TERRORISMO, analisi. Correlati demografici, ideologici, psicopatologici e psicologici del fenomeno

Il terrorismo è oggetto di studio di numerose discipline, quali l’antropologia, la psicologia, la criminologia, la psichiatria, la sociologia, le scienze politiche, giuridiche, economiche e storiche, che esaminano il fenomeno dal proprio punto di vista e, in generale, riconoscono l’intervento nella sua genesi di molteplici fattori in relazione complessa e dinamica. Le azioni terroristiche sono compiute da individui il cui comportamento rientra nell’ambito di indagine delle scienze umane, in particolare psicologiche, che verranno approfondite in questa sede. Nella consapevolezza che un atto terroristico non viene compiuto «nel vuoto», ma va collocato nel proprio contesto geografico, storico, culturale, politico e sociale. Soltanto così lo si potrà comprendere

a cura dell’ammiraglio Antonio Peri – In ogni caso, secondo la concezione antropologica a orientamento cognitivista (Beck, 1975; Ellis, 1962) di chi scrive, tutti i fattori che concorrono alla considerazione, decisione, pianificazione, attuazione di un atto terroristico vengono elaborati, processati da una persona o un gruppo di persone che percepisce, valuta, interpreta, prova delle emozioni, dei sentimenti e agisce provocando, nel nostro caso, danni o vittime nelle situazioni che ha identificato come bersaglio. Si cercherà di descrivere questo processo in cui intervengono molteplici fattori individuali partendo dal background sociodemografico dei terroristi.

FATTORI DEMOGRAFICI DEL TERRORISMO

Quando si cerca di comprendere il comportamento di un gruppo di criminali, i dati demografici costituiscono la base più concreta, meno opinabile e più aderente alla realtà, per descrivere tali individui, poiché si riferiscono ad aspetti oggettivi, solitamente facili da osservare o da ricercare in una persona o in un gruppo. Verranno pertanto esaminati nella prima parte i seguenti aspetti: sesso, età, stato familiare, istruzione, occupazione, reddito o condizione socio economica, precedenti penali, esperienza militare, luoghi e modalità di reclutamento, ambiente o regione di provenienza dei terroristi. Successivamente ci si rivolgerà alle caratteristiche del terrorista inerenti all’ideologia, alla psicopatologia e alla psicologia, meno osservabili oggettivamente, perché ciò che avviene all’interno dell’individuo è dedotto da ciò che l’individuo stesso manifesta, comunica a livello verbale e comportamentale. L’analisi di questi aspetti risulta più ricca e complessa, in quanto riflette la varietà politica e psicologica dei numerosi gruppi terroristici e degli individui che li compongono, tuttavia risente molto anche dei metodi di indagine e delle posizioni teoriche dei ricercatori.

SESSO O GENDER

Senza dubbio il genere maschile è quello più rappresentato tra i terroristi e i radicalizzati violenti tanto che qualche autore ha definito il terrorismo un «gioco per uomini». La partecipazione di donne nell’ISIS (Stato islamico di Iraq e Siria) è stata stimata intorno al 10%, secondo Speckhard che riporta fonti giornalistiche, con una oscillazione che varia dallo 0 al 30% (Speckhard, 2015). Un episodio che ha visto una elevata partecipazione femminile è stato quello del teatro Dubrovka di Mosca, avvenuto nel 2002, quando diciannove donne cecene suicide, le cosiddette «vedove nere», rappresentavano quasi la metà del totale degli attentatori. Nelle FARC (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) la presenza delle donne è stata stimata al 40% (Pape, 2005.) Tra il 1985 e il 2010 è stato calcolato che le donne attentatrici abbiano commesso oltre 257 attacchi suicidi, circa un quarto del totale, mentre il 17% dei 5.000 individui che si ritiene abbiano raggiunto la Siria e l’Iraq come combattenti stranieri (foreign fighters, FF) siano state donne (Orav et al. 2018). Gonzalez riporta una percentuale di coinvolgimento delle donne nel terrorismo del 12 per cento.

DONNE E ATTACCHI TERRORISTICI

Le donne associate a gruppi di estrema destra e coinvolte in attacchi terroristici rappresentano il 10%, mentre non ne risultano coinvolte nell’estremismo religioso né donne che agiscano da sole sia tra i gruppi di estrema destra che negli ecoterroristi negli USA (Gonzalez et al. 2014). La percentuale di donne tra gli attentatori suicidi di Al Qaeda è stato rilevato da Cunnigham (2007) in crescita fino al 50% dei casi. In una recente revisione della letteratura è stata calcolata una percentuale in crescita di donne coinvolte in azioni terroristiche completate con successo (Nicholson and Allely, 2021). Le donne sono state impiegate prevalentemente da alcune organizzazioni terroristiche come le già citate FARC, le Tigri Tamil LTTE, L’Esercito rosso giapponese, La Fazione dell’Armata rossa tedesca (RAF, Rote Armee Fraktion, o banda Baader-Meinhof), i Montoneros argentini, l’ETA basca, le Brigate rosse italiane, in alcuni casi anche in ruoli di vertice e ideologici non solo in funzioni logistiche, come nel trasporto e occultamento di materiali, esplosivi, armi, denaro, come corrieri per il trasferimento delle informazioni, del materiale di propaganda, nella raccolta fondi per  finanziamento, per il supporto psicologico e morale dei detenuti (Speckhard, 2015).

ETÀ

Come, nel caso del sesso, il terrorismo è stato definito un gioco per uomini anche nel caso dell’età ed è possibile affermare che sia un gioco soprattutto per persone giovani, infatti la popolazione giovanile è quella prevalentemente rappresentata. Negli attentati della metropolitana di Londra del 2005 e, più recentemente, in quelli compiuti a Barcellona e nella vicina città di Cambrils nell’estate 2017, i responsabili erano giovani uomini di età compresa tra i 18 e i 30 anni, mentre negli attentati di Londra e tra i 17 e i 25 anni. Negli ultimi anni i giovani sono risultati frequentemente implicati negli attacchi terroristici compiuti in Europa occidentale (TE SAT 2022, TE SAT 2020,). Lo Stato islamico (Islamic State, IS) ha curato in modo particolare e con successo il reclutamento di giovani e adolescenti nei paesi occidentali, dove poi hanno compiuto numerosi attacchi terroristici grazie alla diffusione della propaganda sui social media (Simcox, 2017; Cook and Vale, 2018). In Australia tra il 2014 e il 2018 tra i condannati per attacchi terroristici il 10% erano giovani adolescenti sotto i 18 anni e un altro 25% giovani tra i 18 e i 25 anni (Renwick, 2018).

L’EMERGENZA GIOVANI

L’emergenza giovani in problemi di sicurezza è stata rilevata a livello globale (Rolling, & Corduan, 2018; Neve et al., 2020; Campelo et al., 2018; United Nations Office on Drugs and Crime. 2017) In una ricerca effettuata su una raccolta dati riguardanti studi sulla radicalizzazione compiuti in 20 paesi e comprendenti un campione molto ampio l’età dei soggetti radicalizzati varia da 14.6 a 54.88, con una età media di 29.42 (Wolfowicz et al. 2021). Sappiamo che l’adolescenza è di per sé un periodo ribelle e problematico per i cambiamenti neurobiologici e psicosociali che deve affrontare. Ciò rende questa fascia di età particolarmente vulnerabile alle ideologie radicali per la particolare sensibilità di questa popolazione all’esclusione sociale, alla discriminazione (Doosje et al., 2013), per la reattività talvolta violenta alle frustrazioni, specialmente sociali più che fisiche, che può sfociare in comportamenti a rischio in quanto l’adolescente non ha maturato un adeguato autocontrollo sulla instabilità affettiva.

STATO CIVILE (STATO FAMILIARE)

In uno studio condotto da Jacques & Taylor (2012) la percentuale di coniugati (38%) e di single (soli, senza un partner, non accompagnati) (37%) non era molto diversa e non rappresenta una differenza significativa. Nella raccolta dati operata dall’Istituto Lowy su 173 radicalizzati e terroristi islamisti australiani aggiornata al 2022 il 48% di essi risulta coniugata, il 45% single, il 7% divorziata o separata. Nella stessa raccolta dati risulta che il 43% dei componenti del gruppo era legata da vincoli di parentela oppure matrimoniali. Mentre nei primi studi il terrorista tipico risultava non coniugato, Sageman (2008) osservava che i tre quarti del suo campione era coniugato e la loro affidabilità poteva essere garantita da legami familiari con altri terroristi. Secondo Shapiro (2013) le organizzazioni terroristiche favoriscono i matrimoni all’interno dei gruppi per aumentare la coesione e la fiducia reciproca. Tuttavia più recentemente Altier e altri (2019) hanno rilevato che il matrimonio non ha agito come fattore protettivo contro l’estremismo. Questi dati sembrano indicare che il matrimonio e i legami familiari non sono sufficienti a scoraggiare le persone dall’intraprendere una attività ad alto rischio come il terrorismo anche se essere sposato riduce significativamente questa probabilità nella popolazione palestinese (Berrebi, 2007)

ISTRUZIONE

Per quanto concerne il livello di istruzione nella popolazione dei terroristi e radicalizzati si ricavano indicazioni non sempre concordanti, che sembrano variare in base alle differenti situazioni storiche, geografiche, politiche ed economiche. Anche se inizialmente alcuni studi hanno ipotizzato come un basso livello di istruzione potesse essere associato al terrorismo, molti altri hanno invece dimostrato risultati opposti. Sageman (2004), sulla base di una analisi di 172 biografie di jihadisti salafiti, ha rilevato che il 60% aveva ottenuto una laurea, l’88% dei leader di questi gruppi aveva completato studi superiori, tra questi il 20% aveva un dottorato. Silber e Bhatt (2007) hanno riscontrato che un elevato numero di radicalizzati aveva ottenuto una laurea. Krueger e Maleckova hanno rilevato tra gli attentatori suicidi palestinesi una percentuale di soggetti, che avevano completato la scuola secondaria e frequentavano i college universitari, superiore alla restante popolazione palestinese. Una situazione simile era stata riscontrata nel campione da loro studiato in Medio Oriente di affiliati o simpatizzanti per le organizzazioni estremiste o terroristiche quali Hezbollah o Hamas (Krueger and Maleckova, 2002).

SCOLARIZZAZIONE IN AL-QAEDA E ISLAMIC STATE

Non erano scarsamente istruiti i 19 attentatori dell’11 settembre e molti membri di Al Qaeda hanno ricevuto una istruzione universitaria, infatti (Von Hippel, 2002) Osama bin Laden era laureato in ingegneria, il suo successore Ayman al‐Zawahiri ha completato un master in chirurgia (Sas et al. 2020) e Abu Bakr Al‐Baghdadi, il leader dell’ISIS, aveva una laurea in teologia islamica (Zahid, 2017). Molti terroristi in occidente avevano una istruzione universitaria o erano studenti al momento dell’attentato. Gambetta e Hertog nella loro ricerca hanno esaminato 284 terroristi internazionali condannati e hanno rilevato che 196 di questi avevano ricevuto un’istruzione superiore (una elevata percentuale dei quali aveva conseguito una laurea in ingegneria). Un tale livello di istruzione è significativamente più elevato rispetto al livello medio di istruzione esistente nei loro paesi di origine (Gambetta and Hertog, 2009). In un rapporto sul reclutamento di Daesh (IS), commissionato dalla Banca mondiale, il numero medio di anni di scolarizzazione delle reclute è risultato superiore alla media esistente nella loro regione di provenienza con una differenza di cinque anni di istruzione tra coloro che provenivano dall’Africa sub‐sahariana e che si riduce a tre anni tra le reclute del Nord Africa e Medio Oriente, a due anni tra chi proviene dall’Europa occidentale (Rose, 2017).

RECLUTATI I LAUREATI E LE PERSONE QUALIFICATE

Questi dati sembrano indicare che IS non reclutava i propri affiliati tra i soggetti scarsamente istruiti ma, al contrario, e che l’estremismo islamico attira i laureati o come suggerisce Ethan Bueno de Mesquita (2005) in “The Quality of Terror”, le organizzazioni terroristiche selezionano soprattutto i «candidati» più altamente qualificati per compiere attacchi terroristici. Agli individui più istruiti e maturi tra gli attentatori suicidi vengono solitamente assegnati dalle organizzazioni terroristiche gli obiettivi più importanti. Questa scelta rende meno probabile il fallimento della missione e aumenta la probabilità di accrescere il numero di vittime durante l’attacco (Benmelech, and Berrebi. 2007). L’analisi dei vari attacchi terroristici nella regione del Sahel dal 2019 al 2021 in Burkina Faso, Niger e Mali ha rilevato una associazione positiva tra istruzione e terrorismo e una provenienza dei terroristi maggiore dalle aree urbane piuttosto che rurali (Abdoulganiour, 2022). Tra i palestinesi Berrebi (Berrebi, 2007) ha rilevato che una istruzione superiore era positivamente correlata con la partecipazione nei gruppi di Hamas e della Jihad islamica. Uno studio che valuta l’impatto della istruzione sul terrorismo domestico in paesi asiatici dal 1970 al 2018 ha rilevato che l’istruzione è associata al terrorismo (Dongfang, 2022).

ECCEZIONI

Tuttavia, non tutti gli studi giungono alle stesse conclusioni. Secondo Taşpınar (2009), principalmente giovani senza istruzione dei bassifondi di Casablanca sono stati reclutati dall’Islamic Combatant Group (GICM), un’organizzazione jihadista marocchina, per compiere un attentato nella loro città che ha ucciso 43 persone. Nell’Africa occidentale e con particolare riferimento alla Sierra Leone e Nigeria, secondo Ismail (2013), la maggior parte dei gruppi radicali è costituita da giovani con scarsa o assente istruzione. Da un esame delle caratteristiche degli individui radicalizzati di 27 paesi in via di sviluppo, condotto sui dati raccolti con il sondaggio mondiale Gallup, Kiendrebeogo e Ianchovichina (2016) hanno ricavato che il profilo tipico dell’individuo radicalizzato corrisponde con maggiore probabilità a un individuo giovane, privo di istruzione e disoccupato. In altri studi è stata trovata nei gruppi estremisti violenti una combinazione di partecipanti istruiti, in un piccolo numero, motivati prevalentemente da ragioni politiche e ideologiche, e altri meno istruiti, in un numero più grande, motivati da opportunità economiche e dal desiderio di migliorare lo status sociale, come è stato rilevato da Oyefusi (2008) nel suo studio sui gruppi di ribelli nel delta del Niger. In un confronto operato tra gli estremisti violenti di destra e di sinistra negli Stati Uniti d’America nel 1986 gli estremisti di sinistra, prevalentemente di provenienza urbana, sono risultati solitamente provvisti di una istruzione superiore rispetto a quelli di destra, scarsamente istruiti (Blumberg, 1986).

CORRELAZIONI

Sulla base dei risultati degli studi di ricerca sopra presentati la relazione tra l’istruzione e l’estremismo violento non appare univoca. L’estremismo violento sembra stranamente più correlato in generale a un livello di istruzione superiore a eccezione di quanto si osserva nei paesi in via di sviluppo, specie africani. Brockhoff et al. (Brockhoff et al. 2012) che hanno studiato 133 paesi in 23 anni sono giunti alla conclusione che bassi livelli di istruzione conducono a un maggiore livello di terrorismo in paesi dove ci sono condizioni socio economiche politiche scadenti mentre un alto livello di istruzione riduce il terrorismo domestico dove le condizioni sono più favorevoli. Orlandrew et al. (2020) hanno esaminato 50 paesi africani dal 1970 al 2011 per valutare l’effetto della crescita della istruzione primaria, secondaria e terziaria sul terrorismo domestico. Hanno rilevato che nella regione subsahariana l’istruzione primaria e secondaria ha ridotto il terrorismo mentre nelle altre gli effetti non sono concordanti. Questi risultati, almeno in parte contrastanti, sembrano suggerire che l’istruzione da sola non è sufficiente a contrastare l’estremismo senza ulteriori e coordinate iniziative economiche e presumibilmente politiche (Richardson, 2011).

TERRENI FAVOREVOLI AL RECLUTAMENTO

In effetti la scuola e l’università sono state spesso considerate un terreno favorevole per le organizzazioni terroristiche nel mondo (PIRA, Al Qaeda, ISIS) da cui attingere affiliati (Bloom, 2017; Windisch et al. 2018). Il report del Comitato per gli Affari Interni britannico (Home Affairs Committee. UK, 2012) si riferisce alla scuola come ad uno dei tre spazi di incontro e di scambio da cui gli estremisti reclutano i loro membri insieme ad internet e alle prigioni. L’accresciuto tasso di accesso al sistema educativo degli ultimi decenni nei paesi in via di sviluppo e la accresciuta frequenza scolastica di molti giovani ha reso l’ambiente scolastico un allettante luogo di reclutamento per gli estremisti. In Iraq i campus universitari, in Mauritania le scuole religiose (madāris) rappresentano un luogo di radicalizzazione e di reclutamento per i gruppi violenti (Sas et al. 2020). In Europa una particolare attenzione alla scuola come luogo di propaganda e di reclutamento sin dalle prime mobilitazioni studentesche degli anni Sessanta è stata rivolta dai movimenti di estrema sinistra da cui sono derivate le Brigate Rosse, i cui fondatori provenivano dalla facoltà di sociologia dell’Università di Trento. Tale interesse per la scuola continua ancora nella galassia anarchica e di estrema sinistra con appelli agli insegnanti e agli intellettuali (Farinelli and Marinone, 2021). Garantire ai giovani un pari accesso all’istruzione è importante ma non è abbastanza per prevenire la radicalizzazione se non è associato a una buona, idonea qualità della stessa (Brockhoff et al. 2011).

OCCUPAZIONE

Non sono sempre disponibili dati completi sulla occupazione dei terroristi e dei radicalizzati violenti. Bakker (Bakker, 2011), che ha raccolto i dati demografici dei jihadisti che hanno compiuto 65 attentati in Europa tra il 2001 e il 2009, delle 336 persone in essi coinvolte è riuscito ad ottenere informazioni sulla occupazione solo su 127. Di queste, trentaquattro (26,77%) erano lavoratori non qualificati, venti (15,75%) avevano occupazioni semi-qualificate e sedici (10,24%) avevano un lavoro che può essere definito qualificato. C’erano inoltre quattordici (11,02%) imprenditori, per lo più negozianti. Circa il trenta per cento delle persone in questo campione era disoccupato al momento dell’arresto.(I lavoratori non qualificati includono addetti alle pulizie e operai, mentre i lavoratori semi-qualificati possono essere ad esempio gli elettricisti e gli amministratori; i lavoratori altamente qualificati sono medici, ufficiali dell’esercito, scienziati, eccetera. Il numero relativo di lavoratori non qualificati e disoccupati è molto più elevato rispetto alle medie nazionali. Tuttavia, questi dati riflettono la situazione occupazionale delle comunità musulmane immigrate in Europa, soprattutto tra i più giovani.

BACKGROUND LAVORATIVO DEI TERRORISI JIHADISTI IN EUROPA

Nella tesi del Master avanzato in relazioni internazionali e diplomazia dell’Università di Leiden Moro (Moro, 2016) aggiorna il lavoro di Bakker (2011) su quali sono le caratteristiche dei 161 terroristi jihadisti implicati nei 68 casi di terrorismo in Europa tra il 2010-2015. È stato possibile trovare il background occupazionale di 58 persone. Al momento del loro arresto o dell’attacco jihadista, venti persone (34,48%), la maggior parte, erano lavoratori non qualificati, dieci (17,24%) erano lavoratori semi-qualificati e tre persone (5,17%) erano lavoratori altamente qualificati. Inoltre, ci sono sei studenti (10,34%) e cinque (8,62%) imprenditori nel campione; questi ultimi includono un proprietario di un bar e due imprenditori. Infine, il 24,14% di questo campione era disoccupato al momento dell’arresto o dell’aggressione. La percentuale di disoccupati tra Jihadisti era superiore alla media della disoccupazione europea del periodo. Nel lavoro di Altunbaş e Thornton (Altunbaş & Thornton, 2011) la percentuale di occupati tra i musulmani del Regno Unito è pari al 48,26%, mentre tra i terroristi islamici è inferiore e ammonta al 37,66 per cento. La condizione di disoccupati non significa necessariamente che gli individui non abbiano trovato lavoro ma potrebbe indicare semplicemente che non svolgevano normali lavori mentre erano impegnati nelle attività terroristiche.

LE «VITE NORMALI» DEI TERRORISTI

In entrambi i campioni europei risultano elevate le percentuali di persone impegnate in un lavoro a tempo pieno e che presumibilmente conducevano per lo più «vite normali». In Europa, la partecipazione all’attività jihadista sembra essere più un’attività collaterale qualora non si ritenga che le attività svolte avessero la funzione di copertura. Dei 1903 profili individuali di radicalizzati violenti che hanno operato negli Usa, raccolti nel programma PIRUS dell’Università del Maryland (consultata il 27 aprile 2023), le informazioni lavorative di 903 di questi sono sconosciute. Dei restanti mille individui, 519 (51,9%) erano regolarmente occupati in un lavoro stabile, 184 (18,4%) erano serialmente impiegati in vari lavori successivi, 126 (12,6%) erano per molto tempo disoccupati, 62 (6,2%) erano sotto impiegati o impiegati a tempo parziale. Nella raccolta dati operata dall’Istituto Lowy su 207 terroristi islamici australiani aggiornata al dicembre 2022, i dati riguardanti l’occupazione erano disponibili solo per 127. Di questi il 18,1% erano studenti anche universitari, il 22,8% risultava disoccupato o assistito dal welfare, il 43,3% svolgeva lavori manuali (blue collars), il 9,4% svolgeva lavori amministrativi o manageriali in ufficio (white collars) e il 6,3% erano professionisti.

DISOCCUPATI E «LUPI SOLITARI»

La percentuale dei disoccupati è al di sopra del 6%, che è la media nazionale australiana, ma più bassa o comparabile al tasso registrato negli studi europei. Anche i terroristi solitari in uno studio risultano avere sperimentato una recente disoccupazione con una percentuale del 38% rispetto al 14% della popolazione generale (Clemmow et al. 2020). Tuttavia, Krueger & Laitin, (Krueger & Laitin, 2008) non hanno trovato differenze statisticamente significative tra terroristi e popolazione generale. In uno studio che ha confrontato i terroristi Palestinesi con la popolazione generale, si è trovato che il 90% dei terroristi aveva un lavoro a tempo pieno in confronto al solo 60% della popolazione generale (Berrebi, 2007).  Una elevata percentuale di disoccupati è stata riscontrata tra i combattenti stranieri che hanno deciso di recarsi in Siria e Iraq (ISIS), in particolare quelli provenienti da Olanda e Belgio (Copeland, 2020). La disoccupazione viene considerata tradizionalmente un fattore di rischio per la radicalizzazione e in una revisione della letteratura effettuata da Wolfowicz et al., in cui si esaminano separatamente gli effetti sulla radicalizzazione cognitiva e su quella comportamentale, la perdita del lavoro e la disoccupazione risultavano correlati alla radicalizzazione nei comportamenti quattro volte in più rispetto alla radicalizzazione nelle idee.

FRUSTRAZIONE CHE SFOCIA IN VIOLENZA

Inoltre la disoccupazione è risultata prevalente tra i radicali violenti rispetto ai non violenti e alla popolazione generale (Wolfowicz, 2021). Secondo Richardson (Richardson, 2011) la violenza politica si associa più spesso ai fattori combinati di disoccupazione e livello di istruzione alto perché presumibilmente i giovani che raggiungono elevati livelli di istruzione sviluppano aspettative più alte e di fronte alla disoccupazione avvertono una frustrazione più forte che può sfociare in comportamenti violenti. Questa condizione è particolarmente grave nei paesi in via di sviluppo dove la riduzione della mortalità infantile ha determinato una crescita esplosiva della popolazione giovanile. Nell’Africa sub Sahariana si registra un livello di povertà giovanile che raggiunge il 70%, in Nigeria e Ghana rispettivamente il 43 e il 48% dei giovani tra 15 e 24 anni è disoccupata o sottoimpiegata. Il risultato di questa elevata povertà e disoccupazione giovanile è la ampia disponibilità di giovani frustrati che sono facilmente attratti e poi reclutati dai gruppi ribelli e terroristici. C’è una crescente indicazione che i gruppi terroristici prendano di mira i giovani svantaggiati per l’arruolamento (Hart, 2005). Lo sfruttamento dei social media nel mondo occidentale da parte di al-Qaeda per indottrinare i giovani è ben documentato. (Thompson, 2011).

PRIMAVERE ARABE E CONTESTO PALESTINESE

Lo stress, il risentimento causato da aspettative economiche non soddisfatte potrebbe essere sfruttato dalle organizzazioni terroristiche per indurre i disoccupati ad adottare la violenza politica. In particolare sarebbero vulnerabili al reclutamento da parte dei terroristi i giovani convinti che la loro etnia, razza o religione meritino di svolgere un ruolo molto più ampio di quello disponibile nella situazione attuale. Non è escluso che le rivolte della primavera araba nel 2011 siano state avviate da giovani frustrati e arrabbiati per la mancanza di opportunità economiche e poi orchestrate da organizzazioni estremiste come protesta contro l’oppressione politica. La letteratura generale suggerisce che i giovani disoccupati sono in genere più inclini a impegnarsi in attività criminali di vario tipo anche nel mondo occidentale. (Britt, 1994; Carmichael & Ward, 2000). Caruso e Gavrilova (2012) hanno empiricamente rilevato che il tasso di crescita della disoccupazione giovanile è positivamente associato alla brutalità e all’incidenza della violenza, in termini di incidenti e di numero di vittime, nel contesto palestinese.

ASPETTI DEL FENOMENO CORRELATI ALLA DEMOGRAFIA

Urdal (2006) ha trovato conferme che le esplosioni demografiche giovanili aumentino le opportunità e le motivazioni per la violenza politica nelle tre forme di conflitto armato interno, terrorismo e rivolta, specie se associate alla disoccupazione. L’interazione tra crescita giovanile, declino economico ed espansione dell’istruzione superiore aumenta il rischio di terrorismo ma non di rivolte (Urdal, 2006). I benefici economici offerti dalle organizzazioni terroristiche potrebbero rivelarsi attraenti e forse più favorevoli rispetto alle alternative per i giovani disoccupati. In uno studio di ex membri di al-Shabaab, un terzo di loro ha rivelato che le attività terroristiche erano per loro una forma di impiego ben remunerato, con uno stipendio che andava dai 50 ai 150 dollari al mese, a seconda del lavoro (Hassan, 2012). Secondo Adelaja e George (2020) la disoccupazione giovanile ha un impatto significativo sul terrorismo interno quando la corruzione è alta, l’efficacia del governo è bassa e la fiducia della gente nella magistratura è bassa. (Adelaja & George, 2020).

STATO SOCIO ECONOMICO

La relazione fra i fattori di natura socioeconomica quali la povertà e il fenomeno del terrorismo è studiata e dibattuta dagli studiosi da molti anni nell’ambito delle influenze di livello macro sulla radicalizzazione (Dzhekova et al. 2016). Le ricerche hanno portato a risultati non sempre univoci a causa dei differenti approcci, delle differenti premesse e metodologie adottate nei diversi studi e ovviamente anche delle diverse situazioni indagate. Una parziale risposta a queste difficoltà è stata la creazione di banche dati dei profili individuali dei terroristi, in grado di raccogliere elementi biografici omogenei e confrontabili. Tuttavia le scarse banche dati finora esistenti non sempre includono lo status socio economico. La raccolta dati realizzata con il programma PIRUS nell’Università del Maryland nel settembre 2017 ha pubblicato una sintesi (START Research Brief) che conteneva solo la percentuale degli individui radicalizzati appartenenti allo stato socio economico inferiore: nei gruppi di estrema destra risultava il 25.3%, nei gruppi di estrema sinistra il 18.6%, nei gruppi islamici il 27.0%.

CLASSE MEDIA E JIHADISTI EUROPEI

Tra i combattenti stranieri jihadisti aggregatisi all’ISIS, provenienti dal Belgio e dall’Olanda studiati da Bakker e de Bont (Bakker & de Bont, 2016), il 60 % apparteneva ad una classe sociale bassa, il 38 % ad una classe sociale media, il 2 % ad una classe elevata. In un altro studio sui jihadisti europei Bakker (Bakker, 2011) ha rilevato una percentuale del 38,7% di appartenenza alla classe media e del 55,91% alla classe inferiore. Mentre gli studi sopra citati hanno riscontrato un’elevata prevalenza tra i terroristi di una bassa posizione socioeconomica, altri studi, meno recenti, o effettuati su specifiche popolazioni, hanno rilevato che molti autori di reati terroristici provengono dalle classi medie e anche medio-alte (Sageman, 2008). Secondo il modello a U invertita il terrorismo è portato avanti da quelli che stanno nel mezzo       della curva socioeconomica piuttosto che da quelli alle estremità più basse o più alte. Ciò in considerazione del fatto che per compiere azioni terroristiche si devono possedere un minimo di risorse economiche e personali. Coloro che non dispongono neanche di queste risorse minime si preoccupano principalmente di soddisfare i loro bisogni primari. Nei paesi meno sviluppati poche persone potrebbero disporre di tali risorse, mentre nei paesi più sviluppati tali risorse sarebbero disponibili per la maggioranza della popolazione. All’altra estremità della curva socioeconomica si trovano le persone che avrebbero più da perdere e sarebbero presumibilmente meno propense a impegnarsi in azioni violente ad alto rischio. (Copeland and Marsden, 2020).

LO STUDIO DELLA BANCA MONDIALE

In uno studio della Banca mondiale effettuato in 27 paesi in via di sviluppo si rileva che l’individuo che sposa visioni estreme mediamente ha un reddito basso, è giovane e disoccupato o fuori dalla forza lavoro, è meno istruito e meno religioso degli altri ma è più disposto a sacrificare la propria vita per le sue convinzioni (Ianchovichina and Kiendrebeogo, 2016). Come accennato all’inizio la problematica della relazione tra povertà e terrorismo è un argomento molto studiato, dibattuto e controverso nel tentativo di appurare se le cattive condizioni economiche rappresentino un fattore predittivo del terrorismo. La ricerca ha prodotto risultati a favore di questa tesi, contrari e altri che non rilevano alcuna relazione (LaFree and Schwarzenbach, 2021). Anche in questo caso si ritiene che le differenti situazioni storiche, geografiche, culturali, numeriche studiate, nonché le diverse metodologie di indagine usate non permettano risultati univoci e validi in contesti diversi. Un interessante lavoro, che indica come le stesse condizioni generano risposte molto diverse nei diversi gruppi, ha rilevato che il terrorismo di estrema destra si mobilita di più in periodi di privazione economica a lungo termine, mentre il terrorismo di estrema sinistra si mobilita di più in condizioni economiche in miglioramento (Varaine, 2020).

PRECEDENTI PENALI DEI TERRORISTI

Nella pubblicazione START Research Brief del Marzo 2023 relativa a 3023 profili di individui radicalizzati che hanno operato dal 1948 al 2021 negli Usa e raccolti nel programma PIRUS, la percentuale di soggetti in cui sono stati rilevati dei precedenti penali ammonta al 48% per i gruppi di estrema destra, al 32.2% per i gruppi di estrema sinistra, al 32.5% per gli appartenenti ad organizzazioni islamiste, al 29.6% tra gli attori solitari. Quasi un quarto (24,8%) dei responsabili degli attacchi e delle trame terroristiche jihadiste tra il 2010 e il 2015 in Europa aveva precedenti penali (Moro, 2016). In un report dell’ICSR del 2016 (Basra et al. 2016) relativo ai jihadisti europei risultavano esserci precedenti di polizia nei due terzi dei 669 combattenti stranieri tedeschi per i quali si disponeva di informazioni sufficienti, e condanne penali in un terzo, già prima di recarsi in Siria. Vi erano precedenti penali nella metà dei jihadisti del Belgio e tra i combattenti stranieri francesi, una quota ancora superiore, almeno il 60%, nei jihadisti olandesi e norvegesi prima di essere coinvolti in azioni di terrorismo. In una ricerca volta a stabilire la frequenza dei fattori di rischio nella popolazione generale e nei terroristi solitari la presenza di precedenti penali (giudiziari) nei 125 terroristi solitari è risultata del 48,8% rispetto al 2,5% rilevata nella popolazione generale, e una precedente incarcerazione del 26,4% rispetto allo 0,4%. (Clemmow et al., 2020).

SEGNALI PREDITTIVI DEL POTENZIALE COMPORTAMENTO VIOLENTO

Un passato comportamento criminale si è rivelato un predittore molto forte della violenza politica in numerose ricerche (LaFree and Schwarzenbach, 2021). Erano ex criminali molti degli autori degli attacchi al treno di Madrid nel 2004, i quali hanno finanziato la loro operazione vendendo droga. (Spain says’, Associated Press, 14 April 2004) Questa nuova classe di terroristi europei prescelta soprattutto dallo Stato islamico non è più prevalentemente reclutata nelle università o nelle scuole religiose ma sempre più nei ghetti urbani o suburbani delle città europee, nelle carceri, nelle classi sociali basse, tra coloro che hanno compiuto in precedenza atti illegali, violenze, crimini che rappresentano lo stesso bacino da cui attinge anche il mondo criminale. Questi terroristi cresciuti in casa in Europa, trovano nella narrativa jihadista una risposta perfettamente adatta ai bisogni e desideri di questi criminali in quanto giustifica e rende legittima la loro condotta delinquenziale e consente la redenzione dalle colpe passate. Spesso come evento scatenante del cambiamento di vita di queste persone si trova un evento emotivo di forte impatto (morte di un familiare, crisi familiare, eccetera), una crisi personale che li porta a rompere con il proprio passato e contemporaneamente genera quella che alcuni autori (Mccauley & Moskalenko, 2017) chiamano una «apertura cognitiva», una ricerca di una nuova via, di un nuovo senso della propria vita. Questo nuovo significato della propria esistenza non lo perseguono attraverso un percorso religioso tradizionale ma attraverso le prospettive offerte dal jihadismo che includono potenza, violenza, eccitazione, avventura, una forte identità di gruppo, un senso di appartenenza spiccato, uno spirito di ribellione antisistema.

TERRORISTI «CRESCIUTI IN CASA»

Tutti aspetti molto congeniali al mondo criminale da cui provengono questi soggetti che non comportano un cambiamento di comportamento ma semplicemente di scopo: gli individui con un passato criminale spesso continuano quello che stavano facendo nelle loro vite precedenti. Alcuni di loro fumano sigarette, bevono alcolici o assumono droghe, altri osservavano le regole religiose ma continuano a commettere crimini. Per l’arruolamento nell’ISIS, contrariamente a quanto richiesto da Al Qaeda, non era nemmeno necessaria una adeguata preparazione teologica, che queste persone solitamente non possiedono ma solo la disponibilità a mettere al servizio della causa le proprie abilità. Le eventuali colpe passate, per quanto gravi, possono essere riparate, redente attraverso il nuovo comportamento che purifica il vecchio. In uno slogan propagandistico jihadista si legge «il peggior passato crea i migliori futuri». Nella ideologia jihadista il crimine commesso per la causa non solo è condonato ma è giustificato. Il furto (o qualsiasi forma di crimine) è equiparato a ghanimah, che si traduce come «il bottino di guerra». La “regola sull’espropriazione dei miscredenti” sancisce l’uso del crimine per il bene del jihad, «sia per mezzo della forza che per mezzo del furto o dell’inganno». (Al-Malāḥim Media. Inspire Magazine. 2011) Nei loro giornali si legge infatti che rubare ai propri nemici non è solo consentito ma talvolta obbligatorio, si afferma ripetutamente che è il modo ideologicamente corretto di condurre il jihad nelle «terre della guerra».

CRIMINALI NELLE ORGANIZZAZIONI TERRORISTICHE

L’inserimento di criminali nelle organizzazioni terroristiche o anche la collaborazione tra i due ambienti rafforza le abilità operative, la pericolosità dei gruppi terroristici nel compiere azioni letali. I delinquenti sono abituati a trattare con le forze dell’ordine, hanno solitamente esperienza e familiarità anche con i limiti dei poteri della polizia, sono più capaci di sottrarsi alla attenzione delle autorità, di eludere la loro sorveglianza e il controllo, di organizzare con discrezione la logistica dei progetti criminosi, sotto pressione mostrano maggiore autocontrollo, hanno più frequentemente esperienza con le armi da fuoco, hanno un accesso più facile alle armi, e, cosa importante psicologicamente, hanno una soglia molto bassa per  coinvolgersi in atti terroristici. La familiarità, l’abitudine alla violenza desensibilizza il suo eventuale uso nel senso che il percorso verso l’azione è più rapido e agevole; scrupoli e remore sono facilmente e rapidamente superati nel salto tra il livello cognitivo e quello attivo, agito, al punto che per questi soggetti il coinvolgimento in azioni violente può richiedere pochi mesi, poche settimane quando il processo di radicalizzazione più comune può richiedere anni. Il nesso crimine-terrorismo non è qualcosa di nuovo. Si è potuto osservare nel caso del narcoterrorismo, nella produzione e vendita dell’oppio da parte dei Talebani, nell’esercizio del contrabbando da parte dell’IRA (Irish Republican Army).

RADICALIZZAZIONE IN CARCERE

Nel caso dei terroristi europei (Basra et al. 2016), la maggior parte di essi era coinvolta nella microcriminalità a livello locale (68%), molto pochi avevano un ruolo nazionale o transnazionale. Il carcere svolge un ruolo importante. Almeno il 57% (del campione europeo) è stata in carcere almeno una volta e si stima che il 31% di coloro che sono stati in prigione abbiano abbracciato la causa jihadista in quell’ambiente anche se poi il processo di radicalizzazione può essere proseguito fuori del carcere. Le prigioni da tempo sono state considerate terreno di cultura per il terrorismo. In carcere questi criminali, spesso giovani, si trovano in un ambiente ostile, diviso in modo tribale secondo criteri etnici o religiosi, dove prevale la legge del più forte, separati dagli amici, dalla famiglia, dalla società. In queste condizioni i nuovi detenuti si trovano in una fase di fragilità, in quella che Borum (Borum, 2014) indica come vulnerabilità. Le ragioni sopra esposte rendono le prigioni luoghi ideali, un terreno fertile, per il reclutamento di futuri jihadisti.

ESPERIENZE MILITARI

Dei 1.903 profili individuali di radicalizzati violenti che hanno operato negli Usa, raccolti nel programma PIRUS dell’Università del Maryland (consultata il 27 aprile 2023), si hanno informazioni su una precedente esperienza militare su 1599, di questi 1.300 non hanno una precedente esperienza militare nelle forze armate statunitensi. Tra i restanti 299, 208 risultano affiliati ad organizzazioni di estrema destra, 33 ad organizzazioni islamiste, 25 a organizzazioni di estrema sinistra, 33 sono attori solitari. Una precedente esperienza militare è una condizione apparentemente ricercata tra le organizzazioni radicalizzate di estrema destra e tra gli estremisti islamici (LaFree and Schwarzenbach, 2021).

LUOGHI E MODALITÀ DI RECLUTAMENTO

Senza l’ammissione di nuovi affiliati qualunque organizzazione è destinata ad estinguersi. Il reclutamento è una attività essenziale anche per le organizzazioni terroristiche che dedicano risorse e personale a questo scopo con modalità varie, spesso adattate alle esigenze e alla struttura della organizzazione o del contesto dove si cerca di assicurare una successiva generazione di nuovi membri al gruppo. Per i reclutatori di Al Qaeda esistono anche dei manuali per condurre queste operazioni (Fishman and Warius, 2009). Secondo Yayla (Yayla, Ahmet S. 2020) il compito del reclutamento è affidato alla componente logistica, non armata, della organizzazione terroristica che segue una procedura graduale, abbastanza definita, per arruolare i potenziali nuovi associati cercando di evitare il rischio di infiltrazioni da parte di informatori. Le fasi identificate sono quelle schematicamente sotto riportate:

  1. Identificazione del candidato.
  2. Avvio del contatto (se il contatto non esisteva già).
  3. Costruire rapporti e amicizia.
  4. Promuovere l’amicizia e la fiducia, introdurre l’indottrinamento ideologico e giocare con le emozioni.
  5. Isolare la recluta e portare avanti l’indottrinamento alla rete con altri terroristi e associazioni.
  6. Rafforzare l’assunzione di una nuova identità.
  7. Introdurre la recluta in semplici attività terroristiche come manifestazioni e post sui social media.
  8. Assegnazione di candidati a diverse parti dell’organizzazione terroristica

I RECLUTATORI

Le organizzazioni terroristiche utilizzano una varietà di luoghi completamente o parzialmente aperti al pubblico dove si svolgono attività legittime, in cui le persone possano liberamente interagire tra loro permettendo ai reclutatori di identificare i potenziali candidati per l’assunzione come: associazioni e fondazioni, librerie, bar, caffè o case da tè, internet caffè, centri multimediali, moschee e masjid (case di preghiera), complessi sportivi, palestre o centri di allenamento, circoli musicali o corsi di strumenti musicali, centri culturali o giovanili, centri di immigrazione, circoli sociali o centri di quartiere, imprese, dormitori privati o case per studenti, attività e raduni esterni, come concerti, incontri sociali o picnic. Per la loro attività i reclutatori utilizzano ricorrenze particolari, celebrazioni specifiche collegate alla ideologia dell’organizzazione ad esempio il primo maggio per le organizzazioni di estrema sinistra. Alcuni luoghi, come è stato illustrato nel paragrafo sulla istruzione e sui precedenti penali, sono particolarmente privilegiati dai terroristi e sono le scuole, le università e le prigioni per le ragioni già anticipate. Una altra modalità molto frequente, già presentata nella esposizione precedente avviene attraverso le relazioni familiari e sociali. L’autore sopra citato ha constatato che l’introduzione in una organizzazione terroristica di nuovi membri è avvenuta con l’aiuto di amici nel 35% delle volte e attraverso i membri della famiglia il 26,5% delle volte (Yayla, Ahmet, 2001).

IL RAPPORTO EUROPOL 2022

Nell’ultimo rapporto di Europol (TE SAT 2022) si conferma che come negli anni precedenti, nel 2021 il reclutamento per il terrorismo jihadista nell’UE è avvenuto tramite contatti personali, in ambienti di ritrovo come sale di preghiera non ufficiali, associazioni salafite, nonché carceri e centri di accoglienza oppure online. Sia i destinatari che i reclutatori sembrano diventati sempre più giovani e hanno incluso i minori. Tuttavia il reclutamento da parte di agenti esterni sembra interessare poco i jihadisti europei in quanto solo l’8% di essi è risultato preda di reclutatori, nella maggioranza degli altri casi l’esposizione alla radicalizzazione e la successiva introduzione nelle organizzazioni terroristiche avviene attraverso amici e familiari (Rekawek et al. 2018). Coloro che hanno più intensi e frequenti contatti con compagni radicalizzati risultano più facilmente coinvolti in atti di violenza estremista rispetto agli altri (LaFree and Schwarzenbach, 2021).

REGIONI GEOGRAFICHE DI PROVENIENZA

Tra i terroristi jihadisti che hanno agito in Europa tra il 2001 e il 2015 la grande moltitudine degli attentatori è di origine non europea ma nordafricana, pakistana, irachena, bengalese, turca tra cui migranti di prima, seconda o terza generazione che risiedevano nei paesi membri dell’Unione europea. Il 20% circa aveva una doppia nazionalità, di un paese europeo e solitamente uno nord africano.  Un minor numero di essi provenienti dall’Europa consisteva di convertiti o di figli di matrimoni misti (Moro 2016). Per le altre tipologie di terrorismo (estrema destra, estrema sinistra, separatisti, eccetera) è più probabile che si tratti di terroristi di origine familiare europea. Gli attacchi terroristici avvengono in tutto il mondo e in misura molto superiore a quanto possiamo osservare in Europa. Ciò che colpisce degli attentati nei paesi occidentali è che avvengono in paesi dove non ci sono conflitti incorso come purtroppo avviene in molte altre regioni del pianeta.

CORRELATI IDEOLOGICI

L’ideologia è stata descritta come una lente attraverso la quale si vede e si interpreta ciò che ci circonda, una struttura cognitiva che dà forma a pensieri, opinioni e credenze (Ahmed, 2020) ma anche un sistema di credenze con proprietà e finalità collettive e risvolti socioculturali. J. Leader-Maynard, (Leader Maynard, 2014) la definisce come “un sistema distintivo di idee normative, semantiche e/o presumibilmente fattuali, tipicamente condivise dai membri di gruppi o società, che sostiene la loro comprensione del loro mondo politico e modella il loro comportamento politico». Privilegiando un approccio sociocognitivo Wilson (Wilson, 1973) concettualizza le ideologie come mappe cognitive di valori condivisi che delineano standard e aspettative, cioè in grado di aiutare la comprensione dei fenomeni ma anche di motivare e guidare l’azione. La motivazione, la forza che spinge all’azione è una altra caratteristica determinante della ideologia, capace non solo di guidare l’azione ma ogni aspetto della propria vita, di orientare le scelte, di cambiare le valutazioni. Quando consiste in un sistema formale completo, assume un potere enorme, capace di fornire una risposta a ogni domanda, possiede una forza totalitaria e totalizzante che si impone in ogni situazione, incluse quelle di conflitto e di incertezza, cambiando la prospettiva di giudizio e consentendo nel caso del terrorismo di giustificare e incoraggiare la violenza anche su civili innocenti.

L’ASPETTO COLLETTIVO

L’altro aspetto meritevole di enfasi è quello collettivo, la condivisione di idee, valori, credenze all’interno di una comunità che può precedere e guidare la formazione di gruppi. Un gruppo prima che possa agire deve essere formato e l’ideologia può costituire il nucleo di aggregazione intorno al quale si formano i gruppi e a sua volta rappresenta una forza che modella l’identità del gruppo, ne influenza le azioni e le comunicazioni con l’esterno. La condivisione di interessi, di aspettative, di preferenze riguardo al sistema sociale espresse in termini politici, secondo Jost et al. (Jost et al., 2017), sono processi intrinsecamente ideologici. L’ideologia per alcune scuole di pensiero svolge un ruolo chiave nella spiegazione dell’estremismo violento e del terrorismo che ne sarebbe la derivazione, la conseguenza diretta. Dall’altra si contrappone un crescente numero di studiosi che negli anni hanno molto ridimensionato l’influenza della ideologia sul fenomeno terroristico. Tuttavia la cancellazione della componente ideativa da queste azioni lascia l’azione violenta senza una causa comprensibile a livello collettivo. Il Dipartimento della sicurezza interna Usa afferma che “per essere classificato terrorismo ci deve essere una comprensibile motivazione politica, ideologica o religiosa” (US Department of Homeland Security, 2019). L’ideologia non è qualcosa di rigido, il suo impatto dipende da quanto influenza la percezione dell’ambiente. Rappresenta una sorta di mappa collettiva per dare senso al mondo, una visione del mondo. L’ideologia assolve una serie di funzioni come difendere la comunità, il suo patrimonio e i valori comuni, fornire un senso condiviso di appartenenza. Nel caso dell’estremismo violento può «normalizzare» ciò che prima o altrimenti avrebbe costituito una devianza, può offrire all’interno del gruppo una convalida sociale di convinzioni solitamente ripugnanti per coloro che sono al di fuori di esso (Holbrook & Horgan, 2019).

IDEOLOGIA E MENTALITÀ

Un costrutto affine alla ideologia è la mentalità (Mindset), un complesso di convinzioni, di valori, di motivazioni solitamente in relazione con il contesto socio culturale storico del momento, con cui il soggetto percepisce, interpreta, elabora le informazioni per poi rispondere alle situazioni che si trova a vivere.  Consiste in un atteggiamento mentale, un modo di pensare capace di influenzare significativamente il comportamento, di giuocare un ruolo particolarmente importante nell’aggressività guidata dall’ideologia. Il concetto di mentalità potrebbe rappresentare un utile strumento cognitivo di mediazione tra la ricerca di una disposizione individuale verso il terrorismo e l’attribuzione del fenomeno terroristico esclusivamente al contesto socio politico in cui è originato. Il concetto di mentalità, avendo una relazione sia con le caratteristiche individuali sia con l’ambiente, potrebbe essere utilizzato per spiegare più adeguatamente i complessi processi e fenomeni che rileviamo nella violenza estremista. Secondo Saucier et al. (Saucier et al. 2009) la mentalità estremista è costituita di varie componenti, schemi e modi di pensare, accessibili a tutti. Alcuni soggetti potrebbero mostrare una maggiore propensione ad adottare questa mentalità per disposizioni personali o in presenza di certe condizioni facilitanti.

COMPONENTI DELLA MENTALITÀ ESTREMISTA MILITANTE

Le componenti della mentalità estremista militante sono state identificate da Saucier e dal suo team internazionale attraverso una ricerca empirica che ha raccolto una documentazione scritta di varia natura (libri, materiale stampato, dichiarazioni esplicite, comunicati web) emanata da varie organizzazioni terroristiche, attive negli ultimi 150 anni in 7 differenti aree geografiche, da cui ha estratto dei temi ricorrenti che fossero presenti in almeno tre gruppi. Il risultato del lavoro ha portato ad individuare 16 temi che possono caratterizzare una mentalità militante estremista, non sempre tutti rilevabili in ciascun movimento ma capaci di rinforzarsi reciprocamente quando presenti: La necessità di misure non convenzionali ed estreme;  uso di tattiche che hanno la funzione di assolvere dalla responsabilità per le esecrabili conseguenze della violenza che si appoggia o si compie; importanti miscele di terminologia militare in aree del discorso dove normalmente non si riscontrano; sensazione che la capacità del gruppo di raggiungere la posizione che le spetta è tragicamente contrastata; glorificare il passato, in riferimento al proprio gruppo; utopia; frequente riferimento a un futuro paradiso o almeno a un lungo e glorioso futuro”; catastrofismo. Sensazione che grandi calamità sono accadute, accadono o accadranno. Anticipazione di un intervento soprannaturale con comandi o poteri miracolosi attribuiti alla propria parte provenienti da entità soprannaturali; Un imperativo di annientare il male e/o purificare il mondo interamente dal male.10. Glorificazione del morire per la causa; Dovere, obbligo di uccidere o di fare una guerra offensiva; Machiavellismo al servizio del «sacro». Diritto di usare mezzi immorali, se necessario, per assicurare il successo della loro causa; Un’elevazione dell’intolleranza, della vendetta e delle azioni belliche  a virtù (o quasi) con l’attribuzione, in alcuni casi, di tali disposizioni a entità soprannaturali; disumanizzazione o demonizzazione degli oppositori; il mondo moderno percepito come un disastro; il  governo civile del momento considerato come illegittimo.

NECESSITÀ DI MISURE NON CONVENZIONALI ED ESTREME

Il tema delle misure estreme, al di là delle norme e delle convenzioni, è legato allo stesso concetto di mentalità militante radicale, estremista, costituita cioè delle posizioni collocate sul versante più estremo della distribuzione statistica e coincidenti con le più oltranziste nel panorama socio politico. La necessità potrebbe essere motivata, giustificata, con ragioni politiche di visibilità, cioè per attirare l’attenzione, oppure come l’unica modalità efficace per essere presi in considerazione e alla quale si è stati costretti per colpa di qualcun altro che è il vero responsabile. Di fronte ad una data situazione si ritiene che le risposte convenzionali o usate in precedenza non abbiano prodotto e non produrranno effetti significativi, efficaci sul sistema sociale, politico, economico, culturale, religioso che si intende modificare. Occorre usare delle tattiche innovative, rivoluzionarie, violente che vadano oltre gli standard normativi ed etici perché si ritiene che il sistema non consenta un pacifico cambiamento, una evoluzione positiva e costruttiva della situazione esistente. Naturalmente la percezione della situazione come immodificabile con metodi non violenti da parte degli estremisti non significa che tale sia nella realtà poiché anche la percezione risente del modo di pensare estremista (Stili di pensiero, strutture cognitive, distorsioni cognitive) di chi osserva e non solo del contesto oggettivo. L’uso di queste metodiche deve superare i freni e le inibizioni poste dalle norme etiche e sociali nei confronti di certi comportamenti cruenti e spietati. Delle modalità con cui gli estremisti si confrontano con le problematiche etiche si parlerà nei temi successivi.

TATTICHE E CONSEGUENZE ESECRABILI DELLA VIOLENZA

Uso di tattiche che hanno la funzione di assolvere dalla responsabilità per le esecrabili conseguenze della violenza che si appoggia o si compie. La violenza estremista che colpisce indiscriminatamente civili innocenti o che ricorre al loro rapimento è condannata in molte culture e richiede una giustificazione particolarmente potente per non provocare una forte indignazione (Kruglanski & Fishman, 2006). Ciò suscita inevitabilmente una riflessione sulle conseguenze sociali, politiche di tali gesti e sulla loro valutazione morale anche all’interno delle stesse organizzazioni terroristiche che elaborano spiegazioni e giustificazioni ad hoc intese a raccogliere consenso e approvazione. Secondo O’Sullivan (O’Sullivan, 1986) un nuovo, moderno stile ideologico si è imposto in politica a partire dall’illuminismo, in particolare dalla Rivoluzione francese, che ha scardinato le precedenti consuetudini sull’uso della violenza. Da allora le moderne ideologie, come l’anarchismo, il marxismo, il nazionalsocialismo hanno cercato di presentare qualunque atto, anche violento, da loro compiuto in forma isolata o collettiva come moralmente accettabile. Il famigerato “Colpirne uno per educarne cento” attribuito a Mao e ripreso dalle Brigate Rosse rientra nella pedagogia insegnata attraverso le azioni, i gesti, una strategia di propaganda, una tattica comunicativa terroristica che giustifica azioni violente e drammatiche con l’ipotetico beneficio che ne deriverebbe a livello generale. Tra le giustificazioni addotte dagli autori estremisti di crimini per assolvere il loro operato vi è il fine di raggiungere il vasto pubblico con azioni capaci di lasciare una traccia indelebile oltre che traumatizzante (Kaczynski, 1996). Altri gruppi estremisti possono accettare la catastrofica sofferenza provocata dalle loro azioni con il servizio prestato verso una causa superiore morale o religiosa come la difesa del proprio gruppo di appartenenza contro i suoi nemici, l’affermazione della giustizia sociale o l’attuazione della volontà di Dio (Haidt & Graham, 2007). Una ulteriore tattica per sottrarsi alle proprie responsabilità è quella di attribuirla ad altri, presentando le proprie decisioni come imposte dall’esterno, dalle circostanze o meglio dal comportamento indisponibile del sistema politico vigente.

MISCELE DI TERMINOLOGIA MILITARE

Importanti miscele di terminologia militare in aree del discorso dove normalmente non si riscontrano. Il linguaggio estremista è fortemente intriso di una terminologia militare come lotta, guerra, difesa, battaglia, etc. applicata a contesti non sempre appropriati o mescolata con concetti politici e religiosi come “lotta politica”, “guerra santa”, “martirio”. La vita quotidiana è descritta con una terminologia bellica come se fosse in atto uno scontro reale che secondo Ferracuti (1982) esiste solo nella fantasia del terrorista. Tuttavia il vissuto tipico del terrorista è quello di una lotta permanente e ubiquitaria contro forze ostili che vanno combattute con mezzi aggressivi, violenti. Contrariamente all’uso metaforico che ne viene fatto di solito nella comunicazione corrente i gruppi estremisti ne fanno un uso più letterale, conferiscono a certi termini un significato realistico e probabilmente motivante (stimolante) verso gli obiettivi da essi perseguiti. La funzione svolta da questi concetti potrebbe essere la coltivazione del mito del guerriero, della celebrazione delle virtù eroiche, della esaltazione del sacrificio per un valore superordinato a cui dedicare la vita. (Kruglanski et al., 2009).

SENSAZIONE RIGUARDO ALLE CAPACITÀ

Sensazione che la capacità del gruppo di raggiungere la posizione che le spetta è tragicamente contrastata. Il percorso verso la radicalizzazione e l’estremismo molto spesso inizia con una lamentela, una recriminazione per la percezione di una ingiustizia, per un diritto che si ritiene negato o calpestato. Spesso origina da sentimenti di privazione (Gurr, 1970). Wolfowicz et al. (Wolfowicz et al., 2021), identificano tre tipi di deprivazione. Il primo è quando un individuo valuta lo stato e la posizione del proprio gruppo come relativamente peggiori di quelli di altri gruppi, presumibilmente come risultato di una qualche forma di discriminazione nei confronti del gruppo. Il secondo tipo assume la forma di una sensazione che al proprio gruppo o ai suoi membri manchino quelle cose che desiderano o credono di meritare, anche se i loro bisogni materiali vengono soddisfatti; tali aspirazioni possono essere non materiali, come il potere politico. La terza possibile fonte di deprivazione relativa è l’identificazione vicaria con un gruppo oggettivamente deprivato. In questo caso, l’individuo o il gruppo che si identifica con il gruppo deprivato potrebbero non essere necessariamente privati collettivamente o individualmente dei beni per cui lottano. In ogni caso, secondo Gurr (Gurr, 1970), i sentimenti di privazione sorgono quando i membri del gruppo percepiscono che il loro percorso verso un obiettivo desiderato e meritato è bloccato. O’Sullivan (O’Sullivan, 1986) fa risalire allo stile ideologico iniziato in politica alla fine del XVIII secolo la ricerca dei responsabili della privazione identificandoli in un gruppo esterno (outgroup) al proprio (ingroup). I responsabili della privazione, percepiti come sfruttatori da espellere, combattere o eliminare, possono appartenere ad una potenza straniera occupante, spesso con una struttura democratica, dal cui governo, nel caso del terrorismo suicida (Pape, 2003), si vogliono ottenere concessioni politiche e/o territoriali. Le esperienze di discriminazione, la vittimizzazione, possono portare alla nascita di sentimenti di rabbia, al desiderio di rivalsa, di vendetta, alla radicalizzazione e alla genesi della violenza, considerata a quel punto l’unica opzione possibile, senza alternative (Knutson 1981).

GLORIFICARE IL PASSATO

La glorificazione del passato, presentato spesso come la mitica «età dell’oro», è una modalità frequentemente usata da persone, gruppi e popoli che si trovano nel momento presente in una condizione insoddisfacente o francamente frustrante. Il riferimento a un passato glorioso, ad una eredità culturale con cui ci si identifica può mitigare le asperità della situazione presente, alimentare la speranza e la motivazione per raggiungere nuovamente quello stato glorioso. Questa tematica è spesso presente tra gli estremisti dei movimenti etnonazionalisti (Smith, 2001) e se si associa ad una considerazione superiore o elitaria del proprio popolo può configurarsi come una sorta di imperialismo culturale (Said, 1993). Può essere considerato un meccanismo di difesa per preservare la propria identità nei confronti della globalizzazione culturale in molte discipline ma come tale si presta a distorsioni o a estremizzazioni. Ad esempio la glorificazione del passato di molti popoli indigeni di cui si esalta la loro sintonia con la natura e che ha portato alle estremizzazioni della “Cancel Culture” ha spesso fatto dimenticare le brutali realtà di quelle epoche (i sacrifici umani degli Aztechi, le malattie, privazioni etc. degli indiani, etc.) che non meritano certo di essere glorificate. In aggiunta l’idealizzazione del passato può mascherare una fuga dalle responsabilità, dallo stress del momento presente con l’incapacità di apprezzarne le opportunità per il futuro. La nostalgia di un passato ritenuto glorioso caratterizza alcuni movimenti estremisti neonazisti o suprematisti bianchi ma anche la politica imperialista di alcuni stati come la Repubblica popolare cinese (Tibet), la Federazione russa (Georgia, Cecenia, Ucraina) (Duncan, 2014), la Turchia (Kurdistan, Siria, Libia) che con il nuovo espansionismo militare e culturale cercano di ripristinare la perduta potenza e l’antico prestigio.

UTOPIA

Con Utopia, etimologicamente «non luogo», un luogo non esistente nella realtà, si intende riferirsi a un luogo ideale che Tommaso Moro descrive come un’isola, dove vige un assetto politico, sociale e religioso che viene proposto come modello da imitare, una specie di paradiso in terra. Il pensiero utopico promette di realizzare una società perfetta, senza sofferenza, composta di persone particolarmente virtuose, raggiungibile con l’attuazione delle ideologie che gli estremisti propugnano. Un rinnovamento totale delle condizioni di esistenza attraverso una palingenesi cosmica è annunciato da Sendero Luminoso che riesce ad amalgamare il misticismo andino e il maoismo radicale in una visione messianica che esalta il ripristino della gloria inca perduta (il ritorno dell’Incarrì della utopia indiana/andina) attraverso la violenza, una forza purificatrice capace di scacciare i modi di pensiero tradizionali (Ron, 2001). La integrazione della concezione rivoluzionaria maoista con i miti andini è basata sulla comune enfasi della purezza ideologica (Strong, 1992). Nella visione utopica è prevista una netta distinzione tra i seguaci del movimento che riceveranno ricompense per il loro comportamento nel futuro o in un’altra vita e i reietti che sono destinati alla eliminazione in questa vita o alla perdizione eterna. La prospettiva di creare una società ideale esercita una forte attrazione sulle persone in particolare quelle che vivono una situazione insoddisfacente o frustrante. In alcuni sistemi ideologici l’avvento della società ideale, utopica, potrà essere preceduto da sconvolgenti calamità che caratterizzano la prospettiva catastrofica trattata nel prossimo tema.

CATASTROFISMO

L’idea che la storia sia segnata da grandi calamità naturali, climatiche, sociali, economiche, belliche e muova inesorabilmente verso una fine catastrofica è presente da tempo nella cultura occidentale che periodicamente genera movimenti che annunciano la prossima fine del mondo. Il pensiero catastrofico tende a percepire e descrivere le situazioni come sull’orlo di una crisi inevitabile a cui le persone devono prepararsi attivamente. La continua ripetizione di queste idee può creare uno stato di tensione, di allarme nelle persone e svolge una funzione motivante verso il progetto perseguito dal gruppo estremista. Analogamente al pensiero utopico anche quello catastrofico e apocalittico lasciano trasparire un forte disagio o disimpegno verso la realtà presente per rivolgersi interamente verso la realtà futura dove le speranze e le aspettative di un mondo rinnovato troveranno pieno soddisfacimento. Le narrative catastrofiste e apocalittiche resistono alle disconferme ripetute che incontrano nella realtà per la consolazione che offrono di fronte alle difficoltà presenti. Anche in questo caso come nel precedente tema viene operata una distinzione netta tra coloro che sostengono la visione del movimento e gli altri i quali saranno colpiti da terribili punizioni in questa vita o nell’altra. Il piacere che deriva da sofferenze o danni subiti dagli avversari o dai nemici (schadenfreude o aticofilia) è stato osservato e descritto da varie ricerche (Leach, 2003) che hanno studiato le competizioni sportive, politiche. È possibile ipotizzare che la convinzione dell’imminente accadimento di eventi catastrofici che colpiscano i loro nemici possa rappresentare per i gruppi estremisti una gratificazione anticipatoria per la loro frustrazione attuale. L’auspicato ritorno di un passato glorioso in una visione utopica si potrebbe combinare con un presente caratterizzato da ingiustizie che saranno spazzate via da catastrofi di varia natura. Sul piano clinico terapeutico la tendenza a catastrofizzare è una distorsione cognitiva (Ellis & Harper, 1975), un modo di percepire e pensare che può portare allo sviluppo o all’aggravamento dell’ansia e della depressione ed in ogni caso capace di influenzare le decisioni e i comportamenti. In previsione di un risultato negativo si salta subito alla conclusione come se quel risultato fosse già accaduto. Spesso si accompagna ad una ruminazione ossessiva sull’inevitabile disastro che si verificherà, con una amplificazione emotiva della probabilità che ciò avvenga. Nasce così una sensazione da imminente giudizio universale da cui gli individui possono tentare di uscire con azioni impulsive, inconsulte e spesso irrazionali.

INTERVENTI SOPRANNATURALI

Anticipazione di un intervento soprannaturale con comandi o poteri miracolosi attribuiti alla propria parte provenienti da entità soprannaturali. Il rapporto con il soprannaturale caratterizza molti movimenti eversivi e radicali che nelle loro ideologie confinano spesso con il misticismo. Le organizzazioni estremiste si devono confrontare con enti ed istituzioni potenti come gli stati, i governi e non sorprende che in questa lotta che richiede molto coraggio e fortuna si appoggino a entità ritenute ancora più potenti come le divinità.  Da un essere soprannaturale così concepito i gruppi si attendono interventi miracolosi di soccorso alla loro causa e non è infrequente che tale aiuto venga invocato anche con pratiche religiose non proprio ortodosse o addirittura con rituali segreti, misterici specie in prossimità di una azione aggressiva di particolare importanza. La mescolanza di terminologia militare e religiosa era già stata trattata nel tema 3, in questo caso la mescolanza riguarda pratiche religiose e militari. Come in precedenza si è operata una netta distinzione tra i seguaci del gruppo e il resto del mondo per quanto riguarda le ricompense e le punizioni anche in questo caso la differenza proclamata è il chiaro, inequivocabile favore dispensato dalla divinità alla causa portata avanti dal gruppo estremista. Le soluzioni miracolistiche auspicate dagli estremisti includono fantasie di dissolvimento degli avversari, doti di preveggenza del loro leader che anticiperebbe le mosse degli avversari, l’impossibilità di essere feriti o uccisi dopo avere eseguito certi rituali di purificazione (es. camicie della danza degli spettri). Naturalmente il rapporto con il soprannaturale prevede la comunicazione tra la divinità e il gruppo estremista, solitamente mediata dal leader del gruppo che riceverebbe visioni, comandi, direttamente dall’entità trascendente o tramite spiriti intermedi. Il genere di comandi o di missioni ricevuti possono consistere nella creazione di una forza militare armata, nella lotta per il trionfo di un progetto politico religioso etc. Comandi o comunicazioni presentate in questa veste possono esercitare molto ascendente su individui aperti verso queste realtà sebbene possano suscitare molti dubbi e perplessità ad una valutazione critica e razionale.

ANNIENTARE IL MALE

Un imperativo di annientare il male e/o purificare il mondo interamente dal male. La cultura estremista è caratterizzata dall’obbligo morale, avvertito quasi come sacro, di eliminare non i mali del mondo ma di cancellare il male dal mondo in senso assoluto. Questa concezione politica di tipo ideologico (O’Sullivan, 1986) risale all’illuminismo che riteneva il male non intrinseco alla natura umana, non legato alla colpa originale e in qualche modo ineliminabile dal mondo, ma piuttosto frutto delle scelte e delle azioni dell’uomo nella storia. Come il male era stato introdotto dall’uomo nella storia così poteva essere eliminato con gli adeguati cambiamenti sociali. La concezione precedente, basata sugli insegnamenti evangelici, raccomandava la convivenza con il male, non l’eradicazione di esso se non alla fine dei tempi. Perciò l’atteggiamento suggerito nei confronti del male era piuttosto di accettazione e di rassegnazione. La maggior parte delle persone ammette che il male esiste e che sarebbe oltremodo desiderabile cercare di ridurne la portata ma non in modo indiscriminato, sempre e solo nel rispetto dei limiti etici e delle procedure ammesse dalle norme. Al contrario i militanti estremisti, che già hanno una percezione esacerbata del male e delle ingiustizie e ne sono ossessionati, si sentono investiti di una missione purificatrice, quasi messianica, da attuare con metodi drastici, anche devastanti e in tempi rapidi se non proprio immediati. Non hanno la pazienza di operare con gradualità cercando di diminuire, limitare le iniquità, le ingiustizie, vogliono arrivare al risultato da loro auspicato con la celerità dei metodi violenti e la radicalità della purificazione che include lo sterminio degli oppositori. La pretesa ideologica di eliminare il male dal mondo in modo completo, totale, rende questa prospettiva affine alle concezioni ideali di tipo apocalittico.

GLORIFICAZIONE DELLA MORTE PER LA CAUSA

La morte onorevole, gloriosa ha quasi sempre rappresentato un valore nei gruppi e nelle organizzazioni armate dei combattenti dove è considerata degna di celebrazione, di ammirazione, particolarmente se legata a cause nobili o sacre come la difesa della propria popolazione, della propria identità, della propria religione quando minacciate da forze ostili esterne. Si tratta di un riconoscimento prevalentemente di tipo non materiale (ammirazione, reputazione, status sociale) che viene tributato ai militanti dalla comunità di appartenenza ma talvolta è associato anche a ricompense materiali per la famiglia dell’estremista che si è sacrificato. A cominciare dalla denominazione, gli individui che lottano per una causa del proprio gruppo vengono chiamati con appellativi eroici come “combattenti per la libertà, martiri” etc. e godono di un prestigio elevato. Alla grande considerazione della morte gloriosa corrisponde solitamente una scarsa considerazione per la morte non significativa, valutata priva di senso, di tutte le altre persone, incluse le vittime civili delle violente azioni estremiste. Questa discrepanza costituisce una forte motivazione verso i comportamenti eroici, verso il sacrificio, anche della vita, a favore dell’ideale politico perseguito. Una ragione ulteriore per morire gloriosamente è la ricompensa spesso associata a queste azioni, capace di superare l’istinto di autoconservazione. La ricompensa è l’immortalità promessa nell’altra vita dai sistemi ideologici estremisti ad impronta religiosa o la fama e una reputazione durature nei sistemi ideologici secolari. Entrambe le ricompense rappresentano modalità frequentemente usate per affrontare la paura della morte. I concetti espressi nelle comunicazioni dei gruppi estremisti su questo tema ruotano intorno alla immortalità della gloria conquistata con il sacrificio o assicurata dalla prosecuzione della lotta portata avanti dal gruppo di appartenenza.

DOVERE, OBBLIGO DI UCCIDERE O DI FARE UNA GUERRA OFFENSIVA

L’obbligo morale quasi religioso di uccidere gli altri, in particolare nemici e avversari ma anche vittime innocenti, è la trasformazione del comandamento biblico “non uccidere” nell’imperativo positivo “devi uccidere”. Sulla base di questo imperativo si configura una nuova morale con carattere quasi religioso che, secondo Strada (Strada, 2018), si sviluppa negli ambienti rivoluzionari e terroristici della Russia di metà ottocento. Si tratta di una etica del terrore che, ispirandosi alla fase giacobina della rivoluzione francese, vuole porre fine alla violenza con la violenza estrema.  Inseguendo la fantasia utopica di una società ideale viene invocata una reale, concreta, inesorabile rivoluzione sanguinosa con distruzione di chiunque sia ritenuto di ostacolo al progetto. Possono essere singole persone ritenute responsabili della oppressione del popolo e possono essere intere categorie sociali. Il terrorismo è, secondo Pëtr Tkačëv, l’unico mezzo di rinascita morale e sociale del paese. E’ Sergej  Nečaev, probabilmente descritto da Dostoevskij nel romanzo  I demoni, colui che, secondo Strada (Strada, 2018) portò al massimo livello il culto dell’atto violento nel “Catechismo del rivoluzionario”, scritto insieme a Bakunin, in cui ha teorizzato che l’unica scienza è quella della distruzione e che è morale tutto ciò che favorisce la rivoluzione e immorale tutto ciò che la ostacola. La distinzione è operata ancora una volta tra chi è con il gruppo estremista e chi non lo è, che è automaticamente incluso tra gli avversari, tra ingroup e outgroup. Anche questo tema può essere legato a quello dell’onore e della gloria. In alcune culture (glorious warrior) uccidere i nemici comporta l’acquisizione di una denominazione speciale a cui è legato uno status sociale elevato. In alcuni popoli del sud America e dell’Africa orientale si associa anche ad un vantaggio riproduttivo rappresentato da un maggior numero di mogli e di figli. Secondo Strada, il dovere di uccidere costituisce uno dei caratteri fondanti del terrore praticato, sia esso rosso o nero, laico o jihadista. I gruppi e i movimenti che si impegnano solo nella violenza a scopo difensivo sono presumibilmente meno pericolosi.

IL MACHIAVELLISMO AL SERVIZIO DEL «SACRO»

Il machiavellismo, che deriva da una astrazione decontestualizzata del pensiero del Machiavelli, si riferisce ad una dottrina politica ed anche ad un atteggiamento psicologico improntato all’utilitarismo, alla insensibilità e completamente disgiunto dalla morale (Christie & Geis, 1970). Consiste in un opportunismo politico che usa la manipolazione e l’inganno in modo spregiudicato per perseguire i propri scopi, sintetizzato dalla frase che Machiavelli non ha mai pronunciato “il fine giustifica i mezzi”. La teorizzazione dell’asservimento della morale alla causa politica è stata già accennata nel tema precedente. In questo caso si teorizza la subordinazione della morale addirittura a qualche cosa di sacro, o considerato sacro, non necessariamente religioso. Si parte dal presupposto che i valori, gli scopi perseguiti non siano solo veri e giusti ma sacri, se proprio non divini almeno divinizzati, espressione di un valore soprannaturale che giustifica, autorizza comportamenti amorali o immorali in virtù dello scopo sacrale. La commistione dell’utilitarismo politico con i concetti religiosi, sacrali può apparire incompatibile, contraddittoria ad una prima analisi ma la tendenza di alcune ideologie a trasformarsi in religione quando non derivino il loro programma politico direttamente da una impostazione religiosa spiega agevolmente la sovrapposizione tra questi due piani nel campo dell’estremismo e del terrorismo (Keynes, 1925, citato da Strada, 2018). L’assenza di una distinzione tra la sfera politica e quella religiosa caratterizza il terrorismo islamico e, secondo Strada (2018), il terrorismo russo prerivoluzionario con la conseguenza di potenziare fortemente la motivazione degli estremisti verso l’uso della violenza anche quando infrange regole morali dal cui rispetto i terroristi si sentono dispensati in virtù della “sacralità” della loro causa. Sulla base di quanto sopra esposto Nikolaj Strachov (1828-1896), citato da Strada (2018), ritiene il nichilismo e i metodi terroristici “una mostruosa perversione dell’anima umana, per effetto della quale il misfatto diventa virtù, l’effusione di sangue opera buona,…”. La trasformazione del significato delle azioni verrà esaminato più specificamente nel prossimo tema.

ELEVAZIONE DELL’INTOLLERANZA

Un’elevazione dell’intolleranza, della vendetta e delle azioni belliche a virtù con l’attribuzione, in alcuni casi, di tali disposizioni a entità soprannaturali. La trasformazione di un comportamento solitamente giudicato riprovevole in un comportamento virtuoso richiama i metodi descritti nel romanzo di G. Orwell “1984” con cui si modificavano continuamente gli eventi e il loro significato in modo da renderli congruenti con le scelte operate di volta in volta dal governo totalitario. Nel tema esaminato non emerge solo il comportamento intollerante, vendicativo e aggressivo, messo in atto dagli estremisti e generalmente condannato come deplorevole sul piano morale, ma la sua riabilitazione in termini favorevoli o la sua giustificazione in termini di necessità. Il passaggio ulteriore è costituito dalla approvazione di tali comportamenti violenti da parte di una divinità o una entità soprannaturale che li comanderebbe fornendo un potente patrocinio, il pieno sostegno alle azioni dei militanti. Anche in questo caso si tratta di una interpretazione aggressiva e violenta della volontà divina dal momento che l’Essere supremo è generalmente presentato come benevolo e come unico depositario della eventuale vendetta. La giustizia e le ricompense spettano a Dio non agli uomini. Arrogandosi il diritto di dispensare le punizioni gli estremisti si considerano una sorta di agenti divini, di esecutori della volontà divina, esonerati da ogni scrupolo morale, investiti di sacri compiti e sostenuti da una forza insuperabile.

DISUMANIZZAZIONE O DEMINIZZAZIONE DEGLI OPPOSITORI

Anche se è stata messa in discussione la formulazione e la utilità esplicativa del costrutto “disumanizzazione” (Over, 2021), così come è stato usato finora nella ricerca, è difficile negare la sua importanza concettuale ed il suo largo impiego in molte discipline dalla antropologia alla psicologia, alla filosofia. La disumanizzazione o demonizzazione degli oppositori è una tecnica retorica della propaganda mirata raffigurare altri esseri umani, annoverati tra gli avversari o nemici, come sprovvisti della natura umana. In tale veste perdono la protezione della moralità e possono essere giudicati privi dei diritti e del rispetto normalmente dovuto agli altri nostri simili (Leyens et al., 2007). La snaturazione può assumere la forma di animalizzazione, biologizzazione, oggettivazione, meccanizzazione o di demonizzazione nelle varie situazioni storiche e sociali in cui viene attuata. La disumanizzazione può iniziare in modo sottile con la subumanizzazione. Gli oppositori possono per questo essere giudicati sì umani ma inferiori.  La biologizzazione tende ad esempio a trasformare gli esseri umani in agenti biologici morbosi (virus, batteri infettivi) da eliminare con metodi radicali come la pulizia etnica (sterilizzazione). La animalizzazione degrada la condizione umana a quella degli animali nei confronti dei quali si possono avere meno scrupoli nell’infliggere offese o lesioni. La oggettivazione o la meccanizzazione assimila gli esseri umani a degli oggetti, strumenti per i propri scopi, nei confronti dei quali si prova solitamente indifferenza, distacco, piuttosto che empatia. La demonizzazione è una forma particolare di disumanizzazione che attribuisce ad altri esseri umani qualità “superumane”. Essa è più frequente nei movimenti estremisti di ispirazione religiosa nella cui dottrina è più facile trovare entità malefiche quali i demoni e i diavoli (Il grande Satana). La disumanizzazione e la demonizzazione degli avversari, come già anticipato, riduce o cancella gli scrupoli morali provocati dall’infliggere sofferenze agli esseri umani, assolve gli autori della violenza dalla loro responsabilità e talvolta addirittura li rappresenta come eroi che lottano, (Tema 10), attaccano coraggiosamente i nemici. Affermazioni di questo tipo si trovano nei comunicati delle Tigri Tamil dello Sri Lanka (Hellmann-Rajanayagam, 1994, p. 67.

IL MONDO MODERNO COME UN DISASTRO

Una visione negativa, catastrofica del mondo moderno e del progresso si trova piuttosto frequentemente nei movimenti estremisti anche quando la modernità e il progresso arrecano significativi miglioramenti alle condizioni di vita delle persone. La modernizzazione viene spesso identificata con la occidentalizzazione, la crescita puramente materialistica dello stile di vita e la si contrappone alla mitizzazione del passato, alla sua glorificazione (Tema 5). Si proclama la condanna e la distruzione della società attuale che è causa di sofferenza per gli esseri umani. In alcuni casi si afferma la necessità di eliminare la società tecnologica, incompatibile con la natura, con l’ecologia, perché «la rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana” (Kaczynski, 1996, p. 3). Le critiche possono riguardare le nuove forme di sfruttamento e di oppressione nella attuale società o l’intera società occidentale.

IL GOVERNO CIVILE COME ILLEGITTIMO

Disconoscere la legittimità di un governo in carica è una delle prime e più frequenti azioni che un gruppo estremista o terroristico compie. In tal modo il gruppo può dare un senso alla propria esistenza, può sentirsi libero di violare la legge, operare con alcune delle modalità violente e sanguinose descritte nei temi precedenti. Il concetto di legittimità può fare riferimento alla legge naturale e divina, a quella consuetudinaria o a quella positiva. Anche se il primo livello con cui si confronta normalmente la legittimità di un potere è quello della conformità alla legge positiva, cioè l’aspetto legale, si è nel tempo sviluppata la convinzione che esistano dei principi e valori etico giuridico sociali di livello superiore con cui si devono giustificare le norme legali vigenti. Per quanto sopra esposto possono essere di varia natura le motivazioni arrecate per contestare la legittimità di un governo e altrettanto varie le ragioni addotte dai diversi gruppi estremisti per arrogarsi il diritto di parlare ed agire a nome del popolo, di sentirsi interpreti della sua volontà. Gli estremisti possono giudicare i sistemi di governo che essi combattono come oppressivi, intrinsecamente malvagi, responsabili di atti immorali o privi di una qualsiasi validità perché non basati sulle sacre scritture e sulla autorità divina. Sul piano sociologico un aspetto fondamentale è quello del consenso. Dalla rivoluzione francese in poi si tende a giudicare un potere legittimo quando esso è conferito dal popolo con procedure democratiche. Non si esclude che alcuni regimi non abbiano il consenso della popolazione o abbiano raggiunto il potere con metodi violenti, autoritari o non pienamente democratici. In ogni caso la diffidenza verso l’autorità costituita o la franca ricusazione dei governi sono modalità funzionali allo scopo di poter agire spregiudicatamente. Infatti rafforzano la giustificazione, spesso riportata, che si è stati costretti a tali azioni dal sistema politico vigente che non permetteva alternative alla violenza; si evita così la responsabilità e l’eventuale senso di colpa suscitato dalle proprie azioni.

RAGGRUPPAMENTI DELLE ORGANIZZAZIONI TERRORISTICHE

Le varie organizzazioni terroristiche oggi operative possono contenere nella loro ideologia alcune o numerose tematiche precedentemente presentate ma più comunemente vengono classificate dagli studiosi e dai servizi di sicurezza con criteri pragmatici, sulla base della dottrina politica di riferimento, della ispirazione religiosa, o dell’area di interesse o di azione. Le organizzazioni terroristiche attive nella fase attuale sono state raggruppate, su base ideologica, da Ahmed (2020) in sei tipi di gruppi: 1. Nazionalista/Separatista (NS), 2. Ala sinistra (LW), 3. Ala destra (RW), 4. Religiosi, 5. Ambientali e 6. Gruppi misti. In modo estremamente schematico i gruppi nazionalisti/separatisti si caratterizzano per contrapporsi al governo in carica nella ricerca dell’autodeterminazione, dell’autonomia o della separazione del proprio territorio all’interno di un dato paese. I gruppi dell’area di sinistra sostengono ideologie rivoluzionarie estreme, a volte comuniste. I gruppi di destra si contrappongono alle ideologie di sinistra come il comunismo e tendono verso il fascismo. I gruppi religiosi ispirano le loro azioni agli insegnamenti, spesso interpretati in modo estremo, di una data religione tra cui l’Islam, il Cristianesimo, l’Induismo, l’Ebraismo e il Buddismo. I gruppi ambientalisti sono guidati da posizioni radicali a difesa degli animali e del sistema ecologico. I gruppi misti uniscono parte delle ideologie precedenti variamente integrate. L’Unione europea (TE SAT 2022) distingue le ideologie terroristiche nelle seguenti ampie categorie: terrorismo jihadista, terrorismo di estrema destra, terrorismo di estrema sinistra e anarchico, terrorismo separatista ed etnonazionalista e altre forme di terrorismo nella cui categoria sono inserite anche le forme non specificate. In questa categoria aspecifica stanno diventando particolarmente rilevanti i terroristi solitari. Nel programma PIRUS, gestito dall’Università del Maryland, la suddivisione ideologica comprende il terrorismo di estrema destra, islamico, di estrema sinistra e compiuto da attori solitari, presumibilmente in relazione anche alle tipologie più frequentemente riscontrate negli Usa. Uno studio effettuato da Romano et al. (Romano et al., 2019) sulle vittime causate dal terrorismo tra in un periodo di circa 10 anni, il 1998 e il 2007, ha calcolato che il 40% dei gruppi studiati aveva elementi o un carattere nazionalista, il 25% una connotazione islamista. All’interno dei gruppi religiosi la maggioranza (96%) era islamista. Circa 6395 vittime sono state attribuite a gruppi terroristici esclusivamente islamisti, il 3% è stato attribuito alla religione cristiana e l’1% alla religione ebrea. Circa 5.035 vittime sono state attribuite a gruppi a connotazione sia islamista che nazionalista. 1.375 vittime sono state attribuite esclusivamente a gruppi nazionalisti, 1.815 vittime esclusivamente a gruppi comunisti e 530 esclusivamente a gruppi cristiani. Ai gruppi nazionalisti senza elementi islamici sono state attribuite 1.940 vittime. I gruppi islamisti hanno superato di gran lunga tutti i gruppi religiosi laici e non islamici in termini di vittime.

ELEMENTI DI PSICOPATOLOGIA DEL TERRORISMO

Che relazione c’è tra la malattia mentale e le azioni terroristiche? Quale è la percentuale di disturbi mentali presente fra i terroristi? Nella pubblicazione START Research Brief del Marzo 2023 relativa a 3023 profili di individui radicalizzati che hanno operato dal 1948 al 2021 negli Usa e raccolti nel programma PIRUS, la percentuale di soggetti in cui è stata evidenziata una malattia mentale è del 20.7% tra gli appartenenti ad organizzazioni di estrema destra, del 12.9% tra gli appartenenti ad organizzazioni di estrema sinistra, del 18% tra gli appartenenti ad organizzazioni islamiste, del 14.9% tra gli attori solitari. La prevalenza di qualsiasi malattia mentale negli Usa nel 2021 tra i soggetti di età pari o superiore a 18 anni è del 22,8%, superiore nelle donne e inferiore negli uomini. Apparentemente tra i radicalizzati, in cui sono inclusi anche quelli violenti, cioè i terroristi, c’è una percentuale di malattie mentali inferiore alla media. La prevalenza di malattie mentali gravi nel 2021 negli Usa è stata del 5,5%. Non siamo in grado di precisare il tipo e la gravità delle malattie mentali registrate tra i radicalizzati USA. In una revisione della letteratura effettuata da Gill et al. sull’estremismo violento la percentuale di diagnosi confermate è risultata 14.4%, laddove gli studi si basavano interamente, o in qualche forma, sull’accesso privilegiato a dati di polizia o giudiziari, le diagnosi erano presenti nel 16,96% dei soggetti. Laddove gli studi raccoglievano informazioni da fonti aperte (n = 1089 soggetti), le diagnosi riguardavano il 9,82% dei soggetti (Gill et al. 2021). In un’altra revisione della letteratura sono stati rilevati disturbi psichiatrici con un tasso che oscillava dal 6% al 41% tra i radicalizzati e dal 3.4% al 48.5% tra i terroristi (Trimbur et al. 2021). In una delle più recenti revisioni della letteratura (Sarma et al. 2022) sui casi di terrorismo pubblicati in lingua inglese a livello mondiale la percentuale di disturbi mentali diagnosticati risulta del 17,4%. Quando si considera ogni possibile difficoltà di salute mentale sofferta dai terroristi la percentuale del tasso di prevalenza nel corso della vita è del 27,8%. Il confronto con i tassi di prevalenza dei disturbi mentali tra i 16-65 anni a livello globale, elaborati nella meta-analisi di Steel e colleghi (Steel et al. 2014), dove risulta che il 29,2% (IC 95% = 25,9%–32,6%) di persone sperimentano un disturbo mentale ad un certo punto della loro vita, porta alla conclusione che la presenza di disturbi psichici tra i terroristi non è superiore alla prevalenza rilevata nella popolazione generale ma generalmente inferiore.

DISTURBI PSICHICHI?

Di fronte agli attentati terroristici anche gli studiosi hanno inizialmente ipotizzato che tali efferate azioni fossero l’effetto di gravi disturbi psichici. Naturalmente trovare una anomalia psicologica come causa di tali atrocità poteva essere rassicurante in quanto riportava l’origine dell’evento sconvolgente all’interno di una categoria definita di soggetti sottraendola alla angosciosa generale imprevedibilità degli eventi e forniva una “spiegazione” a qualcosa di altrimenti incomprensibile.  In sintesi solo dei pazzi o dei malati mentali potevano arruolarsi tra i terroristi e commettere stragi di persone innocenti in un mercato, un caffè o mettere una bomba su un aereo. Infatti Silke (1998) ha affermato che nei primi anni del 1970 circolava una convinzione abbastanza comune che nelle file dei terroristi si trovasse un alto numero di psicopatici, narcisisti e paranoidi. Sulla base di questa idea per vari decenni alcuni studiosi hanno cercato di individuare un profilo psicopatologico comune alle figure terroristiche e hanno proposto spiegazioni cliniche. Anche Walter Laqueur (citato in Silke, 1998) ribadiva che la pazzia sotto forma di deliri svolge un ruolo importante tra i terroristi. Essi si sentivano minacciati, ritenevano di essere oggetto di persecuzione messa in atto nei loro confronti da parte di potenti forze ostili. Tra le prime teorie sviluppate dagli psicologi per capire come le persone diventavano terroristi, oltre al delirio paranoide, vi era l’ipotesi del narcisismo. Il comportamento narcisistico nel nostro caso potrebbe essere inteso come «sopravvalutazione di sé e svalutazione degli altri» (Borum, 2004, p. 19). Conrad Hassel (1977) era uno degli psichiatri che credeva che questo tipo di malattia spingesse le persone a partecipare ad attività terroristiche.

UN APPROCCIO PSICODINAMICO: IL FATTORE NARCISISMO

Molti tentativi in questa prima serie di studi per comprendere e spiegare il terrorismo in un quadro psicodinamico si sono incentrati sul tratto del narcisismo come fattore determinante. Morf (1970) per primo ha avanzato l’ipotesi di un possibile collegamento tra narcisismo e terrorismo, successivamente seguito da Lasch (1979), Crayton (1983), Haynal et al. (1983), Pearlstein (1991). Secondo questo approccio, che considera il terrorista un malato di mente, quando il narcisismo, nella forma del sé grandioso, non è corretto dalle esperienze di vita, che sottopongono le proprie capacità a continui test di realtà, può favorire lo sviluppo di individui arroganti, privi di riguardo per gli altri, che reagiscono a situazioni di impotenza e sconfitta con rabbia e con il desiderio di distruggere la fonte del potenziale danno. Per Crayton (1983) la rabbia che anima il terrorista si verifica nel contesto del danno narcisistico ed è un tentativo di acquisire o mantenere il potere, il controllo, tramite l’intimidazione mentre gli alti ideali politici a cui il gruppo terrorista si ispira lo proteggono dalla vergogna che i membri del gruppo potrebbero provare per i loro crudeli atti. Secondo Post, un meccanismo psicologico usato frequentemente dagli individui attratti dal terrorismo è la scissione, caratteristico delle persone che hanno subito un danno psicologico di tipo narcisistico durante l’infanzia. Queste persone hanno un concetto di sé danneggiato e non sono riuscite a integrare in sé stesse le parti buone e cattive (Casoni & Brunet, 2002.), che rimangono divise in me e non me. Queste persone hanno bisogno di un nemico esterno da incolpare per le proprie incapacità e debolezze e sono attratte dai gruppi terroristici che si presentano con una prospettiva ideologica noi-contro-loro (Post, 1990). Anche Pearlstein (1991) usa la chiave narcisistica per interpretare il comportamento dei terroristi politici. Egli ritiene che questi soggetti evitino di riconoscere la loro identità negativa di terroristi attraverso una autogiustificazione retorica condivisa e potenziata dal pensiero del gruppo.

IL MECCANISMO DELLA SCISSIONE E LA PSICOPATIA

La maggior parte di queste ipotesi rappresentano tuttavia delle costruzioni speculative, anche molto brillanti, ma con modesti o nulli supporti empirici Una ulteriore categoria associata al terrorismo è la psicopatia. Pearce (1977), ad esempio, considerava il terrorista come uno psicopatico aggressivo, che ha sposato alcune cause particolari perché le cause estremiste possono fornire un punto focale esterno su cui proiettare la responsabilità di tutte le cose che sono andate storte nella sua vita. Martens (2004) pur riconoscendo che non tutti i terroristi sono psicopatici né hanno un Disturbo Antisociale di Personalità (ASPD) sostiene che i terroristi (Hudson, 1999) e le persone con ASPD (Martens, 1997, 2000) condividono molte caratteristiche tra le quali troviamo alienazione sociale, processi di socializzazione precocemente disturbati, aggressività, orientamento all’azione, fame di stimoli, atteggiamento narcisistico, impulsività e ostilità, sofferenza di un precoce danno alla loro autostima, atteggiamento difensivo, difese primitive come vergogna, paura della dipendenza, questioni edipiche irrisolte, intolleranza alle critiche, arroganza e disprezzo, convinzione di superiorità del proprio sistema di credenze, indifferenza verso i sistemi di credenze delle altre persone, ostilità, mancanza di autocritica, giustificazione del loro comportamento violento, sofferenza per un trauma profondo, disimpegno morale per disumanizzazione delle vittime. Martens (2004) ritiene tuttavia che i terroristi con ASPD dovrebbero essere considerati un gruppo distinto all’interno del gruppo complessivo dei terroristi in quanto non sviluppano autentiche connessioni sociali e solitamente non rischiano di sacrificarsi, in particolare di immolare la vita per una causa (Martens, 2004).

ALIENAZIONE DALLA SOCIETÀ E MALATTIA MENTALE

Tra i terroristi politici effettivamente sono stati trovati casi di malati di mente, alcuni hanno mostrato chiari segni di psicopatia. Klaus Jünschke, un malato mentale, era uno dei membri del Socialist Patients’ Collective (SPK), un gruppo terroristico tedesco che lavorava con la Banda Baader-Meinhof. Le problematiche psicopatologiche sono state riscontrate più frequentemente tra gli anarchici della RAF che soffrivano di ansia acuta, aggressività e un desiderio masochista di essere perseguiti, secondo Gunther Wagenlehner (1978:201), che riteneva le motivazioni a compiere azioni terroristiche appartenere più all’area dei disturbi psichici che a quella politica. La precedente valutazione è condivisa dal sociologo J. Bowyer Bell (1985) per il quale “gli anarchici europei, a differenza di altri terroristi, appartengono più alla «sfera di interesse degli psicologi che degli analisti politici…» Tuttavia lo psichiatra W. Rasch (1979), che ha intervistato un certo numero di terroristi della Germania occidentale, ridimensiona quanto precedentemente sostenuto, affermando che «non è stata trovata alcuna prova conclusiva per l’ipotesi che un numero significativo di loro sia disturbato o anormale» e ritenendo che attribuire il terrorismo a un comportamento patologico rischia di minimizzare le altre questioni politiche o sociali alla base delle azioni terroristiche. Anche lo psicologo Ken Heskin (1984), che ha studiato le caratteristiche psicologiche del terrorismo in Irlanda del Nord, nota che «In realtà, non ci sono evidenze psicologiche perché i terroristi possano essere diagnosticati psicopatici o altrimenti clinicamente disturbati» e che anche l’estrema alienazione dalla società osservata nei membri dell’IRA non significa necessariamente malattia mentale. Secondo Crenshaw (1981) vi sono prove considerevoli che i terroristi internazionali siano generalmente abbastanza sani di mente e dai suoi studi trae la seguente conclusione «l’eccezionale comune caratteristica dei terroristi è la loro normalità».

L’ECCEZIONALE NORMALITÀ DEI TERRORISTI

Questa visione è condivisa da un certo numero di psicologi tra cui C.R. McCauley e M.E. Segal (1987) che al termine di una revisione della psicologia sociale dei gruppi terroristici concludono «la generalizzazione meglio documentata è negativa; i terroristi non mostrano alcuna psicopatologia sorprendente». Anche Silke (1998), dopo una sua revisione della letteratura si esprime con simili conclusioni: «La critica rileva che i risultati a sostegno del modello di patologia sono rari e generalmente di scarsa qualità. Al contrario, le prove che suggeriscono la normalità del terrorismo sono sia più abbondanti che di qualità migliore». In linea con gli studi precedentemente riportati Borum (2004) ritiene la ricerca sul rapporto tra psicopatologia e terrorismo quasi unanimemente giunta alla conclusione che la malattia mentale e l’anormalità non sono in genere fattori caratteristici cruciali del comportamento terroristico. Secondo Ruby (2002), che ha compiuto una revisione degli studi fino ad allora pubblicati, i terroristi non hanno una percentuale di individui psicologicamente disfunzionali o patologici superiore alla popolazione generale. Anche in una rassegna recente della letteratura Piccinni rileva che non esistono prove che il comportamento terroristico possa essere causato da disturbi psichiatrici o psicopatie precedenti o attuali. L’ipotesi che il terrorismo fosse collegato in modo causale ad una alterazione mentale è stata ad un certo momento abbandonata (Silke, 1998) e ci si è concentrati di più sull’influenza esercitata dall’ambiente sociale, dalle comunità di appartenenza o da componenti di esse, sui fattori di attrazione esterni all’individuo. Negli ultimi anni sono riemerse le tematiche legate al rapporto malattia mentale e terrorismo anche se in forme più sfumate e legate a particolari forme di terrorismo, specificamente agli autori solitari di azioni terroristiche.

AUTORI SOLITARI: UNA TIPOLOGIA DISTINTA DALLE ALTRE

In un campione di questi ultimi Corner e Gill (Corner & Gill, 2015) hanno calcolato un tasso di disturbi mentali del 31,9% paragonati al 3,4% dei terroristi di gruppo, una probabilità 13,49 volte più elevata.  In un altro studio (Gruenewald et al. 2013) che confrontava gli attentatori solitari con quelli di gruppo la percentuale di disturbi mentali nei primi ammontava al 40.4% rispetto al 7.6% degli altri. Il 37% di un campione di terroristi solitari europei mostrava «qualche indicazione di malattia mentale» e il 25% presentava la diagnosi clinica di «un particolare disturbo mentale» (Liem et al. 2018). In una ricerca volta a stabilire la frequenza di base dei fattori di rischio nella popolazione generale e nei terroristi solitari la prevalenza una tantum nel corso della vita di qualsiasi disturbo mentale nei 125 terroristi è risultata del 26,2% molto vicina alla proporzione rilevata nella popolazione generale 25,0%, secondo gli autori. (Clemmow et al. 2020). In uno studio retrospettivo che confrontava i terroristi europei solitari e i comuni omicidi Liem et al. (Liem et al. 2018) hanno rilevato che rispetto agli omicidi, i terroristi solitari avevano maggiori probabilità di attaccare estranei (attori solitari 80% contro autori di omicidi 10%). Complessivamente sembrerebbe che gli autori solitari siano un gruppo di terroristi distinto dagli altri per quanto riguarda la psicopatologia e che non si possa associare l’esistenza di un solo tipo di profilo psicopatologico al terrorismo (Bhui et al. 2016). Mehrari (Merari et al., 2009) ha riscontrato nella maggior parte dei terroristi suicidi uno stile di personalità dipendente ed evitante, un profilo che li rendeva più suscettibili al gruppo, al leader e all’influenza pubblica e un livello di forza dell’ego significativamente inferiore rispetto agli organizzatori degli attacchi. Altri aspiranti suicidi mostravano uno stile impulsivo e risultavano emotivamente instabili. L’ipotesi del disturbo mentale come causa del comportamento terroristico non è supportata da un tasso inferiore nella popolazione generale perché in tal caso avremmo dovuto osservare tassi di disturbi psichici molto superiori nel campione dei terroristi. Alcuni autori considerano anche un potenziale effetto protettivo dei problemi di salute mentale contro il coinvolgimento nel terrorismo a causa della selezione operata dalle organizzazioni terroristiche per aggregare reclute affidabili, esenti dai rischi legati alla fragilità, alla instabilità psichica (King et al. 2018). Tuttavia alcune organizzazioni della supremazia bianca sono meno attente o forse anche aperte al reclutamento di persone con problemi di salute mentale (Bubolz & Simi, 2019).

EMOTIVAMENTE INSTABILI: EROS E THANATOS

Parallelamente alla ricerca di uno o più quadri psicopatologici che potessero caratterizzare i terroristi, gli esperti si sono concentrati sullo studio delle caratteristiche individuali del terrorista nel tentativo di identificare un profilo psicologico tipico, una personalità specifica degli autori di tali atti. Anche in questo caso i primi studi in tal senso sono stati compiuti da studiosi, spesso ad orientamento psicanalitico, che hanno ricercato e individuato l’origine del comportamento terroristico nello sviluppo personale all’interno dei rapporti familiari. Secondo Freud, in tutti gli uomini accanto alla pulsione di vita o Eros è presente la pulsione di morte o Thanatos rappresentata da tendenze distruttive o autodistruttive talvolta così forti da determinare il comportamento umano (S. Freud Al di là del principio del piacere. 1920). Lo psicostorico Lloyd De Mause (2002) osserva che “Le radici del terrorismo non stanno in questo o quell’errore di politica estera americana, ma nelle famiglie estremamente violente dei terroristi” (deMause, 2002). La psicologa politica Jeanne N. Knutson (1981), seguendo la teoria di Erikson sulla formazione dell’identità, suggerisce che il terrorista politico assume consapevolmente un’identità negativa. L’identità negativa origina dall’angosciosa percezione di sé stessi come inadeguati rispetto al mondo. Da tale spiacevole sentimento ci si difende proiettando sugli altri il proprio sentimento di inferiorità. Ciò implica un rifiuto vendicativo del ruolo considerato desiderabile e appropriato dalla famiglia e dalla comunità di un individuo. Secondo Knutson, i terroristi si dedicano al terrorismo a causa di sentimenti di rabbia e impotenza per la mancanza di alternative (Knutson, 1981). Anche secondo lo psicologo Risto Fried, il terrorista è una persona che cerca di risolvere i suoi problemi personali proiettandoli fuori di sé, con un meccanismo difensivo che gli impedisce di prendere consapevolezza della loro origine. Solitamente si tratta di una persona incapace di gustare la vita e di formare delle relazioni interpersonali significative. Il suo mondo interpersonale è popolato da tre categorie di persone: gli eroi idealizzati; i suoi nemici; e le persone che si incontrano nella vita di tutti i giorni, che il terrorista considera figure ombra, non del tutto vive, sacrificabili (Fried, 1982).

GLI EROI E LE FIGURE OMBRA

Lo psichiatra psicanalista americano Frederick Hacker, concentrandosi sulla diversità nelle motivazioni, ha proposto una delle prime tipologie psicologiche dividendo i terroristi in tre categorie: i crociati, i criminali o i pazzi (Hacker, 1976). Nello schema di pensiero di Hacker, il criminale, che è autoprotettivo ed egoista, è influenzato principalmente dal guadagno in denaro o dalla vendetta; il pazzo, che è egoista e non autoprotettivo, è un drogato del brivido e si basa sulle eccitanti prospettive di uno stile di vita terroristico; il crociato, che è un altruista e non è autoprotettivo, si unisce al gruppo di terroristi perché condivide la stessa ideologia. Naturalmente queste tre categorie non si escludono a vicenda e un gruppo terroristico può contenere tutti e tre questi tipi di personalità. Il libro di Hacker del 1976 che si intitola appunto “Crusaders, Criminals and Crazies” ha rappresentato forse la prima grande pubblicazione a carattere popolare sulla psicologia del terrorismo. L’ex psichiatra della Central Intelligence Agency (CIA), Jerrold Post (Post, 1984), esaminando i dati raccolti in ricerche precedenti effettuate in Germania sulla RAF, in Italia sulle Brigate Rosse, sull’ETA basca, eccetera, ha proposto un modello per classificare le tipologie terroristiche in base al rapporto di fedeltà o infedeltà dei terroristi verso i genitori e di questi ultimi verso l’autorità statale. Il primo tipo era l’ideologo anarchico, come le Brigate Rosse italiane e la RAF tedesca (alias la Banda Baader-Meinhof), in cui i genitori erano sostenitori delle istituzioni mentre i figli erano contrari.

FIGLI CONTRO PADRI

La ideologia estremista dei figli rappresenta uno spostamento della loro ribellione e ostilità dai genitori verso l’Autorità statale. I terroristi in questo caso hanno agito con ostilità ribellandosi allo «Stato» in cui vedevano rappresentati i loro genitori. Al contrario, il secondo tipo, il nazionalista-secessionista, come l’ETA, o l’IRA, non era ostile, ma fedele ai suoi genitori, che erano a loro volta contrari al regime politico del momento e il suo estremismo era motivato dal vendicarsi o vendicare i torti fatti ai suoi genitori da parte dello Stato. Post (1990) distingue nel modo seguente le due situazioni: per alcuni, divenire terroristi è un atto di ritorsione per i danni reali e immaginari dei loro genitori contro la società; per altri, è un atto di ritorsione contro la società per il male fatto ai loro genitori. Tuttavia dopo avere individuato ed esaminato alcune tipologie psicologiche di terroristi Post avverte che c’è un ampio spettro di gruppi e organizzazioni terroristiche, ognuno dei quali ha una psicologia, una motivazione e struttura decisionale differenti.   Le precedenti conclusioni di Post, come anche le varie tipologie dei gruppi terroristici emerse nelle pubblicazioni prodotte dalla prima serie di studi sembrano supportare l’idea di Laqueur che non esiste un fenomeno terrorismo unico, ma “molti terrorismi che differiscono grandemente nel tempo, nello spazio, nelle motivazioni, nelle manifestazioni e negli scopi” all’interno dei quali presumibilmente si trovano attori con storie, esperienze, motivazioni, strutture cognitive molto diverse non distinguibili da quelle distribuite statisticamente nella popolazione normale (Lacquer, 2007). Non sorprende pertanto che Taylor e Quayle (Taylor and Quayle, 1994) dopo avere affermato che «in termini psicologici, non ci sono qualità speciali che caratterizzano il terrorista» concludano che «il terrorista attivo non è discernibilmente diverso in termini psicologici dal non terrorista». La ricerca in campo psicologico come in altre discipline non ha evidenziato qualità uniche dei soggetti coinvolti nel terrorismo o impegnati in questa violenta carriera. Come già osservato, coloro che compiono azioni terroristiche possono essere uomini, donne e anche bambini e vi si dedicano in modi diversi, attraverso percorsi molteplici (Horgan, 2017). Quindi i tentativi di trovare un profilo psicologico significativo, dotato di una validità predittiva, che caratterizzi la “personalità terroristica” non ha prodotto risultati apprezzabili. La ricerca precedente supporta piuttosto la proposizione generale che non esiste nessun singolo percorso o teoria capace di spiegare in modo soddisfacente come tutte, o anche la maggior parte, delle persone abbraccino ideologie estremiste violente o si impegnino in azioni violente (Borum, 2004).

LE INELUDIBILI CARATTERISTICHE DELLA SITUAZIONE

Questi concordanti risultati probabilmente non sorprendono molto se si tiene conto che i tratti della personalità da soli erano stati considerati da decenni scarsamente predittivi del comportamento umano se non si considerano anche le caratteristiche della situazione (Mischel, 1968). I ricercatori dell’area psicologica hanno capito che è improbabile trovare una comprensione del fenomeno della radicalizzazione violenta sulla base dei tratti di personalità, cioè di caratteristiche statiche, ma che è molto più promettente considerare il terrorismo come un processo in cui entrano in gioco molti fattori, interni o esterni all’individuo, tra loro interagenti in modo complesso e dinamico. Per comprendere in modo più realistico e funzionale quali meccanismi e processi psicologici intervengono e come agiscono nel coinvolgimento di un individuo con l’estremismo violento è opportuno considerarli presenti in misura maggiore o minore lungo un continuum, con un approccio dimensionale, piuttosto che fare una distinzione categoriale, cioè limitarsi a osservare la presenza o l’assenza di ciò che si suppone sia  caratteristico della struttura cognitiva, emotiva, comportamentale e sociale di un terrorista. Nell’esame delle caratteristiche psicologiche che si associano al percorso verso il terrorismo prima saranno esplorate le propensioni individuali che aumentano il rischio, la probabilità di un coinvolgimento nell’azione violenta rispetto ai percorsi alternativi. Queste propensioni individuali o mentalità da sole di solito non sono sufficienti a determinare l’azione terroristica ma possono causarla in modo non sempre prevedibile nella interazione con il contesto sociale, culturale e politico in cui vive il potenziale terrorista. Le mentalità o visioni del mondo che Borum (2014) denomina «vulnerabilità» e che sono state frequentemente associate ai comportamenti violenti sono: l’autoritarismo, il dogmatismo, il fondamentalismo, l’apocalitticismo. Queste mentalità rappresentano un costrutto intermedio tra un atteggiamento psicologico e uno ideologico capace comunque di influenzare e spiegare il comportamento terrorista. Secondo Borum (Borum, 2014) una personalità autoritaria (autoritarismo), uno stile di pensiero dogmatico (dogmatismo), una mentalità fondamentalista (fondamentalismo), una visione del mondo apocalittica (pensiero apocalittico), possono rendere gli individui più recettivi alla ideologia estremista e inclini alla giustificazione e al supporto delle azioni terroristiche.

AUTORITARISMO

Con lo scopo di studiare le basi psicologiche del nazifascismo, dell’antisemitismo, alcuni ricercatori coordinati da Adorno (1950) hanno individuato una struttura della personalità incline ad atteggiamenti autoritari. L’antisemitismo, inizialmente esplorato, sembrava inserito in un più ampio schema di pensiero caratterizzato da etnocentrismo, da un atteggiamento sfavorevole verso i gruppi diversi dal proprio e verso le minoranze, da un nazionalismo esasperato, da un conservatorismo economico e politico. La costellazione di queste caratteristiche fu indicata come personalità autoritaria. La personalità autoritaria è caratterizzata da nove tratti (Adorno et al. 1950):

  1. adesione rigida alle idee convenzionali e borghesi (una persona che ha cattive maniere, abitudini ed educazione difficilmente può aspettarsi di andare d’accordo con il decoro e le persone decenti);
  2. rispetto e sottomissione acritica all’autorità (obbedienza e rispetto dell’autorità sono le virtù più importanti che i bambini dovrebbero imparare);
  3. aggressione autoritaria (tendenza a condannare, rifiutare, punire chi viola i valori convenzionali. Gli omosessuali non sono certo migliori dei criminali e dovrebbero essere severamente puniti);
  4. anti-intraception (avversione verso la vita soggettiva, interiore, le azioni gentili, le condotte filantropiche e benevole. Oggi sempre più persone sono indiscrete su questioni che dovrebbero rimanere personali e private);
  5. condotta superstiziosa e stereotipa (credenza in entità mistiche capaci di determinare il destino umano. Un giorno probabilmente verrà dimostrato che l’astrologia può spiegare molte cose);
  6. predilezione per le posizioni di inflessibilità, di forza (identificazione con i potenti. (Le persone possono essere divise in due classi distinte, i deboli e i forti);
  7. mania di distruzione e cinismo (Ostilità generalizzata. La natura umana è quella che è, ci sarà sempre guerra e conflitto);
  8. tendenza alla proiezione (Tendenza a individuare nel mondo esterno pericoli e malvagità. La maggior parte delle persone non si rende conto di quanto le nostre vite siano controllate da trame ordite in luoghi segreti);
  9. esagerata attenzione agli eventi sessuali nella società. (La vita sessuale selvaggia degli antichi greci e romani era disciplinata rispetto ad alcuni degli “avvenimenti” in corso in queste regioni anche in posti dove le persone meno potrebbero aspettarselo).

LA STRUTTURA A NOVE COMPONENTI

Tuttavia la struttura a nove componenti non ha retto alle verifiche empiriche ed ha suscitato critiche metodologiche e nella formulazione (Duckitt, 2015). Tra le critiche mosse si sottolineava come la teoria e i concetti usati sembravano capaci di spiegare solo l’autoritarismo di destra mentre ignoravano quello di sinistra. Allport nel “The Nature of Prejudice”, (Allport, 1954), contrariamente ad Adorno, non attribuì questi tratti al risultato di un conflitto interno di tipo psicodinamico ma alla insicurezza personale, «a una debolezza dell’io». Altmeyer (1981, 1996) nel tentativo di riconcettualizzare il costrutto dell’autoritarismo, che considerava troppo ampio per riferirsi ad una dimensione unitaria, nelle sue ricerche ha evidenziato tre cluster attitudinali dell’autoritarismo correlati tra loro: convenzionalismo, sottomissione autoritaria e aggressione autoritaria, espressi in una scala dalle eccellenti qualità psicometriche, la RWA (Scala dell’autoritarismo di destra). In ogni caso poiché gli item della scala RWA e di altre costruite successivamente per misurare la personalità autoritaria sembrano riflettere più convinzioni persistenti e atteggiamenti ideologici che non inclinazioni comportamentali, riferibili alla personalità, le nuove teorie collocano l’autoritarismo più tra gli atteggiamenti sociali e nella dimensione dei valori che nei tratti di personalità. Anche Jost et al. (Jost et al., 2003) ritengono che la ricerca tradizionale sull’autoritarismo o sul conservatorismo abbia confuso le caratteristiche della personalità con i criteri delle ideologie politiche (es. gli atteggiamenti conservatori). In effetti la scala RWA risulta fortemente influenzata da fattori situazionali. In base alle ultime ricerche si propone di concettualizzare l’autoritarismo come un desiderio moralmente assolutista e intollerante di imporre coercitivamente particolari credenze, valori, stili di vita e forme di organizzazione sociale agli individui indipendentemente dai loro desideri e dai costi umani (Duckitt, 2020). Sembrerebbe che l’autoritarismo possa riguardare sia la sinistra che la destra ideologiche le quali sono entrambe sensibili alle minacce ma di diversa natura. La destra appare rispondere maggiormente alle minacce alla sicurezza personale e collettiva mentre la sinistra alla necessità di cambiamenti sociali. La propensione al terrorismo può essere spiegata con un atteggiamento dei potenziali terroristi di sottomissione verso i loro leader che a loro volta offrono protezione e guida di fronte all’incertezza, alle minacce alla sicurezza o all’attacco verso il proprio gruppo o la propria cultura.

DOGMATISMO

Un altro aspetto, legato all’autoritarismo, che può influenzare la visione del mondo della persona, favorire la propensione ad adottare ideologie estremiste o a impegnarsi in azioni estremiste, è il dogmatismo. Il dogmatismo è stato sviluppato da Rokeach (Rokeach, 1954) che intendeva formalizzare il concetto di autoritarismo in una scala psicometrica con lo scopo di liberarlo da alcune unilateralità che avevano accompagnato la personalità autoritaria di Adorno. Consiste in un sistema di opinioni, di convinzioni, chiuso, rigido, poco flessibile, difficilmente modificabile, con cui il soggetto elabora, interpreta la realtà esterna. Il dogmatismo può riguardare vari ambiti da quello politico a quello religioso, perfino quello accademico e scientifico. Nella sfera politica si possono osservare espressioni di conservatorismo dogmatico e liberalismo dogmatico, marxismo dogmatico. Anche nella psicologia, è possibile osservare espressioni di freudianesimo dogmatico e anti-freudianesimo dogmatico, una teoria dogmatica dell’apprendimento e una teoria dogmatica dell’antiapprendimento e così via. Il costrutto “dogmatismo” si basa sulla convergenza di tre insiemi di variabili altamente interconnessi: sistema cognitivo chiuso, autoritarismo e intolleranza. Si tratta di idee e rappresentazioni della realtà organizzate in un sistema chiuso, “totale” e totalitario, fortemente interconnesso, resistente al cambiamento per l’alto grado di interdipendenza tra le parti all’interno del sistema. Da queste considerazioni segue anche che ogni dato cambiamento nella parte periferica della ideologia dogmatica rappresenta un cambiamento isolato nel contenuto cognitivo senza cambiamenti concomitanti né nella struttura cognitiva né nel contenuto ideologico generale. Questo sistema di convinzioni è difeso da tutto ciò che ne minaccia la validità attraverso l’evitamento del contatto con stimoli sociali e culturali, libri, eventi, persone che lo metterebbero in dubbio o con il restringimento delle attività che lo potrebbero indebolire. Le persone con un alto grado di dogmatismo si caratterizzano per essere fortemente e irragionevolmente attaccate alle proprie idee, ostili verso coloro che hanno opinioni e principi diversi dai propri, incapaci di elaborare informazioni che disconfermano la loro visione (Jost et al.,2003).

AUTORITARISMO E FASCISMO

L’equiparazione più o meno grossolana dell’autoritarismo con il fascismo, ha comportato che l’intolleranza è stata identificata con un aspetto dell’intolleranza, cioè l’intolleranza etnica. In realtà intolleranza, discriminazione, fanatismo, distanza sociale, pregiudizio, etc. sono tutti concetti definiti operativamente in modo molto simile. Dal momento che l’autoritarismo è rilevabile anche tra i radicali, i liberali ed in aree come la scienza, l’arte, la letteratura e la filosofia, dove il fascismo e l’etnocentrismo non sono necessariamente le questioni principali la scala del dogmatismo, costruita da Rokeach, rappresenta il primo tentativo di misurare l’autoritarismo nella sua forma pura, in tutte le persone e gli orientamenti ideologici. Gli estremisti militanti sono insolitamente dogmatici, affermando le loro convinzioni ostinatamente e con forza eccessiva. Secondo Hoffer (Hoffer, 1951), che trovava manifestazioni di fanatismo non solo tra i nazisti ma anche tra i bolscevichi, gli anarchici e altri, le convinzioni dogmatiche devono essere inviolabili e non discutibili. Esse rappresentano una difesa quando non si riesce a tollerare la frustrazione legata all’incertezza” (Marsella, 2003), offrono uno scopo, un significato e una identità che agevolano l’adattamento e mobilitano energie per una causa considerata sacra.

FONDAMENTALISMO

Il fondamentalismo è un movimento religioso, politico, culturale e sociale che ha interessato tutte le religioni ad iniziare da quella cristiana dove la denominazione ha avuto origine oltre cento anni fa negli Stati Uniti. L’aderenza ai fondamenti di una religione diventa fondamentalismo quando l’adesione ad essi diventa rigida, intransigente, letterale. Il fondamentalismo, inteso come rigida adesione ai principi fondamentali, esiste nei movimenti politici, nelle istituzioni di vario genere ed è possibile riconoscerlo anche nelle controversie scientifiche e professionali. Il concetto di mentalità fondamentalista indica un atteggiamento psicologico che si basa su un insieme di presupposti individuali e di gruppo ostili, contrari al cambiamento e capaci di influenzare prepotentemente scelte e comportamenti. La condivisione del pensiero (Janis, 1982) nel gruppo di appartenenza che condivide una certa visione del mondo, una “Weltanschauung” comune, rinforza ulteriormente questo atteggiamento. Gli individui fondamentalisti hanno una sorta di inerzia mentale, cambiano idea lentamente, con molta difficoltà, perché le loro convinzioni sono spesso legate alle identità stesse dei soggetti inseriti in una comunità che li sostiene. La mentalità fondamentalista è caratterizzata da pensiero dualistico, paranoia e rabbia, orientamento apocalittico che implica una visione distinta su tempo, morte e violenza. Di regola c’è la dipendenza da un leader carismatico e spesso è accompagnata dall’idea che è necessaria una conversione completa, totalizzante. (Strozier et al., 2010). La psicanalisi (Varvin, 2017) offre un prezioso contributo interpretativo al fenomeno del fondamentalismo evidenziando le primitive forze mentali in campo, inconsce o preconsce, a livello individuale e di gruppo, i vari meccanismi di difesa usati, le fantasie individuali o condivise più o meno ampiamente in un gruppo o in una comunità, l’organizzazione di queste forze e fantasie all’interno di una ideologia. Fantasie comuni legate alla separazione e individuazione, alla rivalità fraterna, che in circostanze normali vengono più o meno elaborate e superate, qui sono amplificate e diventano parte preconscia o inconscia della mentalità collettiva o di gruppo. Nel caso della rivalità tra fratelli abbiamo tematiche di ingiustizia, di trattamento discriminatorio del tipo «l’altro è stato trattato meglio di me», o addirittura «l’altro ha ingannato, ha imbrogliato per ottenere dei vantaggi».

PROIEZIONI DELLE FRUSTRAZIONI PERSONALI

La frustrazione personale vissuta a livello familiare viene proiettata su alcune categorie esterne, ad esempio gli infedeli, gli stranieri, eccetera, individuate come responsabili. Anche la memoria collettiva di traumi passati sofferti da gruppi o nazioni può stimolare fantasie di vendetta o di risarcimento violente o distruttive per le ingiustizie subite. Le ideologie religiose, politiche e culturali fondamentaliste possono raccogliere, organizzare ma anche ispirare queste fantasie individuali e collettive offrendo un contenitore ed una direzione a queste frustrazioni, uno scenario operativo, a queste forze primitive e non strutturate, identificando un colpevole, un nemico su cui dirigere la propria rabbia e violenza, dopo averlo disumanizzato e individuato come capro espiatorio con meccanismi primitivi quali scissioni e proiezioni il cui scopo è liberarsi degli aspetti indesiderati di sé, per proiettarli su altri, all’esterno, sbarazzandosi del senso di colpa. L’uccisione della vittima designata, che incarna, testimonia, la colpa primitiva può paradossalmente rappresentare una via di fuga dal rimorso che può essere così rimosso con l’eliminazione della vittima. La retorica ideologica e politica del movimento fondamentalista offre il terreno socioculturale su cui fondare e sviluppare una identità personale poco strutturata, organizza il modo di pensare del gruppo e lo spazio mentale interiore dell’individuo fornendo una motivazione all’azione, inoltre influenza i processi inconsci a livello di gruppo, strutturando scenari relazionali e strategie a lungo termine. Quando questi temi fantasticati si organizzano in una ideologia politico religiosa osserviamo la trasformazione di problematiche di sviluppo personale in movimenti politico sociali con potenziali sbocchi violenti.

PENSIERO APOCALITTICO

Un’altra rilevante tematica spesso presente nella visione del mondo fondamentalista è la visione apocalittica (Strozier e Boyd, 2010). Secondo Riedl (2014) concezioni o visioni apocalittiche hanno ispirato molti eventi terroristici sia interni che esterni agli USA tra i quali la strage della setta Davidian a Waco (Texas) nel 1993, l’attentato ad un edificio governativo a Oklahoma city nel 1995. Tra i movimenti eversivi esterni Riedl include il giapponese Aum Shinrikyō che ha compiuto un attentato nella metropolitana di Tokyo con gas Sarin. Il guru del movimento Shōkō Asahara rivendicava di avere ricevuto l’ispirazione divina di decodificare il libro della rivelazione (apocalisse) e di dare inizio al processo di salvezza per il quale si era assegnato il compito di innescare l’Armageddon attraverso l’attentato. Anche nell’ISIS è presente una ideologia apocalittica (McCants, 2014) che si localizza in un sito specifico della Siria, Dabiq, vicino al confine turco, dove, secondo una profezia attribuita a Maometto, si dovrebbe svolgere la battaglia finale tra i musulmani e gli infedeli cristiani per la conquista di Costantinopoli. Da notare che Dabiq è il nome di una rivista di propaganda che l’ISIS pubblicava mensilmente. Nella subcultura globale della violenza apocalittica i terroristi tendono a vedere le loro azioni inserite in uno scenario universale, cosmico (Juergensmeyer, 2003) di guerra tra il bene e il male piuttosto che come specifici, singoli, atti conferendo a tali gesti (Ryan, 2014) un significato ideologico e strategico molto più elevato, quasi trascendente. Il genere apocalittico origina nell’ambito della letteratura religiosa, dal libro dei morti egiziano, al libro di Daniele, ai primi scritti zoroastriani fino alla Apocalisse di San Giovanni (Strozier, 2017), ma il complesso di idee ad esso legate ha permeato la cultura nel corso della storia e ispirato altre discipline letterarie, filosofiche, politiche, ambientali etc. Il termine apocalittico è ormai entrato nell’uso comune e nella sua formulazione più popolare e generica sta ad indicare una aspettativa nel prossimo futuro di una catastrofe, di un cambiamento epocale la cui rivelazione (appunto apocalisse) può essere riservata a pochi eletti (Berlet, 2004).

NARRAZIONI APOCALITTICHE

Nelle narrazioni apocalittiche la violenza e la distruzione occupano una gran parte della descrizione ma non sono compiute dall’uomo, sono opera di forze sovrumane, di un intervento divino in cui gli ebrei e i cristiani apocalittici riponevano la loro fiducia per ottenere la liberazione dalle sofferenze attuali e la ricompensa per i credenti. L’azione umana violenta entra gradualmente nella visione apocalittica facilitata, secondo vari autori, dall’opera di Gioacchino da Fiore che preconizza l’avvento della terza era, quella dello Spirito, a cui molti seguaci del monaco cercano di prepararsi organizzando delle comunità come avanguardie di una futura perfezione mondana ma nessuno di questi gruppi, nonostante le persecuzioni, ha mai fatto appello alla violenza. Dopo la rivolta ussita dei Taboriti intorno al 1420 è con l’incitamento all’omicidio di massa contenuto nel “Discorso ai principi” del riformatore radicale Thomas Müntzer (morto nel 1525) che si prefigura la formulazione di una concezione apocalittica rivoluzionaria. Per una propensione alla violenza e al terrore, la fede apocalittica deve subire delle trasformazioni. Si deve sottrarre al dominio soprannaturale e calare nella immanenza, si deve combinare con l’idea che l’agire umano può plasmare il corso della storia, deve aderire alla moderna convinzione che l’esito degli eventi dipende dalla scelta e dalla azione individuale più che dalla volontà divina. La compenetrazione tra religione e politica è avvenuta secondo Gentile che la attribuisce a Voegelin (Gentile, 2006) in modo particolare con i movimenti politici totalitaristi del XX secolo, nelle c.d. religioni politiche (comunismo, fascismo, nazionalsocialismo), in cui si osserva una rivolta contro i limiti creaturali dell’essere umano e lo sviluppo di un umanesimo prometeico. In questi movimenti totalitaristi si opera la sostituzione della realtà con una falsa immagine della realtà, la trasfigurazione ideologica di essa, che tuttavia viene proclamata autentica grazie ad una vera distorsione della coscienza la c.d. pneumopatologia. Quando questa realtà distorta prende il sopravvento può alimentare una fede metastatica e un immaginario apocalittico dotati di grande forza propulsiva a carattere distruttivo.

MOVIMENTI ANTI-POLITICI

In questi movimenti politici, secondo Cohn (Cohn,1993), la fantasia apocalittica ha assunto alcune caratteristiche che la contraddistinguono dalle precedenti visioni più tipicamente trascendenti. Si tratta di una salvezza

1) collettiva, in quanto riguarda i fedeli come gruppo, non separatamente;

2) terrestre, nella misura in cui deve essere realizzata su questa terra e non in un luogo ultraterreno;

3) imminente, nel senso che avverrà presto e improvvisamente;

4) totale, poiché trasformerà radicalmente la vita sulla terra, non sarà un semplice miglioramento del presente ma la perfezione stessa. (Cohn, 1962).

A questo punto della trattazione è opportuno ribadire che un certo tratto di personalità, una particolare mentalità, una certa visione del mondo, un atteggiamento ideologico o sociale non sono sufficienti da soli a determinare le azioni terroristiche ma sicuramente rappresentano un fattore di personale recettività, di disponibilità verso l’affiliazione a gruppi terroristici violenti. Possono, pertanto, sia esprimere una caratteristica individuale già presente che rafforzarsi ulteriormente nella interazione con aree dell’estremismo affini alle proprie caratteristiche.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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