ECONOMIA, Unione europea. Verso un bilancio aggiuntivo federale dell’1% nell’eurozona?

Presentato a Roma nell’Ufficio di rappresentanza dell’Unione europea il documento analitico elaborato dal Centro Studi Economia Reale in collaborazione con il Movimento Europeo Italia. I benefici potenziali di questo piccolo passo in avanti verso l’integrazione mediante un bilancio aggiuntivo di tipo federale di circa l’1% del Pil dell’area euro, pari a 120 miliardi, un bilancio aggiuntivo in pareggio che non implica alcun indebitamento a livello sovranazionale

Dopo la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania, i popoli dell’Europa centrale, che per cinquant’anni avevano vissuto sotto la diretta influenza dell’Urss e “dentro” il Patto di Varsavia, hanno espresso con forza e determinazione la volontà e la speranza di ricucire le loro antiche e profonde radici europee.

Nel 1995 Austria e Finlandia aderiscono alla Unione europea e nel 1999 entrano nell’euro.

Nel 2004 l’Unione europea si allarga a Slovacchia, Estonia, Lituania, Lettonia, Slovenia e, verso il Mediterraneo, a Cipro e Malta. Tra il 2007 ed il 2015 tutti questi paesi entrano anche nell’Area Euro.

Nel 2004, aderiscono alla Unione europea restando fuori dall’euro, Polonia, Repubblica ceca ed Ungheria seguite da Romania e Bulgaria nel 2007 e dalla Croazia nel 2013.

 

Così oggi siamo ad una Ue a 28 paesi (27 con l’annunciata, probabile e complicatissima uscita del Regno Unito) ed ad una Eurozona a 19 paesi.

Nel corso degli anni Novanta, con il dirompente ingresso dell’Asia guidata da Cina ed India sulla scena del commercio mondiale, si è sempre più consolidato l’ineluttabile processo di globalizzazione mondiale.

Anche a fronte di questo, nell’Unione europea si è riaperto il dibattuto sulla alternativa fra “allargamento” e “approfondimento” (Widening and Deepening). Era evidente che, per partecipare a pieno titolo e da protagonista nella globalizzazione, l’Unione Europea doveva diventare più “grande” in termini di popolazione, mercato e Pil e “più profonda” e cioè “più forte” in termini di assetto istituzionale e di rappresentanza politica.

 

Alla fine degli anni Ottanta e fino al 1995 l’Unione Europea aveva 12 membri, oggi è partecipata da 28 Stati. Ecco allora che l’allargamento è avvenuto.

Sul fronte dell’approfondimento però i passi sono stati piccoli e lenti. Ancora oggi dobbiamo completare l’Unione bancaria e siamo ben lontani da un bilancio federale Europeo, rimanendo con il bilancio sostanzialmente intergovernativo che gestisce risorse attorno all’1% del Pil  globale dell’Ue.

 

Questo studio si articola pertanto in due parti. La prima si riferisce al processo di “allargamento” vissuto negli ultimi venti anni e presenta una analisi sui dati storici Eurostat dal 2000 al 2018 relative all’andamento economico-finanziario dei 28 Stati membri dell’Unione europea, con particolare focus sui 19 membri dell’Eurozona.

Su questa base si indica quale “peso” al 2018 ciascuno Stato esprime sia rispetto al totale dei membri dell’Unione sia all’interno della eurozona.

Si valuta poi come si sono determinati nel tempo i “pesi” rilevati per il 2018 e cioè quali performance effettive si sono avute in questi ultimi venti anni al fine di verificare quale percorso di convergenza o divergenza si sia determinato tra i vari Stati facendo “parlare” i numeri, senza cioè ricorrere a pregiudizi ideologici circa la positività o la negatività dell’Unione e dell’area a moneta unica e nella consapevolezza che questi dati sono stati determinati nel processo di integrazione europea avvenuto fino ad oggi in un ambito di una Europa sostanzialmente intergovernativa e non di una Europa federale.

 

L’analisi dei dati storici mostra che in termini di Pil reale pro-capite, c’è stato un processo di convergenza tra i vari paesi dell’Unione (catching-up), più forte tra i paesi appartenenti all’euro.

Certamente, la convergenza avrebbe potuto e dovuto essere più forte ed accelerata. Sta di fatto però che, guardando ai profili del Pil reale pro-capite medio di ciascun paese non è vero che l’Unione e la moneta unica abbiano avuto effetti divergenti e dirompenti “tra” i vari paesi.

Diverso potrebbe essere il ragionamento che si può riferire alla distribuzione dei redditi “interna a ciascun paese”. Ma come già detto, siamo in una Europa intergovernativa ed in questo assetto istituzionale il compito della redistribuzione interna dei redditi spetta ad ogni governo nazionale.

 

Da questo punto di vista, qualcuno sostiene che i governi nazionali possono fare ben poco sul piano della distribuzione dei redditi perché sono “limitati e forzati” dai vincoli europei, soprattutto da quelli relativi a chi fa parte dell’euro. Dai dati storici questa appare una falsa vulgata. Infatti, il Pil reale pro-capite è aumentato in tutti i paesi e le differenze tra i paesi si sono ridotte. Pertanto, i governi nazionali, con un Pil pro-capite via via crescente ed in avvicinamento rispetto alla media europea avrebbero avuto la possibilità di redistribuirlo in modo più equo tra i propri cittadini senza necessariamente dover sforare i parametri europei.

 

Tra i 19 Paesi dell’euro e i 28  dell’Unione, l’unica eccezione è l’Italia che dal 2000 al 2018 ha visto ridursi il proprio Pil reale pro-capite ed è passata da un reddito reale pro-capite che nel 2000 era al 103% della media dell’area euro all’86% del 2018. Rispetto all’Unione, l’Italia nel 2000 era al 120% della media dell’Unione ed al 2018 è scesa al 95% . Dal 2000 al 2018, l’Italia è l’unico paese tra i 19 appartenenti all’euro ad aver perso 17 punti e tra i 28 paesi dell’Unione 25 punti.

Si mostra però che questa “anomalia” italiana non ha niente a che vedere con i parametri europei ma con cause strutturali “tutte interne” all’economia italiana: più bassi investimenti pubblici e privati, più alta spesa corrente, risparmio pubblico negativo (disavanzo di parte corrente), produttività totale dei fattori in declino.

 

Gli andamenti sono stati tutti decisi, nei fatti e nei numeri, dai vari governi nazionali e non sono stati imposti dalla Commissione europea. Un esempio concreto: il famigerato limite del 3% al deficit pubblico. Ebbene tutti i governi italiani hanno detto a parole di volerlo perseguire e rispettare, ma lo hanno fatto aumentando la spesa corrente, aumentando le tasse e tagliando a metà gli investimenti pubblici. Questo modo di perseguire l’equilibrio di bilancio non ce lo ha imposto nessuno e per di più si è dimostrato un modo “vizioso e controproducente” perché ha ridotto la crescita ed amplificato gli squilibri di finanza pubblica. Non è quindi colpa di “altri se l’Italia è l’unica anomalia dell’Europa, quanto piuttosto il risultato di nostre decisioni nazionali.

 

Nella seconda parte si guarda al futuro, cioè all’approfondimento, il “deepening” dell’Unione europea. Si propone infatti un piccolo passo in avanti verso l’integrazione ipotizzando un “bilancio aggiuntivo di tipo federale” per circa l’1% del Pil dell’area euro pari a 120 miliardi di euro indicando sia la provenienza delle entrate sia la destinazione delle spese.

Si tratterebbe pertanto di un bilancio aggiuntivo in pareggio che non implica alcun processo di indebitamento a livello sovranazionale europeo.

Sulla base di simulazione econometriche effettuate con i modelli nazionali ed aggregati della Oxford Economics si sono pertanto misurati gli effetti che tale bilancio aggiuntivo determinerebbe sulla area euro, sui 19 singoli Stati membri ed anche sugli altri 9 membri dell’Unione non appartenenti all’area dell’euro.

Gli effetti che abbiamo stimato indicano una maggiore crescita che, nei quattro anni considerati, sarebbe pari al +2,4% nell’eurozona ed al +2% nel totale dell’Unione con effetti positivi anche sui paesi non membri dell’euro, seppur minori rispetto a quelli che si produrrebbero nei paesi dell’euro.

Pertanto, come detto nella precedente sezione, “l’allargamento” ha avvantaggiato i paesi “entranti”, ma anche i 12 paesi già parte dell’Unione Europea ed ha comunque determinato un processo di convergenza verso l’alto per tutti nel Pil reale pro-capite. Da questi primi risultati emerge che anche il processo di “approfondimento” avvantaggerebbe i paesi che vi partecipano (nella nostra ipotesi i paesi dell’euro), ma anche i paesi non partecipanti e non aderenti all’euro.

Il Pil reale in valore assoluto sarebbe maggiore di 269 miliardi nella zona euro e di 312 miliardi nell’Unione, con 43 miliardi di Pil in più nei paesi non-euro dei quali 22 miliardi si produrrebbero nel Regno Unito.

In termini di Pil pro-capite i cittadini dei paesi euro avrebbero un miglioramento di circa 790 euro nella media dei paesi a moneta unica e nella media dell’Unione il Pil pro-capite migliorerebbe di 604 euro.

 

Sul mercato del lavoro, il tasso di disoccupazione scenderebbe in quattro anni dell’1,1% nell’Eurozona e dello 0,8% nel complesso dei paesi dell’Unione. In valore assoluto si tratterebbe di più di 2,1 milioni di disoccupati in meno nell’Unione Europea, dei quali 1,8 milioni tra i paesi dell’euro e 323 mila nei paesi non-euro. Il numero di occupati salirebbe in totale di oltre 2,2 milioni di unità, dei quali quasi 1,9 milioni nei paesi euro e più di 350 mila in quelli non-euro.

Dal punto di vista dell’economia reale si rileva quindi un “gioco a somma positiva” per tutti. Infatti, tutti i paesi dell’euro ed anche quelli non appartenenti alla moneta unica avrebbero più crescita, più Pil pro-capite, meno disoccupazione e più occupazione.

Questo «gioco a somma positiva per tutti», si dimostra virtuoso anche sul fronte della finanza pubblica.

Innanzitutto, i 90 miliardi di maggiori investimenti pubblici in più previsti nel bilancio aggiuntivo produrrebbero effetti positivi già al primo anno attivando ulteriori maggiori investimenti per 3,3 miliardi che diventerebbero circa 10 miliardi in più al quarto anno nel quale gli investimenti pubblici complessivi dell’Area Euro sarebbero quasi 102 miliardi in più. Questo effetto verrebbe a distribuirsi in tutti i 19 paesi dell’euro.

Il deficit pubblico in rapporto al Pil andrebbe a zero nel 2023 per tutta l’Area, con effetti di riduzione del deficit o di aumento dell’avanzo in tutti i paesi membri.

L’avanzo primario, sempre al quarto anno, sarebbe maggiore di 126 miliardi nel totale dell’Eurozona pari a circa un +1% del Pil, con miglioramenti in tutti i paesi membri.

Infine, il debito pubblico si ridurrebbe di 308 miliardi di euro con una riduzione percentuale sul Pil dell’Eurozona del 4,5% e pertanto si avrebbe un rapporto Debito/Pil al 74% contro il 79% in assenza del bilancio aggiuntivo. Questa riduzione del debito si produrrebbe in tutti i paesi con in testa Italia e Portogallo che avrebbero una più alta riduzione del loro rapporto Debito/Pil quasi di 7 punti percentuali. L’Italia passerebbe al quarto anno dal 134% al 127% ed il Portogallo dal 108% al 101%.

 

A164 – ECONOMIA, EUROZONA: BILANCIO AGGIUNTIVO. Investimenti, sicurezza delle frontiere esterne dell’Ue, welfare: quante cose si potrebbero fare con l’1% di bilancio aggiuntivo. Presentato a Roma nell’ufficio di rappresentanza dell’Unione europea il documento analitico elaborato dal Centro Studi Economia Reale in collaborazione con il Movimento Europeo Italia relativo alla fattibilità di un bilancio aggiuntivo nell’eurozona; vantaggi, opportunità e costi descritti dal professor MARIO BALDASSARRI, economista, già viceministro dell’Economia e attuale presidente del Centro Studi Economia Reale. Nella relazione finale il risultato della crescita della ricchezza negli ultimi venti anni sia nell’eurozona che negli altri Paesi membri che non hanno adottato la moneta unica.

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