TURCHIA, strategia. Le “relazioni pericolose” di Ankara con Mosca: dal progetto neo-ottomano di Erdoğan allo scontro con Washington, la proteiformità delle alleanze del «sultano»

All’inizio il sogno dell’Akp era quello di un moderno sultanato in Medio Oriente, ma da allora tante cose sono cambiate. In primo luogo le relazioni con Washington.

Oggi Ankara è assillata da preoccupazioni vecchie e nuove, per la maggior parte originanti appena dopo la linea di frontiera con la Siria, ma anche sul proprio territorio. Come le questioni della gestione degli islamisti ex Isis e quella curda. E poi c’è la Russia, il nuovo alleato col quale ha avviato un’intensa partnership militare.

Il presidente islamico originariamente laico sognava il sultanato neo-ottomano in Medio Oriente e a quel tempo sembrava quasi fatta. Infatti, la disgregazione di alcuni stati arabi gli aveva permesso l’esercizio di forti influenze a livello regionale.

La Turchia era molto forte, apparentemente intoccabile e nelle condizioni di far valere le proprie ragioni anche usando la mano pesante. Potente e con salde alleanze internazionali, poiché a quel tempo l’Occidente era con lei. E quando ad Ankara si rendevano conto che non lo fosse in maniera convinta, i turchi potevano sempre giocare le carte giuste. Come quella dei biblici flussi migratori di profughi. Da bloccare oppure lasciare transitare, a seconda dei pagamenti miliardari da parte europea, cacciati dalle tasche dei membri di quel “club cristiano” che, in fondo, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non li avevano mai ammessi.

In Medio Oriente la Turchia a guida Akp era intervenuta mediante spregiudicate alleanze con islamisti vari, al punto che ad Ankara il 25 novembre 2015 il capo dei servizi segreti si sentì nelle condizioni di poter dichiarare pubblicamente che, «nel quadro di un “ampio sforzo diplomatico” teso alla soluzione del problema, l’Isis andrebbe considerato come un interlocutore», giungendo addirittura ad affermare la possibile apertura di una «sede di rappresentanza» di dawla nella capitale turca.

Parole pronunziate soltanto pochi giorni dopo che l’organo di informazione del «califfato» aveva pubblicato una richiesta di riconoscimento ufficiale.

Molta acqua è passata sotto i ponti da allora e non pochi sono stati i cambiamenti. Oggi (dopo avergli abbattuto un jet da combattimento in Siria) Recep Tayyip Erdoğan è diventato un solido alleato dei russi e persiste con pervicacia nell’intenzione di approvvigionare le proprie forze armate con i sistemi antiaerei e antimissile S-400 da loro prodotti.

Ma così facendo si è messo contro gli americani, che adesso non perdono occasione per infilargli spine nei fianchi. Ad esempio mantenendo lo stallo nei colloqui sulla Siria, dove il presidente turco vorrebbe creare una fascia di sicurezza controllata dal proprio esercito o, al massimo, in maniera congiunta con altri alleati.

Forse l’attuale presidente turco in filigrana inizia a intravedere la trama del suo declino. Già, apparentemente è strano, tuttavia da quando si sono andate deteriorando le relazioni con Washington, all’interno del suo partito e tra le personalità politiche che fino al momento della deriva autoritaria e islamista ne avevano fatto parte, qualcosa ha cominciato a muoversi.

Come se dietro le quinte della politica turca si stesse formando una classe dirigente alternativa maggiormente presentabile in attesa di sviluppi futuri. In fondo neppure Erdoğan è sempiterno.

Gli basterà continuare imperterrito sulla strada della repressione oppure dovrà rivedere le sue posizioni?

 

Le deteriorate relazioni con Washington e la partnership militare sempre più stretta con Mosca

In questo momento le relazioni con la Russia di Putin sono ottime, anche nel settore della difesa. Al riguardo è in essere un coordinamento strategico frutto di un accordo bilaterale siglato l’8 marzo scorso.

Esso, tra l’altro, regolamenta le attività di pattugliamento congiunto nella provincia nord-occidentale siriana di Idlib, cioè l’ultima grande roccaforte controllata dagli jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham, organizzazione ribellatasi al governo di Assad che è riconducibile ad an Nusra, la cosiddetta al-Qaeda siriana.

Lo steso giorno in cui i rappresentanti dei governi di Ankara e di Mosca stipulavano l’accordo, il ministro della difesa della Federazione russa dichiarava che le forze navali del proprio paese e quelle turche avevano effettuato un’esercitazione navale congiunta nel Mar Nero.

Presso il porto di Novorossiysk corvette, dragamine, un pattugliatore e un peschereccio avevano simulato delle operazioni di navigazione sicura attraverso un tratto di mare minato. Le attività rientravano nell’ambito della più complessa esercitazione “Blue Homeland 2019”, che aveva avuto luogo dal 27 febbraio al 2 marzo, considerata la maggiore esercitazione della marina turca, che in quell’occasione aveva visto la partecipazione di 103 unità navali battenti bandiera con la mezzaluna e migliaia di militari.

Attraverso quella dimostrazione di forza agli americani (con i quali in quel momento la Turchia negoziava per una fascia di sicurezza in Siria) vennero indirizzati due chiari messaggi: la volontà di proseguire sulla propria linea di politica estera e militare e quella di voler mantenere sicure le proprie vie di comunicazione marittime e gli approvvigionamenti energetici.

 

La sicurezza marittima ed energetica di Ankara

L’esercitazione Blue Homeland si era svolta su un totale di 462.000 kmq, con assetti che avevano espresso le specifiche capacità nei settori del controllo e del mantenimento in sicurezza delle vie di navigazione marittima, operando nel Mediterraneo orientale, nel Mar Nero (in cooperazione con i russi) e nel Mare Egeo.

Le manovre navali avevano avuto luogo in seguito all’annuncio del ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoglu relativo alle attività di esplorazione di idrocarburi in mare. In realtà, si trattava di prospezioni già avviate, poiché la prima nave turca aveva iniziato le proprie ricerche al largo della costa meridionale della provincia di Antalya nell’ottobre del 2018, mentre la seconda, inizialmente inviata nel Mar Nero, era stata poi richiamata in Mediterraneo.

Nelle acque a ovest della Turchia, il clima teso con Nicosia e Atene rischiava dunque di venire ulteriormente criticizzato dalla dimostrazione muscolare della marina di Ankara.

Infatti, con Cipro è aperto un contenzioso su alcuni giacimenti sottomarini di gas naturale, quindi l’invio di due navi trivella turche nello specchio di mare non distante dall’isola per l’effettuazione di ricerche di idrocarburi non poteva che alimentare la tensione nella regione. In ogni caso Çavuşoglu era stato molto chiaro al riguardo, affermando che «niente può essere fatto nel Mediterraneo orientale senza la Turchia».

 

La questione degli S-400

La questione della fornitura russa di sistemi missilistici antiaerei/antimissile ai turchi è estremamente delicata e ha messo in crisi le relazioni bilaterali tra Ankara e Washington.

Erdoğan è intenzionato all’acquisto e all’immissione in linea nelle sue forze armate degli S-400, però se questo davvero avvenisse il Paese con ogni probabilità verrebbe sottoposto alle sanzioni da Washington e, ovviamente, si precluderebbe la possibilità di acquisire i nuovi caccia americani F-35, un programma attualmente nella fase finale di sviluppo per il quale Ankara ha investito oltre un miliardo di dollari in qualità di partner nel consorzio di produzione.

Vi sono evidenti incompatibilità di natura politico-strategica tra le forniture di sistemi d’arma statunitensi e russi di questo livello di sofisticazione e importanza, anche e soprattutto alla luce dell’intenzione turca di procedere alla contemporanea acquisizione degli S-400 e dei Patriot, americani anch’essi.

A sostegno delle proprie ragioni, Ankara afferma che il costo dei sistemi antiaerei/antimissile americani è eccessivo a fronte dell’assenza dei trasferimenti di tecnologia richieste. Dal canto suo, Washington esige il mantenimento dell’esclusività del rapporto, poiché S-400 e Patriot non potrebbero coesistere in quanto, una volta attivati, i militari russi verrebbero a conoscenza di informazioni sensibili relative al loro sistema d’arma mediante i sensori dell’S-400.

Dunque, l’aggravamento della crisi nei rapporti bilaterali dipenderebbe anche dalla data di consegna da parte russa delle batterie missilistiche e dei radar ai quali le prime sono asservite. Mosca afferma di potere iniziare le consegne in luglio, conseguentemente resterebbero meno di due mesi per trovare una soluzione alla spinosa controversia, tuttavia i segnali dalle due cancellerie non sono eccessivamente incoraggianti.

 

Il precedente cipriota

La sfiducia tra i due storici alleati nella Nato viene messa in discussione anche dallo specifico precedente rappresentato dagli S-300 greco-ciprioti.

Infatti, nel 1997 divampò una crisi a causa dell’acquisizione dei sistemi missilistici russi (nella versione S-300) da parte di Nicosia, che però si vide costretta ad abbandonare il suo programma (l’installazione di due batterie sull’isola) a causa della dura reazione della Turchia, che si sentiva minacciata nella sua sicurezza.

In quel caso, a seguito di un accordo che prevedeva la loro non attivazione, le batterie, che erano già state consegnate ai ciprioti, vennero ridislocate sull’isola greca di Creta.

Orbene, in Turchia ci si domanda il perché l’amministrazione Clinton allora tollerò l’acquisizione degli S-300 da parte cipriota, anche se successivamente “stoccati” in territorio ellenico. Gli americani si fidarono dei greci (o ebbero le loro convenienze nel farlo), malgrado avessero appurato che questi ultimi avevano attivato i sistemi missilistici prodotti dai russi per testarli nei confronti dei propri velivoli militari. Al contrario, oggi gli americani non si fiderebbero dei turchi.

Sarà dunque percorribile l’ipotesi del mantenimento “nel congelatore” dei sistemi missilistici dopo la loro effettiva consegna? A questo punto, al netto delle minacciate sanzioni ritorsive Usa, sarebbe razionale approvvigionarsi di un’arma del costo di miliardi che poi non potrebbe essere utilizzata?

 

Curdi e jihadisti: la fascia di sicurezza nella Siria nord-orientale

Sulla base degli Accordi di Astana, le forze armate turche sono autorizzate a mantenere non più di dodici postazioni di osservazione in territorio siriano. Nel settore nord-orientale il contingente militare Usa ancora non verrà ritirato, almeno non nella misura inizialmente annunciata dalla Casa Bianca.

Le indiscrezioni sul “piano Trump” per una road map siriana davano in 400 i soldati americani che sarebbero rimasti nel Paese mediorientale (dai 2.200 presenti), un ridotto contingente di personale specializzato – al netto degli operatori dell’intelligence e dei non pochi contractors – che avrebbe dovuto ricevere il sostegno delle truppe di altri paesi alleati e che non avrebbe cessato le attività di pattugliamento congiunto con i turchi, mantenendo inoltre un proprio contingente nella base di al-Tanf, al confine tra Siria, Iraq e Giordania.

Pattugliamenti congiunti i turchi ne fanno anche con i russi, nel settore nord-occidentale, cioè nell’ultima enclave rimasta sotto il controllo dei ribelli jihadisti dei gruppi Hayat Tahrir al-Sham e Jaysh al-Izza, presenti principalmente nella provincia di Idlib.

Quando ricalibrò il suo intervento in Siria, Washington mise nel conto il possibile intervento militare turco contro i guerriglieri curdi dello Ypg (milizia della branca siriana del Pkk, in questa fase alleata degli Usa), ragion per cui decise di non sguarnire completamente la regione mantenendovi una parte del suo contingente militare.

Un passo che mutava nuovamente lo scenario mentre proseguivano, tra alterni risultati, i negoziati con Ankara sulla fascia di sicurezza da quest’ultima richiesta. L’ipotesi era quella di un controllo congiunto del settore di interesse, con i militari turchi dislocati nella sua parte settentrionale e quelli statunitensi in quella meridionale.

I negoziati vertevano soprattutto sulla profondità della fascia di sicurezza, dato che Washington tendeva a mantenerla di dimensioni ridotte allo scopo di limitare il numero di militari turchi che vi sarebbero stati inviati.

 

Instabilità perdurante a Idlib, la chiusura ermetica della frontiera turca

Nonostante il cessate il fuoco concordato da Russia e Turchia nel settembre 2018 la regione permaneva instabile. In virtù degli accordi l’area di Idlib è stata dichiarata demilitarizzata, con il conseguente sgombero dei miliziani jihadisti e delle armi pesanti.

Tuttavia, questo non ha impedito che si verificassero ancora incidenti, anche di un certo rilievo, come i raid effettuati dai bombardieri di Damasco nel settore tra la stessa Idlib e la città di Hama, finalizzati alla distruzione delle residue strutture logistiche dei due gruppi combattenti qaedisti citati, resisi precedentemente responsabili di una serie di violazioni del cessate il fuoco nelle province di Latakia, Afrin e Hama.

Le forze di Assad, oltre ad arginare Hayat Tahrir al-Sham nel governatorato di Aleppo, si trovavano impegnate anche nel contenimento delle milizie ribelli sostenute dalla Turchia, come il Fronte di liberazione nazionale, che risultava ancora attivo a sud di Idlib.

Inoltre, nella regione i curdi di Pkk e Ypg schierano circa 17.000 combattenti, che, data la contiguità del Kurdistan siriano con quello turco, sono considerati da Ankara una minaccia.

Nel 2016 l’obiettivo dell’operazione militare “Scudo dell’Eufrate”, condotta dalle forze armate turche in territorio siriano, fu l’assunzione del controllo dell’autostrada M4, che scorre parallela alla linea di frontiera a una distanza di circa trenta chilometri da essa, un’asse viario che si estende da Aleppo al confine con l’Iraq.

Una volta preso il controllo della città di al-Bab i turchi si fermarono, poiché il successivo centro urbano sulla loro direttrice di avanzata era Mambil, allora sotto il controllo dello Ypg.

“Scudo dell’Eufrate” servì anche ad allontanare la minaccia portata dai missili e dall’artiglieria dell’Isis, che, posizionata a quindici chilometri dal confine, nel passato aveva colpito il territorio turco.

La successiva operazione “Ramo d’Ulivo”, nel 2018 tese a impedire ai guerriglieri curdi dello Ypg di bersagliare a loro volta il territorio turco.

All’inizio del 2019 i piani originari di Ankara erano quelli di ripulire l’intera fascia di sicurezza profonda trenta chilometri in territorio siriano una volta occupata, dalla linea di frontiera all’autostrada.

Era ancora vivo il ricordo della sistematica ondata di attacchi terroristici subiti poco più di due anni prima, dunque la volontà è quella di salvaguardare la propria sicurezza con una zona cuscinetto estesa lungo i 912 chilometri di frontiera con la Siria, una chiusura ermetica.

Ma la strategia turca è anche funzione del contrasto dei curdi del Pkk in Siria e prevedrebbe la “bonifica” della fascia di sicurezza e delle zone adiacenti dai combattenti dello Ypg, questo mediante il controllo del territorio dalla provincia di Kobane e verso Telabjad, fino ai valichi di confine con l’Iraq.

In particolare di Tall Afar, nella regione montana irachena del Sinjar, dove vivono i curdi di religione ezida, angariati dagli jihadisti del “califfato” e in seguito liberati dal Pkk.

Un transito di importanza strategica sia per i curdi del Pkk, che nella regione hanno la loro seconda base in ordine di importanza, sia per gli americani, che da quel valico fanno affluire la logistica sbarcata all’aeroporto di Erbil e diretta al loro dispositivo militare in Siria.

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