Le parole pronunciate dal principe saudita Faisal bin Farhan, ministro degli esteri del Regno saudita, farebbero inequivocabilmente pensare a un appeasement di Riyadh nei confronti dello Stato ebraico.
Egli, infatti, nel corso di un suo intervento dagli schermi dell’emittente televisiva americana CNN ha affermato che: «La normalizzazione con lo Stato ebraico comporterebbe enormi benefici alla regione, ma un accordo del genere con il Regno dipenderà dai progressi nel processo di pace israelo-palestinese».
L’appeasement del principe saudita
Una dichiarazione pubblica importante che nella scia dei recenti Accordi di Abramo, sulla base dei quali quattro Paesi islamici (Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan) hanno ufficialmente normalizzato le loro relazioni con lo Stato ebraico.
Per Riyadh è giunto il momento delle decisioni, seppure esse vadano accompagnate e condite con la fermezza, almeno sul piano formale, riguardo a principi irrevocabili quali il sostegno arabo alla causa palestinese, che permane un elemento dirimente in ogni trattativa di pace con Israele.
E infatti, giovedì scorso Faisal bin Farhan, non ha potuto girarci intorno, ponendola quale condizione per una futura apertura nei confronti dello Stato ebraico. Tuttavia, ha utilizzato una parola ben precisa, l’avverbio «molto», che ha preceduto il termine «dipendente», come a significare che Israele non possa prescindere dall’avviare una nuova fase nei propri rapporti con i palestinesi nell’ambito del claudicante processo di pace in atto con una parte di questi ultimi.
Nuove prospettive in Medio Oriente
«Un tale processo può avere successo solo se affronteremo la questione palestinese e saremo in grado di fornire loro uno Stato entro i confini del 1967 che gli dia dignità e diritti».
Detto questo, il principe saudita ha poi aggiunto di ritenere che: «Normalizzare lo status di Israele in Medio Oriente porterebbe enormi benefici alla regione nel suo insieme», poiché «sarebbe estremamente utile, sia dal punto di vista economico che anche sociale, nonché da quello della sicurezza».
Riyadh, attuale potenza sunnita del Golfo Persico, alleata strategica di Washington e in dura contrapposizione con l’Iran sciita, nel corso della sua decennale politica nei confronti di Israele ha sempre rifiutato di stabilire legami formali fino a quando non fosse stato raggiunto un accordo risolutivo della questione palestinese.
Tuttavia, le dinamiche regionali e le escalation che ne sono derivate hanno portato a un riavvicinamento tra la petromonarchia saudita (e gli altri Stati del Golfo Persico) e lo Stato ebraico, entrambi Stati preoccupati dalla graduale espansione nella regione dell’influenza esercitata dalla Repubblica Islamica degli ayatollah.
Questi sviluppi non hanno dunque impedito a Israele e i sauditi di mantenere relazioni da diversi anni.
La visita di Netanyahu a Neom
Nel novembre scorso il primo ministro dello Stato ebraico Benjamin Netanyahu si è recato in visita in Arabia Saudita per incontrare contestualmente sia il principe ereditario Mohammad bin Salman che il segretario di Stato americano Mike Pompeo.
Lo storico evento, che ha avuto luogo a Neom, città sul Mar Rosso, ha rappresentato il primo incontro ad alto livello tra un esponente del governo israeliano e uno saudita. Per altro, va rilevato che Netanyahu era accompagnato dal direttore del Mossad Yossi Cohen, summit che venne in seguito confermato da una dichiarazione pubblica resa alla Radio dell’Esercito dal ministro dell’istruzione israeliano Yoav Gallant, malgrado fino a quel momento Riyadh avesse ufficialmente negato che l’incontro avesse avuto luogo.
Iva anche ricordato come nelle ultime settimane di campagna elettorale che hanno preceduto le ultime elezioni presidenziali negli Usa, il presidente uscente Donald Trump, artefice degli Accodi di Abramo, avesse indicato l’Arabia Saudita tra gli altri possibili dieci paesi che avrebbero normalizzato le loro relazioni con lo Stato di Israele.
Marwan Barghouti si riaffaccia sulla scena politica palestinese
Intanto, nel variegato e turbolento campo palestinese qualcosa si sta muovendo. Marwan Braghouti, già leader del Tanzim ai tempi di Arafat, personalità dell’universo palestinese rimasta per lungo tempo “congelata” nelle carceri israeliane a causa di una condanna per una serie di omicidi e oggetto in questi ultimi anni di ripetute ipotesi su un suo possibile concreto ritorno in politica, si è riaffacciato prepotentemente sulla scena e, solo per questo, non pochi nel Fatah hanno iniziato a tremare per le sorti delle loro posizioni di potere.
Essi temono un travolgente successo alle prossime elezioni della lista Hurriyeh di Amministrazione nazionale palestinese (ANP) ex ambasciatore dell’Onu e nipote di Yasser Arafat, formazione politica candidata all’Assemblea dell’Amministrazione nazionale palestinese (ANP) che viene sostenuta da Barghouti, che in Cisgiordania e a Gaza viene ormai definita come la «lista di Marwan e Nasser».
Per i palestinesi potrebbe essere davvero una rivoluzione in grado di mutare il quadro del potere locale, portando finalmente a un rinnovamento al vertice che apra spazi di dialogo pragmatico e concrete prospettive.