Le forze di sicurezza algerine hanno rafforzato le misure di prevenzione e contrasto del terrorismo a seguito dell’attacco suicida compiuto nella giornata di ieri contro una base militare non lontana dal poroso confine con il Mali, nella parte meridionale e desertica del Paese nordafricano.
L’attacco ha provocato la morte di un militare, che aveva tentato di bloccare la corsa dell’autobomba condotta da un attentatore suicida.
Dopo l’attacco jihadista le forze di sicurezza algerine hanno allestito numerosi checkpoint nella regione.
I tratta del primo attentato di rilievo nel sud del Paese dai tempi dell’assalto al giacimento di gas di Tigentourine, compiuto nel gennaio 2013 da un gruppo affiliato ad al-Qaeda che si era infiltrato in territorio algerino provenendo dalla Libia.
Allora le vittime dell’azione jihadista furono quaranta persone di diverse nazionalità tra i dipendenti dell’impianto e di ventinove terroristi eliminati dal personale armato posto a difesa della struttura.
L’attentato avviene in un particolare contesto, contraddistinto degli sforzi profusi nella regione saheliana dalle autorità di Algeri, in particolare nel Mali, dove si era riusciti a indurre le parti in lotta a sottoscrivere un accordo di pace, noto appunto come “Accordo di Algeri”.
Infatti, grazie all’iniziativa diplomatica algerina, nel marzo del 2015 il governo di Bamako aveva firmato un accordo con i ribelli di Azawad attivi nel nord del paese che prevedeva un cessate il fuoco e l’avvio di negoziati diretti tra le parti.
In precedenza, nel 2012, il Movimento nazionale per la liberazione di Azawad aveva sferrato un’offensiva coordinata contro l’esercito maliano nelle località di Tasalit, Ajlhuk, Menka, Gao e Timbuktu.
Gli attacchi armati si erano protratti per diverse settimane, fino al 2013, quando con l’intervento dell’esercito francese l’avanzata dei gruppi ribelli in direzzione della capitale era stata arrestata.
Sempre a cavallo delle frontiere tra Mali, Niger e Burkina Faso, nell’agosto 2014 Parigi avviò poi l’operazione “Barkhane”, schierando 4.500 uomini a sostegno della cosiddetta «Force du Sahel», dispositivo multinazionale formato con unità militari di Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania.
Gli sforzi vennero concentrati principalmente nella regione di Liptako-Gourma, nel nordest del Mali, la stessa dove nei giorni scorsi, anche grazie al consolidamento del coordinamento delle forze partecipanti nelle mani del vertice militare francese, sono stati colpiti consistenti nuclei di jihadisti riconducibili alle filiazioni di Islamic State (IS) e alle ramificazioni locali di al-Qaeda.
In quel caso, le forze francesi avevano eliminato almeno una trentina di combattenti jihadisti e di elementi della criminalità.
Per tornare all’Algeria, va rilevato che negli ultimi quattro anni centinaia di terroristi islamisti attivi nel Sahel, molti dei quali in fuga dal Mali, si sono arresi all’esercito di Algeri.
Nella regione settentrionale maliana sono attualmente presenti diversi gruppi terroristici legati ad al-Qaeda e a IS, formazioni armate che che hanno approfittato dei disordini divampati nella a seguito della rivolta nell’Azawad contro il governo centrale.
Nell’aprile del 2012, il gruppo Tawhid wal Djihad – letteralmente: «Unicità e Jihad», ramificazione saheliana di al-Qaeda – rapì sei diplomatici algerini prelevandoli dal consolato di Gao. Quattro di essi vennero assassinati, mentre i due lasciati in vita vennero rilasciati nell’agosto di due anni dopo.
L’estensione della frontiera algerina con quella maliana è lunga 1.376 chilometri, dunque, comprensibilmente difficile da controllare.
Si tratta di un’area tra le più pericolose del Paese nordafricano, questo a causa dell’attività svolte da numerose aggregazioni terroristiche, la più importante delle quali risulta essere il Gruppo in sostegno all’Islam e ai musulmani (Gsim), formazione scaturita dall’alleanza stipulata da al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim) e i numerosi movimenti islamisti armati presenti nella regione saheliana, attualmente guidata dal sessantenne maliano Iyad Ag Ghali, attivamente ricercato dalle varie forze di sicurezza.
Egli ha ricevuto il proprio addestramento in Libia, formandosi dal punto di vista militare nei ranghi del Battaglione Verde tuareg del colonnello Muhammar el-Gheddafi, per il quale ha combattuto anche in Libano contro gli israeliani.
Altre importanti formazioni armate attive tra Mali e Burkina Faso sono poi Ansaroul Islam, creata nel 2016 da Ibrahim Jafar Dicko (scomparso nel maggio 2017), lo Stato Islamico nel Gran Sahara (Eigs), ritenuta affiliata a IS dal 2015 e guidata da Adnan Abou Walid al-Sahraoui, nonché Katiba Macina, formazione segnalata in rapida crescita facente capo ad Amadou Koufa.
Direttamente legata all’Africa occidentale, la regione subsahariana è storicamente interessata – fin dai tempi del commercio degli schiavi – da traffici sia leciti che illeciti, inoltre, per secoli (e ancora oggi) i governanti al fine di assicurarsi l’appoggio dei potentati locali hanno sempre distribuito i proventi dei loro Stati a questi ultimi, costruendo reti di consenso che ne garantivano la permanenza al potere.
Da qualche anno, inoltre, l’aumento esponenziale dei traffici di sostanze stupefacenti provenienti dal Sud America e sbarcate nei porti dell’Africa Occidentale ha reso ancora più florido il fenomeno del contrabbando, unendo il lucroso traffico della droga a quello dei beni sussidiati dai governi in favore della popolazione affamata allo scopo di evitare sommovimenti di massa.
Venuti meno alla fine degli anni Novanta gli equilibri internazionali e col divampare della guerra scatenata dall’Occidente al terrorismo islamista, anche a causa della sempre più spinta globalizzazione dei commerci, si è andata modificando anche la conformazione strutturale della criminalità organizzata, che da internazionale è divenuta transnazionale, acquisito la sostanziale capacità di attraversare numerosi Stati, principalmente dei Paesi in via di sviluppi.
Queste dinamiche hanno finito per stravolgere definitivamente il quadro generale dei rapporti di potere nella maggior parte dei Paesi dell’Africa occidentale e subsahariana, permeati dai traffici di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti dirette ai mercati europei, nello specifico eroina proveniente dall’Afghanistan, (prevalentemente attraverso il Kenya) e cocaina dal Sud America.
Il contrabbando della droga si è quindi aggiunto a quello dei tabacchi lavorati (sigarette) e delle armi, traffici ai quali recentemente si è andato affiancando – sulle medesime rotte – anche quello degli esseri umani, i migranti.
A determinare il successo della rotta africana di cocaina da Perù, Colombia e Bolivia, è stata la chiusura da parte statunitense di quella caraibica, in precedenza gestita per lungo tempo dai cartelli dei narcos colombiani, che esportavano la droga attraverso la Florida.
A causa di tale sconvolgimento, nella filiera della cocaina ai colombiani era rimasta quindi soltanto la fase della produzione, poiché il trasferimento del prodotto era divenuto appannaggio dei narcos messicani, con la conseguente sanguinosa guerra che devasta tuttora il Paese centroamericano. Non potendo sostituirsi ai messicani, i cartelli della Colombia hanno iniziato a curare le spedizioni dei carichi diretti in Europa e in Asia attraverso le coste africane, avvalendosi inizialmente dell’expertise offerto loro da alcuni appartenenti alla diaspora libanese in Sudamerica.
Fu così che, a partire dai primi anni Duemila, tonnellate di cocaina iniziarono a essere sbarcate sulle coste atlantiche della Guinea e della Guinea Bissau e, da lì, attraverso il Sahel fino alle coste mediterranee per poi raggiungere i mercati europei e orientali.
Un traffico miliardario che ha successivamente modificato le strutture criminali locali alterandone gli equilibri in virtù dei guadagni esponenziali assicurati, una business al quale tutti vollero prendere parte.
I narcos non si fecero carico del rischio relativo al transito sui segmenti terminali della rotta, poiché l’onere della consegna ai destinatari dall’arrivo della merce nei porti africani passava alle mafie locali, che da quel punto in poi spostavano i carichi di droga sulla base delle proprie capacità, cercando di ridurre i passaggi al fine di ottenere maggiori guadagni.
Con la deposizione di Gheddafi da parte dei francesi e dei britannici nel 2011 saltava poi la Libia, aprendo un pericoloso buco nero con ulteriori immediati riflessi negativi sulla stabilità generale della regione subsahariana.
Vuoti prontamente colmati da movimenti armati e insorgenti di ribelli Tuareg, Tobu e di altre confederazioni tribali, nonché dalle formazioni radicali islamiste e jihadiste come Aqmi – nel frattempo pressate nella fascia saheliana dall’azione delle forze di sicurezza algerine – e infine dagli affiliati a Islamic State.
Aqmi nacque come evoluzione del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc), organizzazione a sua volta costituita nel 1998 durante la guerra civile algerina quale ultima discendente del Gruppo islamico armato (Gia).