IRAN, equilibri interni. Perché Zarif ha rassegnato le dimissioni.

INel complesso equilibrio interno alla Repubblica islamica dell’Iran il Ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha ricevuto il sostegno ufficiale di uno degli uomini più importanti del Paese, Qasem Soleimani, comandante della forza al-Quds del Corpo delle Guardie rivoluzionarie.

Lo riferisce la testata Online al-Monitor, che ha ripreso un report di Sinan Toossi, che a sua volta faceva riferimento alle dichiarazioni rese pubblicamente dall’alto ufficiale dello sepāh-e pāsdārān (sepāh-e pāsdārān-e enghelāb-e eslāmi). Egli, riferendosi al ministro degli esteri attualmente in carica, ma che aveva rassegnato le proprie dimissioni dall’incarico nei giorni scorsi, lo ha indicato come «il principale responsabile della politica estera del Paese», sottolineandone il sostegno da sempre ricevuto dalle maggiori personalità della teocrazia al governo a Teheran, compresa la guida suprema (faqih), l’ayatollah Ali Khamenei.

Le parole di Soleimani hanno fatto seguito alla lettera scritta dal presidente Hassan Rouhani, con la quale respingeva le dimissioni del titolato responsabile del dicastero degli esteri, ribadendo il concetto secondo cui Zarif è il più alto funzionario della Repubblica islamica che ne attua la politica estera. Soleimani, autorevole personalità nell’ambito della locale nomenklatura, è un conservatore in grado di esercitare notevole influenza sugli equilibri del potere interni alla Repubblica islamica. La sua presa di posizione non sarebbe dunque casuale, bensì frutto di una precisa azione politica: la sua fazione appoggia Zarif e di risulta fa di tutto per evitarne l’uscita di scena.

Recentemente, il caustico commento sulla vicenda espresso dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che in un account twitter in lingua farsi ha tempestivamente augurato al ministro dimissionario del nemico regionale di Israele un buon periodo di quiescenza, «Zarif è andato, ci siamo liberati di lui. Finché sarò qui il regime iraniano non acquisirà armi nucleari», non ha fatto altro che mettere in serio imbarazzo gli avversari di Zarif nel loro paese.

È noto che i persiani sono menti fini, e il loro agire sulla scorta degli insegnamenti del “cortigiano” di Baldassarre Castiglione non rappresenta una novità. Di risulta, non stupirebbe che la dialettica rappresentata sulla scena politica in questi ultimi giorni altro non sia che la punta dell’iceberg di un assestamento del composito sistema di potere iraniano.

È ovvio che a Israele l’uscita di scena di un abile negoziatore della statura di Zarif farebbe comodo, infatti il capo della diplomazia di Teheran mantiene ottimi rapporti con le cancellerie europee oltreché con i maggiori attori presenti sulla scena internazionale, questo malgrado gli ultimi sviluppi della politica statunitense impressi dall’amministrazione Trump.

La giustificazione addotta alla rassegnazione delle proprie dimissioni dovrebbe quindi venire interpretata non per quello che si vorrebbe far passare, cioè la reazione piccata e indignata per la mancata partecipazione al vertice di Teheran del 25 febbraio scorso col presidente siriano Bashar al-Assad, una visita ufficialmente non annunciata e della quale il presidente Hassan Rouhani non aveva informato il suo ministro degli esteri, bensì come l’effetto diretto di una vera e propria estromissione da parte di un settore di vertice della Repubblica islamica.

Cosa dunque sta succedendo nei palazzi del potere della capitale? Tutto viene messo in discussione dalla controversa decisione americana sull’accordo relativo al programma nucleare di Teheran, raggiunto in sede internazionale al tempo della precedente amministrazione in carica a Washington, quella democratica presieduta da Barack Hussein Obama. Trump ha sparigliato le carte, spiazzando in primo luogo quello che era stato il principale negoziatore iraniano, che della trattativa con l’Occidente aveva fatto il gioiello della politica estera della Repubblica islamica.

«La manovra di Zarif è probabilmente l’ultima risorsa di un uomo concentrato sul mantenimento della coesione all’interno della diplomazia iraniana – ha scritto Mohammad Ali Shabani – e lo ha fatto lanciando un’inequivocabile avvertimento riguardo alle possibili conseguenze di una frattura intestina al ministero degli esteri. A causa di esse – ha aggiunto – si materializzerebbe il pericolo che l’Iran venga percepito debole, un’opportunità che potrebbe essere colta da potenze esterne come Russia, Cina o Unione europea».

A questo punto, il gesto di Zarif potrebbe configurarsi come un’astuta tattica e, infatti Rouhani ha immediatamente tenuto a sottolineare l’inesistenza di alcun contrasto con il suo ministro degli esteri dimissionario, anzi, pressato assieme a lui sul piano interno, aggiungendo infine di essere fiducioso riguardo al superamento da parte di entrambi di questa fase difficile.

«La migliore prova del successo di Zarif – secondo Rouhani – sarebbe stata quella del festeggiamento delle dimissioni del primo da parte dei nemici giurati dell’Iran, come il “regime sionista”», con chiaro riferimento al tweet del premier israeliano Netanyahu. In meno di un’ora dalla diffusione di queste dichiarazioni dai media, sono divenute virali le immagini di uno Zarif sorridente che condivide un ombrello con Rouhani mentre si trovavano nel palazzo di Sa’dabad di Teheran in attesa della delegazione armena guidata dal primo ministro Nikol Pashinyan.

La mossa di Zarif potrebbe venire sfruttata sulla scena internazionale nel tentativo di contrastare l’azione di embargo finanziario decretato contro la Repubblica islamica, mantenendo in esecuzione le transazioni finanziarie in atto con i Paesi occidentali, che al momento risultano bloccate. Per mesi, Zarif e la sua cerchia hanno cercato di flemmatizzare le fazioni estremiste interne onde evitare di fornire a Washington ulteriori pretesti per esercitare pressioni ancora più forti sull’Iran. Una delle prime personalità politiche contrarie alla trattativa a finire nel mirino dopo aver espresso soddisfazione per le dimissioni rassegnate da Zarif, è stato Karim Javad Khodoosi, duramente attaccato dall’agenzia di stampa della Repubblica islamica, controllata da Rouhani.

Anche se Rouhani, Zarif e Soleimani sembrerebbe che abbiano serrato i ranghi, questa vicenda potrebbe comunque avere degli effetti sulla solidità della politica iraniana in Siria. Si registrano infatti con chiarezza da diversi settori della società e della politica segnali di insoddisfazione riguardo all’impegno militare in sostegno di Assad.

Ad esempio, l’ex sindaco della capitale è stato recentemente condannato a un anno di reclusione per aver criticato il coinvolgimento militare del Paese nel conflitto siriano. Il fatto stesso che un ex funzionario venga incarcerato per aver espresso delle critiche del genere sarebbe indice dei timori nutriti dalla teocrazia al potere nei confronti della propria opinione pubblica. Inoltre, un altro segnale dell’impopolarità dell’attuale politica iraniana in Siria deriverebbe dall’assenza di dibattiti sull’argomento sulla stampa nazionale.

” Anche il maggior generale Ataollah Salehi, comandante in capo dell’Artesh (l’esercito iraniano) avrebbe cercato di evitare un coinvolgimento mediatico dello strumento militare della Repubblica islamica sul difficile fronte siriano, negando pubblicamente l’invio in Siria di un’unità commando della quale era emerso che aveva subito delle perdite. Il convitato di pietra resta il Corpo dei pasdaran.

Iran e Siria sono stati i principali punti in agenda nell’incontro tra Netanyahu e Putin avvenuto a Mosca nel mese di febbraio. Al centro dell’attenzione le posizioni iraniane a supporto delle forze armate di Assad e i recenti strike compiuti dell’aviazione dello Stato ebraico su alcune di esse, che ovviamente hanno generato notevole malcontento nei russi. Infatti questi ultimi si sono venuti a trovare in una scomoda situazione anche a causa delle lamentele di Damasco relative al non intervento in loro difesa del dispositivo dell’Armata russa rischierato nel Paese mediorientale.   

Nel corso della visita di Netanyahu a Mosca oggetto di trattativa e accordo sarebbe stata l’assicurazione data dagli israeliani a Putin sul fatto che i loro raid aerei e missilistici non avrebbero recato una diretta minaccia al rais di Damasco, questo a fronte di un impegno dei russi alla limitazione della presenza e dell’attività degli iraniani in prossimità del confine con lo Stato ebraico. Un tacito consenso, quindi, fornito a Gerusalemme affinché Tsahal possa godere di un ampio margine di manovra che lo ponga in condizione di garantire la propria sicurezza.

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