove ha poi tenuto una videoconferenza assieme al primo ministro Benjamin Netanyahu.

Israele ha sempre visto l’Iran come la principale minaccia regionale a causa del suo programma nucleare, che Teheran insiste a dichiarare venga sviluppato a scopi puramente pacifici, così come “pacifica” sarebbe la presenza militare iraniana nella vicina Siria e il suo sostegno ai gruppi armati terroristici come Hezbollah. Ogni analista onesto e non «pagato» dall’Iran ride di tale incredibile «balla» ogni qual volta viene riproposta.

Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha affermato che con Milley è stata sottolineata «la necessità di continuare a esercitare la pressione sull’Iran e sui suoi alleati», aggiungendo che «l’esercito dello Stato ebraico è preparato e pronto per qualsiasi scenario e minaccia e non consiglio ai nostri nemici di metterci alla prova. Non abbiamo interesse all’escalation, ma faremo tutto il necessario per proteggere i cittadini israeliani».

In conclusione, Israele ricorda agli avversari di essere pronto – politicamente e tecnologicamente – a difendersi anche dopo la pandemia, mentre il presidente americano Trump rassicura del suo supporto e amicizia Gerusalemme e, conseguentemente, in vista delle prossime elezioni presidenziali anche la potente comunità ebraica statunitense.

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