AFRICA, Sudan. Transizione politica e accordo con Israele: per Khartoum si aprono nuovi orizzonti

La fragile transizione del Paese africano rinviene vigore nella svolta nei rapporti con Usa e Israele. L’attenta diplomazia del gruppo di potere che si va consolidando attorno al premier Hamdok tende a bilanciare la tutela dei propri interessi sui confini e le risorse idriche con l’Etiopia salvaguardando al contempo le ristabilite relazioni con l’Egitto. In ogni caso tutto dipenderà dalla ripresa economica

Uno sguardo ai recenti sviluppi registrati nel Sudan induce a ritenere che il Paese africano che si da poco liberato di Omar al-Bashir possa essere il precursore di altri cambiamenti.

Il governo di transizione presieduto dal primo ministro Abdallah Hamdok, un economista di sessantuno anni, è composto da burocrati del vecchio sistema di potere e militari ai gradi apicali delle forze armate sin dai tempi di Bashir.

Economia al collasso

Esso ha ereditato dal precedente regime un’economia praticamente al collasso e delle istituzioni seriamente compromesse, inoltre, secondo L’UNHCR in questo paese di quarantaquattro milioni di abitanti, un milione sono rifugiati e quasi due sfollati interni. Ma il numero dei rifugiati è in crescita, poiché soltanto quest’anno oltre 50.000 etiopi della regione del Tigrè hanno varcato il confine con il Sudan a causa del conflitto in atto nel paese confinante.

In Sudan il tasso di disoccupazione ufficiale viene stimato al 16%, ma con ogni probabilità si tratta di una cifra molto in difetto. La Banca mondiale ha pubblicato i dati sulla povertà, il cui tasso è pari al 36,1%, tuttavia anche questa cifra scarsamente vicina alla realtà in quanto ormai datata (essa risale infatti a tre anni fa), quindi si può ragionevolmente pensare che all’incirca la metà della popolazione locale viva con un reddito al di sotto della soglia di povertà.

In questo senso, la stessa Banca mondiale ha classificato il Sudan tra i paesi a rischio medio-alto,  uno Stato fragile e afflitto da conflitti che versa in una situazione peggiore di quella dell’Iraq, per altro aggravata dalla pandemia di Covid-19.

Il 2020 sarà per Khartoum il terzo anno di crescita negativa, con una contrazione prevista della crescita pari all’8,4%, un picco negativo che segue i decrementi registrati negli anni precedenti, pari al 2,3% del 2018 e al 2,5% del 2019. Una prospettiva non certo incoraggiante, anche a fronte della debole ripresa (lo 0,8%) che si verificherà secondo il rapporto del Fondo monetario internazionale.

Lo stesso Fmi sottolinea come l’attuale situazione dal punto di vista umanitario si possa definire «terribile», con eccessivi squilibri con l’estero, elevato tasso di inflazione (per altro in continuo aumento), sopravvalutazione della moneta nazionale e scarsa competitività sui mercati.

Khartoum si rifà una verginità

Il nuovo premier era perfettamente consapevole del fatto che il suo paese avrebbe concretamente potuto iniziare ad affrontare la disastrosa crisi economica soltanto qualora fosse riuscito a condurlo fuori dalla lista del terrore compilata degli Usa, obiettivo che è stato in grado di conseguire grazie all’avvenuta normalizzazione delle relazioni avviata da Israele con molti degli Stati arabi.

Questa dinamica “a cascata” ha ben presto posto il Sudan nelle condizioni di ricevere l’assistenza statunitense e, più in generale, della comunità internazionale. Insomma, il Sudan si sta rifacendo una verginità dopo il lungo periodo del connubio con il radicalismo islamista e il terrorismo di Osama Bin Laden, che a Khartoum è stato di casa per molto tempo.

Un connubio pericoloso che ha attratto i missili cruise americani e ha impegnato non pochi avvocati in cause intentate dalle famiglie delle vittime degli atti terroristici sponsorizzati da al-Qaeda fino ad alcuni anni fa, quando il Paese africano era un rifugio sicuro per gli jihadisti dell’organizzazione dello sceicco yemenita, al punto da farlo divenire uno sponsor statale ufficiale del terrorismo.

Un paese la cui immagine veniva offuscata dalle continue violazioni dei diritti umani e dai crimini di guerra commessi da Bashir, anche nel Darfur, dove si è giunti addirittura al genocidio.

Hamdok ha avuto la capacità di cogliere l’opportunità del mutamento della situazione nel Medio Oriente a seguito dello stabilimento di relazioni bilaterali tra alcuni Stati della regione e Israele per mutare lo status e, in prospettiva, forse anche le condizioni del proprio Paese.

Una soluzione al problema tutto sommato rapida resa possibile dalla normalizzazione dei rapporti sia con Gerusalemme che con Washington.

Il Sudan tra normalizzazioni e negoziati internazionali

Trovatosi a dover commentare questa ennesima normalizzazione delle relazioni con un paese a maggioranza musulmana che fino a un momento prima rifiutava lo Stato ebraico, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dichiarò che essa era una cosa «buona per le nostre tasche», poche parole che tuttavia rendevano evidente il potenziale economico e commerciale del Sudan, la cui posizione geografica è per Israele strategica in ragione della sua posizione sul Mar Rosso, ma anche per gli effetti dell’apertura dello spazio aereo sudanese ai velivoli della compagnia aerea di bandiera israeliana El Al.

Un processo di normalizzazione bloccato a causa del lento funzionamento delle istituzioni governative di Khartoum, che affrontano la loro fase di transizione e anche perché deve ancora costituirsi il parlamento.

In ogni caso si è già avviata l’assistenza finanziaria di Washington, che per decisione del presidente Donald Trump inciderà sia in maniera diretta che attraverso la riduzione del debito.

Khartoum si è anche ritagliata un ruolo di mediatrice nel quadro dei negoziati tra Egitto ed Etiopia che hanno a oggetto la controversia sulle acque del Nilo a causa dell’avvio della realizzazione della ciclopica opera idrica da parte di Adis Abeba sul fiume, la Grande diga del rinascimento etiopico (GERD), una disputa che rischia di condurre i due paesi confinanti alla guerra a causa della captazione a monte delle acque a monte da parte etiopica.

Khartoum sostiene l’Egitto nel perseguimento di una soluzione mediata, in fin dei conti i sudanesi hanno meno da perdere da una piena entrata in funzione della diga etiopica, anzi potrebbero persino trarre dei benefici dall’incremento della produzione di energia elettrica, che verrebbe distribuita nel resto della regione, seppure nutrano anche l’interesse a che all’Egitto venga garantito un approvvigionamento idrico costante e affidabile.

Le relazioni con il Cairo hanno registrato un sensibile miglioramento a seguito della deposizione di Omar al-Bashir, che oltre a sostenere i Fratelli musulmani (e gli islamisti in genere) aveva ottime relazioni con la Turchia, rivale regionale dell’Egitto. Lo scorso anno l’attuale governo di transizione sudanese ha ripristinato i legami con l’Egitto, in una fase nella quale Erdoğan è costretto a guardare altrove per cercare di realizzare il suo progetto di influenza regionale.

Stando alle considerazioni espresse in un articolo analitico pubblicato ieri da “al-Monitor”, al-Sisi e i suoi avrebbero tentato di approfittare da una schermaglia di confine verificatasi lo scorso 15 dicembre tra le forze armate sudanesi e quelle etiopi, dichiarando il loro sostegno e la loro solidarietà a Khartoum. Tuttavia in Sudan pochi avrebbero interesse ad alimentare il clima di tensioni con l’Etiopia, convenendo la maggior parte sulla soluzione diplomatica alle controversie.

Ora molto si deciderà nelle sedi delle istituzioni finanziarie internazionali, poiché a esse si è necessariamente rivolto il premier Hamdok per chiedere aiuto, laddove, a fronte di riforme strutturali dolorose, gravano un pesante debito estero e gli arretrati da versare nelle casse del Fondo monetario internazionale.

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