a cura di Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito italiano e membro del Direttorio della NATO Defense College Foundation – Da giorni il governo serbo aveva messo in guardia l’opinione pubblica che tale manifestazione sarebbe stata orchestrata per far scoppiare una guerra civile e tentare un colpo di mano.
PROTESTE A BELGRADO
La minoranza parlamentare aveva dichiarato che esisterebbero piani occulti per arrestare i principali rivali politici del presidente (cosa che ricorda quanto appena avvenuto in Turchia dove il Sindaco di Istanbul e principale avversario governativi di Recep Tayyip Erdoğan è stato arrestato con motivazioni risibili). La protesta a Belgrado ha avuto toni perlopiù pacifici, senza importanti scontri di piazza se non per opera di alcuni giovani radunati in un parco vicino al parlamento. Essa aveva avuto un precedente nello scorso novembre, quando il crollo di una pensilina in una stazione ferroviaria appena ristrutturata aveva causato la morte di quindici persone. Gli studenti hanno iniziato a chiedere trasparenza nell’attribuzione di eventuali responsabilità, l’incriminazione dei funzionari coinvolti e il licenziamento dei ministri competenti.
TUTTO IL POTERE A VUČIĆ
Il primo ministro Miloš Vučević aveva annunciato le proprie dimissioni alla fine di gennaio, ma l’Assemblea nazionale non le ha ancora ratificate, quindi rimane al suo posto. Il vero potere in Serbia è nelle mani di Vučić, che insiste nel dire che non lascerà l’incarico e non cederà a ricatti e non permetterà che la protesta di piazza apra «un futuro orribile per il paese». Egli ha definito le proteste studentesche come «ben intenzionate» e ha avuto parole meno lusinghiere per i partiti di opposizione, etichettandoli come membri di un «cartello criminale». I leader dell’opposizione affermano che elezioni libere non sono attualmente possibili a causa del dominio del Partito Progressista, al governo, sui media e sulle istituzioni statali. Una attenzione va posta poi oltre la IEBL (Inter etnic border line) che divide in due la Bosnia, poiché in questi ultimi giorni l’assemblea nazionale della Republika Srpska, controllata dalla maggioranza etnica serba, ha adottato la bozza della nuova costituzione presentata dal presidente della Repubblica autonoma, Milorad Dodik, che include articoli che violerebbero la costituzione della Bosnia Erzegovina intesa nella sua interezza.
FREME LA SRPSKA REPUBLIKA
Mercoledì scorso i procuratori di stato bosniaci hanno ordinato l’arresto di Dodik e dei suoi collaboratori con l’accusa di ignorato una citazione in giudizio per aver tentato di minare la costituzione della Bosnia. La Srpska Repubblica è un’entità all’interno della Bosnia ed Erzegovina separate di fatto dalla IEBL. Il mese scorso un tribunale bosniaco aveva condannato Dodik a un anno di reclusione, vietandogli l’esercizio di attività politiche a causa del suo separatismo e per aver sfidato le decisioni dell’Alto rappresentante internazionale che supervisiona gli accordi di Dayton stipulati nel 1995, che posero a una guerra durata più di tre anni che aveva provocato la morte di almeno 100.000 persone. Dodik ha respinto il mandato di arresto, intervenendo pubblicamente dal capoluogo regionale, Banja Luka, e dichiarando di essere motivato politicamente e che avrebbe chiesto alla Russia di porre il veto a un’estensione della presenza dell’EUFOR, la forza di mantenimento della pace dell’Unione europea in Bosnia. In un’intervista concessa nella giornata di giovedì, l’avvocato di Dodik ha reso noto che il suo assistito «non riconosce né la corte bosniaca, né l’ufficio del procuratore di Stato, quindi non ha bisogno di una difesa legale».
UN PAESE SPACCATO
«Non credo che ci sarà l’arresto di Dodik», ha affermato, aggiungendo che «il signor Dodik non collaborerà, né nominerà il suo team di difesa, perché non considera legittimo il procedimento». È palese come la Bosnia abbia bisogno che questa crisi costituzionale, legale e politica, venga immediatamente disinnescata. Nenad Stevandić, presidente dell’Assemblea nazionale della Srpska Repubblica e stretto alleato di Dodik, ha denunciato le mosse contro la Repubblica autonoma a maggioranza serba come un «attacco all’ordine costituzionale». Nel frattempo, a Washington, alcuni membri del Senato hanno invitato il segretario di Stato Marco Rubio ad agire per impedire un ulteriore deterioramento in Bosnia. Gli Stati Uniti d’America avevano imposto sanzioni a Dodik e alla sua rete di patronato nel 2023 e, di nuovo, nel gennaio di quest’anno. I durante un viaggio a Jeddah, in Arabia Saudita, alla domanda se gli Stati Uniti stessero prendendo in considerazione «qualsiasi azione punitiva contro Dodik», Rubio ha risposto che l’amministrazione Trump non vuole la Bosnia divisa.
L’EUROPA INVIA I MILITARI IN BOSNIA
«L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è un’altra crisi, e ne abbiamo parlato», ha replicato Rubio, abbondantemente chiaro, indicando che «qualsiasi differenza possa esserci internamente, ciò non può portare alla disintegrazione di un paese e non può portare a un altro conflitto». Gli esperti di vicende balcaniche sostengono che le azioni di Dodik e dell’Assemblea nazionale della Srpska Republika rientrano nella categoria delle operazioni ibride, realizzate su richiesta della Federazione Russa e della Serbia. Quindi si sarebbe di fronte a una situazione davvero pericolosa, nella quale si sta cercando di mostrare e provare che la sopravvivenza della Bosnia Erzegovina non è possibile come stato democratico unito. Nel mezzo della crescente tensione, da mercoledì scorso stanno affluendo in Bosnia ulteriori forze di peacekeeping europee in rinforzo di quelle dell’EUFOR.