ECONOMIA, Cina. Flessione del Pil al 6,1%: un evento previsto

Tensioni commerciali con gli Usa, domanda interna debole, situazione del sistema bancario ed epidemia di peste suina hanno inciso negativamente sull’economia cinese

Si tratta certamente di una cifra inimmaginabile per un Paese in crisi come l’Italia, tuttavia per il gigante asiatico una crescita del prodotto interno lordo (Pil) limitata al 6,1% costituisce una fonte di problemi, un Pil trainato dalle esportazioni che contribuisce per oltre il 23% all’economia mondiale.

Si tratta di un dato negativo previsto dagli analisti economici, che, se raffrontato con quelli del passato, riporta indietro il Paese comunista ai livelli del 1979, cioè di quando al potere a Pechino c’era Deng Xiaoping e l’Armata di Liberazione scatenava la disastrosa breve guerra contro il Vietnam, confinante paese “fratello”. Il dato è inequivocabile, lo ha diffuso ieri l’istituto nazionale di statistica cinese e – stando alle dichiarazioni rese dai vertici di apparato di Pechino – “rientra nell’obiettivo ufficiale precedentemente fissato al 6,0-6,5 per cento”.

Un rallentamento, quello della seconda economia del mondo, che era stato in qualche modo annunciato dalle previsioni elaborate dagli analisti del settore, che da qualche tempo – nonostante la macchina della propaganda cinese tenti di far passare un’immagine diversa della situazione – indicano una sostanziale impossibilità di un’eccessiva durata di tali ritmi di crescita.

A questa flessione ha certamente contribuito la congiuntura internazionale, infatti sono diminuite le esportazioni e gli investimenti dall’estero, questo in un quadro complessivo di marcate tensioni commerciali con Washington nel quale la domanda interna si è indebolita.

Le cifre relative al Pil sono state diffuse il giorno seguente a quello dell’accordo sulla tregua commerciale raggiunto con gli americani, intesa attualmente alla “fase uno” dagli incerti contorni e dalle ancora meno chiare prospettive sul medio-lungo termine, che, comunque, almeno per il momento parrebbe avere messo fine a una guerra combattuta a colpi di dazi durata due anni, sebbene l’amministrazione Trump abbia mantenuto ancora ancora in vigore buona parte delle tariffe sui prodotti cinesi.

Allora come leggere questo dato? Certamente si tratta di un “più”, però per un paese grande come la Repubblica Popolare cinese evidenzia tutta una serie di macroscopiche contraddizioni.

Calano le esportazioni (-3,2% su base annua) e con loro gli investimenti esteri nell’automotive e nelle costruzioni, stesso trend per i prezzi dei beni intermedi utilizzati in manifattura, calati dell’1,2%, infine, registrata in flessione anche la produzione industriale, -5,7% dal 6,2 registrato nel 2018.

In fondo si era verificato anche nel recente passato, quando da Pechino si era cercato di accreditare all’estero dinamiche più tranquillizzanti, dipingendo il calo come lento, graduale e voluto, quando nei fatti era invece maggiore rispetto a quanto sostenuto nei bollettini ufficiali.

L’ufficio nazionale di statistiche potrebbe dunque aver celato una situazione peggiore dell’economia. Intanto le previsioni per il 2020 stimano una crescita stazionaria al 6%, pur in presenza di nuovi stimoli generati dalla banca centrale.

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