CORONAVIRUS, scienza. La pandemia ha colto un’Italia miope riguardo gli investimenti nella ricerca

In dieci anni tagliato il 20% degli stanziamenti, le cifre e l‘analisi nell’articolo di Valentina Renzopaoli pubblicato da “Leurispes”

Il coronavirus svela un’Italia miope, -20% di investimenti nella ricerca in dieci anni, di Valentina Renzopaoli, pubblicato da “Leurispes” l‘11marzo 2020 – Mentre ci si leccano le prime ferite da coronovirus si fanno i conti di quanto i tagli al sistema sanitario ci stiano costando e ci costeranno in termini sociali e non solo.

Ma non c’è solamente la Sanità ad aver dovuto sopportare le misure dell’austerity e dei commissariamenti. L’emergenza medica, la paura di mettere a rischio la propria vita e quella dei nostri cari, all’improvviso ci hanno svegliato dall’ignorante sonnolenza che ci ha avvolto per anni, anzi decenni, da una inconsapevole indifferenza che ha reso “normale” una follia.

Insomma, d’un tratto, ci siamo accorti di quanto abbandonate siano state la “scienza” e la “ricerca”, di quanto in solitudine abbiano dovuto lavorare coloro che il mestiere di scienziato lo considerano una missione.
Facciamoci allora altri due conti e, attingendo ad alcuni studi, vediamo quanto l’Italia sia stata miope.

Secondo il Libro Bianco La ricerca scientifica in Italia per una società sostenibile e sicura, pubblicato nel 2019 dal Gruppo 2003 per la ricerca scientifica, negli ultimi dieci anni, il settore pubblico ha disinvestito il 20% nella ricerca.

Sebbene l’approvazione del Programma nazionale della ricerca 2015-2020, il lancio di Industria 4.0, l’estensione degli incentivi fiscali per la R&S privata e i finanziamenti per le università con una più elevata qualità della ricerca abbiano registrato alcuni sviluppi negli ultimi due anni, la spesa pubblica per R&S è diminuita del 20% dal 2008 al 2016 e quella per le Università statali è stata ridotta del 14% dal 2008 al 2014.

Le attività di ricerca di molte imprese sono state trasferite all’estero, le politiche di austerità hanno ridotto la spesa pubblica per la ricerca e l’università e migliaia di giovani ricercatori altamente qualificati hanno lasciato il Paese per cercare lavoro all’estero.

«Il nostro Paese stagna da anni intorno a un investimento in ricerca dell’1,2-1,3% sul Prodotto interno lordo, in compagnia di Spagna, Paesi balcanici e dell’Est europeo. Siamo lontani sia dalla media del finanziamento Ue del 2%, e dalla media dei Paesi Ocse del 2,4%, e a meno della metà del valore minimo del 3% consigliato dalla Commissione Europea per assicurare la crescita e la creazione di un meccanismo virtuoso di indotti positivi», si legge nella ricerca.

Anche l’ultima Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, prodotta dal CNR, fa notare la distanza del nostro Paese dalla Germania e dalla Francia che hanno continuato a finanziare la spesa per R&S in modo elevato anche negli anni della crisi finanziaria. La Germania vuole portare il proprio investimento in Ricerca e sviluppo dal 3 al 3,5% del prodotto interno lordo, lanciandosi all’inseguimento di Svizzera, Giappone, Svezia e Austria (dal 3 al 3,5%) e di Israele e Corea del Sud (4,5%).

Il Libro Bianco riporta, poi, la situazione dei ricercatori italiani: con 4,9 ricercatori ogni mille lavoratori, il nostro Paese ne ha poco meno della metà della media dei paesi dell’Ocse (8,2), e meno della Spagna (6,6), e ovviamente di Paesi come la Germania (9), Gran Bretagna (9,2) e Francia (10). Coerentemente, siamo gli ultimi in Europa riguardo alla percentuale di laureati tra i giovani fra i 25 e i 34 anni: solo il 26%.

C’è poi il capitolo “fuga dei cervelli”. Secondo le stime citate qualche mese fa dall’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria, il costo della cosiddetta fuga di cervelli dall’Italia, costa 14 miliardi l’anno.

Nel 2017 sono emigrati circa 115.000 italiani e, di questi, più della metà (52,6%) è in possesso di un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33.000 diplomati e 28.000 laureati, secondo l’Istat.

Tra il 2013 il 2017 il numero di laureati espatriati è aumentato del 41,8%, mentre i rimpatri sono rimasti costanti, determinando un saldo migratorio con l’estero peggiorato negli anni.

Ora che, nel momento dell’emergenza e della confusione, la scienza appare come l’unico faro, e i risultati della ricerca, medico-scientifica in questo caso, l’unico appiglio per sperare di tornare alla normalità, converrebbe fare una riflessione sulle scelte politiche ed economiche degli ultimi anni.

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