DOSSIER, ECONOMIA. Le non rosee prospettive dell’economia cinese

La difficile fase attraversata dall’economia di Pechino e le attese riguardo alle politiche economiche e finanziarie delle autorità del gigante comunista. L’analista indiano Uday Khanapurkar affronta nel dettaglio le questioni spinose cui dovranno mettere mano i decisori politici ed economici della Cina Popolare.

   Secondo un editoriale di Uday Khanapurkar, analista dell’Istituto di Studi cinesi di Nuova Delhi, pubblicato dal magazine “The Diplomat” il 1º febbraio 2019, le prospettive di crescita economica cinesi per il 2019 sembrerebbero aver subito una battuta d’arresto. I dati relativi all’ultimo trimestre del 2018 resi pubblici di recente dal National Bureau of Statistics (NBS), evidenziano come la crescita economica, pari al 6,4 % annuo, abbia raggiunto il minimo negli ultimi ventotto anni, con un 6,6 %, valore che supera a malapena la soglia dall’obiettivo minimo, il 6,5%, fissato in precedenza a Pechino. Ma è l’esame dell’andamento del mese di dicembre a ingenerare serie preoccupazioni riguardo agli sviluppi per l’anno appena iniziato.

   Nel mese di riferimento il settore delle vendite al dettaglio ha registrato solo una debole ripresa pari a un decimale (dall’8,1% di novembre all’ 8,% di dicembre). Un rallentamento prolungato che si trascina da due anni, con effetti negativi sulla crescita economica del paese. Contestualmente, le pressioni demografiche stanno aggravando la situazione complessiva cinese, dato che le nascite hanno conosciuto un decremento di due milioni di individui, anche qui un record negativo che non si registrava dagli anni del “grande balzo in avanti”.

    Una situazione resa ulteriormente fosca dal complesso delle esportazioni e delle importazioni, calate in dicembre rispettivamente del 4,4% e del 7,6%, innestandosi così nel quadro della guerra commerciale in atto con Washington, dove l’amministrazione Trump ha deciso di imporre tariffe su tutte le esportazioni cinesi verso gli Usa. Le tensioni commerciali con l’altra sponda del Pacifico stanno sconvolgendo il manifatturiero cinese, settore parzialmente in crisi già prima delle drastiche politiche americane in materia di dazi. Per la prima volta in diciotto mesi le grandi imprese manifatturiere hanno subito una contrazione delle loro attività causata dalle minori esportazioni. La scarsa performance produttiva viene in parte spiegata dall’incertezza delle imprese riguardo un possibile futuro accordo commerciale con gli americani, da stipulare auspicabilmente in anticipo rispetto alla scadenza del prossimo 3 marzo concordata a Buenos Aires. Sta di fatto, comunque, che allo stato attuale l’ipotesi che un siffatto accordo si concretizzi nel mese di febbraio appare assai improbabile.

   Inoltre, nel 2019 Pechino si troverà a dover gestire un rallentamento della crescita non indifferente e lo farà a fronte del modesto e cauto alleggerimento della sua politica monetaria, un o di classici strumenti cui nel recente passato ha fatto ricorso, che però nel 2018 non si è tradotto in una crescita del credito adeguata, suscitando i timori riguardo a una caduta dell’economia nella cosiddetta “trappola di liquidità”. È accaduto, infatti, che le banche hanno utilizzato la liquidità resa disponibile per acquistare obbligazioni piuttosto che per alimentare l’economia produttiva erogando prestiti alle imprese. Secondo molti un comportamento del tutto prevedibile e, dunque, non inaspettato, poiché essi rilevano che le aspettative cinesi relative a una riduzione della leva finanziaria e un aumento dell’efficienza degli investimenti si ponevano, in sostanziale opposizione rispetto stimolo monetario. Un’efficienza nel Paese notoriamente bassa, confermata dai dati mensili sulla produzione industriale, negativi quasi nell’intero anno 2018, slavo il leggero miglioramento registrato in dicembre. Analogamente, le immobilizzazioni non hanno risposto adeguatamente agli stimoli, registrando solo modesti miglioramenti nello stesso mese di dicembre. 

   I cinesi ovviamente temono sviluppi del genere. A Pechino i decisori politici starebbero valutando il ricorso a un Quantitative easing che metterebbe la banca centrale del Paese (PBoC, Banca Popolare della Cina) nelle condizioni di farsi carico dell’acquisto delle obbligazioni emesse dal ministero delle finanze. In questo modo il governo potrebbe a sua volta impegnarsi in estese attività di spesa al fine di sostenere l’economia reale. Questo provvedimento incontrerebbe però l’ostacolo costituito dalla normativa vigente nello Stato comunista, che vieta l’effettuazione di operazioni di allentamento del genere. Viene ritenuto comunque improbabile un brusco spostamento verso l’attenuazione, poiché ostacolerebbe gravemente le aspettative e la fiducia nell’economia nazionale, incoraggiando conseguentemente fughe di capitali, portando infine a un’erosione delle riserve valutarie, cosa che Pechino ha disperatamente cercato di eludere nel 2016. Tutto questo farebbe dunque ritenere gli ipotizzati cambiamenti nella politica monetaria cinese non del tutto efficaci a porre rapidamente rimedio ai problemi che affliggono l’economia. Z

   Maggiore spazio di manovra ai fini di uno stimolo dell’economia potrebbe rinvenirsi in campo fiscale, seppure anche in questo caso si incontrerebbero difficoltà. Parte dell’opinione pubblica cinese ha espresso dubbi riguardo ai recenti tagli delle imposizioni fiscali decisi in favore delle famiglie, poiché – si asserisce – non è del tutto certo che la crescita dei redditi disponibili si traduca automaticamente in consumi. Per quanto riguarda invece le esenzioni concesse alle società, gli effetti dovrebbero manifestarsi soltanto a distanza di alcuni mesi e questo, in ogni caso, soltanto qualora il governo rinunci effettivamente a tali entrate.

   Khanapurkar sottolinea inoltre come in Cina il rafforzamento della sicurezza sociale si ponga sempre più come un imperativo, accentuando così il contrasto tra la conservazione dei livelli di consumi e l’invecchiamento della popolazione. L’analista giunge alle conclusione che oggi ricade quindi sui pianificatori il gravoso compito di risolvere questa complicata equazione, onde ottenere il risultato della riduzione delle imposizioni fiscali, che, incrementando il reddito disponibile, agevolerebbero di  conseguenza i consumi senza incidere eccessivamente sul sistema di welfare.

   Tuttavia, nell’ampio e dettagliato editoriale vengono comunque rimarcati alcuni segnali positivi dell’economia cinese. Come la crescita oltre le aspettative – seppure non vertiginosa – delle piccole e medie imprese del settore dei servizi, i cui risultati nel dicembre del 2018 hanno superato le aspettative, una fase incrementale protrattasi per l’intero ultimo trimestre dell’anno passato nonostante le contrazioni registrate nell’industria. I dati statistici evidenziano che il terziario ha costituito il 59,7% della crescita del Pil, indice dei progressi ottenuti nell’azione di riequilibrio strutturale dell’economia, anche se risulta difficile stabilire se questi dati positivi si possano interpretare come una garanzia di stabilità dell’economia cinese.

   Questo per la ragione che essi includono alcune imprese che non contribuiscono necessariamente all’economia reale, vale a dire alla produzione effettiva di beni e servizi al di fuori delle operazioni sui mercati finanziari. Le entrate delle imprese di servizi finanziari, ad esempio, vengono incluse nel computo generale anche se parte di tali entrate è con ogni probabilità costituita da interessi derivanti da prestiti non assegnati, mentre, analogamente, le entrate immobiliari sono incluse nella contabilità dei servizi. Pertanto, gli aumenti dei prezzi degli alloggi gonfierebbero la voce “crescita” dei servizi tenuto anche in dovuto conto il picco raggiunto alla fine del 2018, culmine di una costante crescita iniziata nel mese di giugno. L’aumento dei prezzi degli immobili tende a frenare la domanda di consumi in quanto impone alle famiglie un risparmio del reddito, oltre che, spesso, una contrazione di debiti finalizzata all’acquisto di abitazioni.

   In effetti – prosegue Khanapurkar -, la natura critica di questi servizi per l’economia cinese non può essere sopravvalutata. Mantenerne e migliorarne le prestazioni si renderà assolutamente vitale allo scopo di generare una crescita dell’economia reale sostenibile e migliorare l contempo il tenore di vita dei cittadini della Repubblica Popolare. Solo se verrà registrata una costante crescita nel settore dei servizi al dettaglio i responsabili politici del Paese saranno nelle condizioni di governare il processo di contrazione in atto nel settore manifatturiero e industriale concomitante alla riduzione della leva finanziaria. In realtà il panico pervaderebbe gli ambienti politici cinesi, un sentimento in buona parte attribuibile all’ambivalenza circa la possibilità che il settore dei servizi sia in grado di assorbire a sufficienza la disoccupazione causata dalla spinta al ribasso nella produzione e l’industria. È improbabile che questi problemi vengano risolti nel breve periodo, dunque richiederanno uno sforzo più sostenuto.

   Sembrerebbe quindi – conclude l’analista del dell’Istituto di Studi cinesi di Nuova Delhi – che la Cina debba prepararsi a una prima metà del prossimo anno piuttosto incerta e il modo in cui i decisori politici a Pechino reagiranno sortirà profonde conseguenze, molto dipenderà dall’eventualità che essi optino per un forte stimolo impresso all’economia. In un simile scenario, nel breve periodo la crescita resterebbe stabile, anche se diminuirebbe l’efficienza degli investimenti e verrebbero amplificati i rischi di uno. Gli imperativi politici sul piano interno rendono tale possibilità molto probabile.

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