ECONOMIA, Italia. “Apocalypse now?”, come il sistema paese potrebbe divenire prigioniero dei mercati finanziari

Ancora prima del declassamento a opera delle agenzie di rating a colpire sarebbero i mercati con lo spread, esponendo così sia lo Stato (che incontrerebbe sempre più difficoltà nella copertura finanziaria della propria spesa) che le banche, che “in pancia” detengono una notevole massa di titoli del debito pubblico nazionale. L’Italia può fallire “allegramente”? Dubbi e aspettative riguardo la politica economica dell’esecutivo attualmente in carica.

Il «rischio paese» è l’elemento che in una fase di rallentamento dell’economia come quella attuale in Europa è in grado di portare alla stagnazione se non addirittura alla recessione. L’Italia dovrà inoltre compensare il buco apertosi nella finanza pubblica a causa del non raggiungimento del tasso di crescita previsto.

La mancanza di fiducia si traduce nella riduzione degli investimenti privati nazionali ed esteri e nel calo dei consumi interni (per altro già non elevati), poiché in questi casi la tendenza diviene quella al risparmio e al non investimento di capitali.

È vero che nel primo trimestre del 2019 (dati Istat) in Italia è stata registrata una moderata crescita, che ha segnato il termine della breve fase di recessione attraversata nei due trimestri precedenti dal Paese, tuttavia, la domanda interna ha contribuito in maniera negativa.

Ma, se i motori della crescita economica di un paese sono i consumi interni nel breve termine e gli investimenti nel lungo, a meno di cambiamenti radicali della situazione, le prospettive non sono certo ottimistiche.

Per il momento tutto è sospeso nel limbo dell’attesa dello svolgimento delle prossime elezioni europee, però dopo il voto ci si dovranno attendere forti pressioni esercitate sul governo Conte al fine di indurlo a una revisione della sua spesa.

Dubbi e aspettative si addensano sulla futura azione dell’esecutivo giallo-verde nel campo della politica economica.

E qui, l’andamento del debito rappresenta un fattore chiave nel rapporto tra Roma e Bruxelles, insieme al rapporto deficit/pil, che sulla base dei calcoli effettuati dalla Commissione europea si attesterebbe ben oltre il 3% (al 3,5%), cifra che non tiene però conto del possibile aumento dell’Iva, imposta che se maggiorata dal governo manterrebbe lo sforamento del deficit entro i margini del parametro europeo. Il dilemma a questo si porrebbe nei termini di un aumento o meno dell’Iva. Ma, anche qui: quanto sarebbe recessivo e quanto inciderebbe sul tasso di inflazione un aumento dell’Iva? Provocherebbe una fiammata inflattiva una tantum dell’1%, quindi tutto sommato tollerabile, oppure avrebbe effetti maggiori?

Una ipotesi soluzione al problema potrebbe essere quella di un intervento graduale sulle clausole di salvaguardia sull’iva (nell’anno 2020 di un valore pari a 23,5 miliardi di euro) coprendone solo una parte, ad esempio per soli 15 miliardi.

In ogni caso viene ritenuta praticamente impossibile l’effettuazione di una manovra in bilancio per aggiustare nel breve termine i conti pubblici senza intaccare la crescita economica del Paese.

Infatti, le previsioni di crescita economica del governo si attestano allo 0,2% per l’anno in corso e allo 0,7% per il prossimo, cifre riviste leggermente al ribasso da Moscovici, che ha parlato di una forbice tra lo zero e lo 0,1%, un dato che, però, diverrebbe negativo qualora scattassero per intero le clausole di salvaguardia, che farebbero regredire a -0,1 e -0,2 per cento

Ma, se nel caso del deficit al Governo Conte residuano dei minimi margini di negoziazione con la Commissione europea, in quello del debito pubblico le cose invece si complicano. Infatti, esso è già oltre il 133% del prodotto interno lordo (pil) e le prospettive di politica economica del governo sul breve termine parrebbero indicarne un’ulteriore incremento. Nel periodo 2018-2020 previsto in crescita di tre punti percentuali di pil, cioè grossomodo cinquanta miliardi di euro, un aspetto difficilmente negoziabile ai tavoli di Bruxelles.

La chiave di tutto è l’andamento del debito, del quale si dovrebbe alleviare il peso, ma anche qui gli strumenti non è detto che siano del tutto efficaci, poiché si dovrebbe ricorrere alla (difficile) privatizzazione di una serie di asset pubblici e al contenimento della spesa pubblica.

Ma non è tutto, poiché all’orizzonte vanno profilandosi inquietanti incognite. Alla fine dell’estate, quindi prima del varo della prossima legge di bilancio (legge di stabilità) il governo, qualunque esso sia, potrebbe trovarsi a dover affrontare degli ostacoli quasi insormontabili.

Incombono infatti sul Paese elevati rischi di crisi finanziaria derivanti dall’elevata portata della manovra correttiva che ci si attende, stimata in 35-40 miliardi di euro, questo al netto di ulteriori impegni di spesa per propagandate flat tax e per investimenti pubblici.

La conseguenza di un intervento di politica economica lontano da questa dimensione provocherebbe con ogni probabilità la sfiducia dei mercati finanziari che, conseguentemente, incrementerebbe lo spread (differenziale del tasso di interesse applicato ai titoli del debito pubblico italiano rispetto a quelli tedeschi) a un livello ora non definibile.

Il governo verrebbe quindi costretto a mutare atteggiamento e linea politica, un esperienza per altro già vissuta lo scorso anno quando, giunto a 350 punti lo spread, Palazzo Chigi «cambiò rotta». Ma quest’anno cambiare rotta sarà ancora più difficile, poiché la dimensione dell’aggiustamento è raddoppiata rispetto a quella del 2018.

Una crisi finanziaria che oggi verrebbe aggravata da una pronuncia negativa delle tre maggiori agenzie di rating mondiali, che per il momento hanno mantenuto i titoli obbligazionari dello Stato italiano due livelli sopra i junk bond (titoli “spazzatura”).

Si tratta di un aspetto forse non del tutto chiaro all’opinione pubblica, poiché per regola statutaria i fondi di investimento non possono detenere in portafoglio titoli del genere, con la conseguenza che lo Stato non soltanto non riuscirebbe più a collocare i titoli del proprio debito pubblico sul mercato, ma anche che i fondi di investimento si vedrebbero costretti a disfarsi rapidamente di quelli che hanno in “in pancia”.

E chi è che attualmente detiene buona parte di questi titoli? Le banche italiane, che inoltre non potrebbero più utilizzarli come “collaterale” per ottenere prestiti dalla Banca centrale europea e, quindi, non sarebbero più nelle condizioni di erogare crediti alla loro clientela con evidenti ulteriori effetti sull’economia del Paese. Un punto di non ritorno verso la bancarotta.

Una dinamica avviata non dalle decisioni della Commissione europea, ma dai mercati finanziari, dagli investitori.

Ma attenzione: anche se il rating venisse abbassato di un solo livello i fondi di investimento non attenderebbero che i titoli italiani precipitassero definitivamente a quello inferiore di junk bond, perché cercherebbero immediatamente di ridurre il danno vendendo in massa quelli ancora detenuti. Una dinamica che, inevitabilmente, velocizzerebbe la crisi, vanificando così ogni eventuale tentativo posto in essere dalla politica di guadagnare tempo.

A Palazzo Chigi l’Avvocato del Popolo e i «due Aiace» suoi “vice” lasceranno fallire “allegramente” l’Italia oppure prenderanno opportuni provvedimenti in tempo? Questa è la politica, con Mattarella che potrebbe trovarsi a non avere più alternative. Ma a quel punto quali drastiche decisioni potrà prendere?

Condividi: