AFRICA, Ruanda. 1994, venticinque anni fa il genocidio

Tra politiche neocoloniali e fallimenti dell’Onu, mentre l’Occidente era “distratto” dai conflitti in quel momento in atto nella ex-Jugoslavia, nel piccolo Paese della regione dei Grandi Laghi si consumò il genocidio di maggiori dimensioni del continente mai perpetrato per mano di africani a danno di altri africani. Tutto ebbe inizio il 6 aprile del 1994, poi, nello spazio di tre mesi, quasi un milione di persone di etnia tutsi vennero massacrati dagli estremisti hutu.

 

Quello ruandese venne definito un «genocidio di prossimità», poiché i carnefici mentre uccidevano le loro vittime dovevano guardarle negli occhi. In questa pratica si distinsero per crudeltà i famigerati miliziani appartenenti ai gruppi Interahamwe e Impuzamugambi, entrambi di etnia hutu, i primi riconducibili al Mouvement Républican National pour la Démocratie et le Développment (MRND), mentre i secondi alla Coalition pour la Défense del la Republique (CRD), movimento politico radicale che costituì una sua propria milizia nel 1992. Esse agirono sia nella capitale, Kigali, che in quasi tutto il resto del territorio ruandese, avvalendosi del sostegno – nelle forme dell’addestramento e dell’equipaggiamento – fornito dall’esercito governativo del Ruanda (RGF), che nelle sue unità inquadrava principalmente personale di etnia hutu, con il capo della Guardia presidenziale, il presidente Juvénal Habyarimana, che assunse il ruolo di loro guida.

 

Le milizie hutu si macchiarono dei più orrendi massacri, al punto da compiere stragi di civili tutsi anche all’interno delle chiese dove illusoriamente pensarono di avere trovato rifugio. Sia hutu che tutsi sono cristiani cattolici, come accade in certe zone dell’Africa un culto non infrequentemente venato da influssi tradizionalisti, tuttavia questo non impedì ai tutsi di sfuggire al loro tragico destino. Infatti, in numerosi casi furono proprio i preti dei luoghi di culto dove si erano nascosti che chiamarono i miliziani della loro etnia consegnando nelle loro mani i poveretti. Dopo i massacri, nel luglio 1994, a seguito della perdita del controllo della capitale Kigali e pressati dall’offensiva delle forze nemiche del Rwandese Patriotic Front (RPF), molti miliziani appartenenti alle due organizzazioni hutu si videro costretti alla fuga assieme ai loro capi oltre i confini del Paese, nel territorio della Repubblica Democratica del Congo. Con loro scappò anche buona parte della popolazione ruandese di etnia hutu, esodo che contribuì con effetti devastanti alla destabilizzazione dell’intera regione.

 

Le etnie hutu e tutsi. Le due etnie rivali avevano vissuto insieme nelle zone collinari extraurbane del Ruanda, entrambi i loro appartenenti parlano la medesima lingua e si rifanno sostanzialmente alle stesse tradizioni culturali e religiose, con una differenziazione soltanto sul piano della mera divisione del lavoro, in quanto buona parte di un’etnia era dedita ad attività agricole, l’altra all’allevamento del bestiame. Una differenza, però, in seguito scientemente esasperata dai colonizzatori belgi, che marcarono l’appartenenza etnica dei due gruppi con il preciso obiettivo di accentuare le divisioni all’interno della colonia onde controllarla meglio. Fu così che ai tutsi venne attribuita una presunta origine nilotica dal carattere asseritamente autoritario e prevaricatore, dunque – sulla base di tale narrazione – tendente al dominio sull’altra (gli hutu). Una spaccatura indotta che, però, al momento propizio si trasformò poi in tragedia, portando al compimento di atrocità che superarono ogni limite, emblematizzate dal Lago Kiwu, la cui superficie venne completamente ricoperta dai cadaveri galleggianti di tutsi e dei pochi hutu moderati che erano stati assassinati dagli appartenenti alla loro stessa etnia.

 

Dinamica della tragedia. Come si giunse all’escalation? In realtà, in Ruanda le formazioni della guerriglia tutsi erano organizzate e attive fin dal 1990, quando sferrarono un primo attacco alla capitale. Nel 1994 la tragedia dei Gradi Laghi colse tutti nel bel pieno della fase del nuovo ordine mondiale, nell’ambito del quale l’umanità del dopo-guerra fredda si sarebbe dovuta spartire i cosiddetti «dividendi della pace». Tuttavia, se “nuovo” fu l’ordine mondiale, permase però “vecchio” l’approccio della comunità internazionale a crisi del genere.

 

Gli Accordi di Arusha previdero la condivisione del potere tra le due etnie del Paese e la fusione dei due eserciti fino a quel momento contrapposti. Alla guida di un esecutivo di transizione venne posto una hutu di orientamento moderato del Movimento Democratico Repubblicano, Agathe Huwilingiymana. Il mandato di questo governo era chiaro: condurre e parti in conflitto, e assieme a loro il Ruanda, a una riconciliazione nazionale. Il 7 aprile, primo giorno di guerra, la premier venne assassinata, il giorno precedente era toccato al presidente Habyarimana, deceduto a insieme al presidente del Burundi Cyprien Ntaryamire, mentre con lui si trovava a bordo del suo aereo presidenziale abbattuto dai ribelli.

 

I detrattori dell’Accordo parlarono di «inevitabilità dell’escalation delle violenze», causata a loro dire da un intrinseco squilibrio provocato dalle clausole stipulate in Tanzania, ritenute svantaggiose per il governo centrale e per l’etnia hutu. Ma ad alimentare il conflitto contribuirono anche fattori esogeni, come la politica africana perseguita dal presidente francese Françoise Mitterrand, che inviò nella regione dei un contingente militare. La Francia svolse un ruolo primario in Ruanda, l’Operazione Turquoise, il cui scopo dichiarato ufficialmente fu quello di proteggere i civili, quando nella realtà dei fattisi trattò di uno strumento di sostegno fornito agli hutu al potere a Kigali. Quegli stessi personaggi che di fronte all’avanzata dei tutsi sulla capitale abbandonarono il Paese grazie all’aiuto dei paras, rifugiandosi in seguito a Parigi oltreché in altri paesi africani.

 

Il fallimento dell’Onu. Il segretario generale aggiunto delle Nazioni unite per le operazioni di pace, Kofi Annan, al riguardo ebbe a dire che quello ruandese aveva rappresentato «uno dei più grandi e tragici fallimenti dell’Onu».

 

Il 5 ottobre 1993 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò la Risoluzione 872, che autorizzava la missione dei caschi blu in Ruanda, l’UNAMIR, affidata a un contingente formato da oltre 2.500 militari in massima parte belgi, cioè della vecchia potenza coloniale. Essi ebbero il compito di garantire il rispetto degli accordi di pace precedentemente stipulati ad Arusha, in Tanzania, che erano stati faticosamente raggiunti dalle parti in lotta. Però non intervennero interponendosi tra hutu e tutsi al fine di evitare i massacri, motivando formalmente questa loro grave omissione con le regole di ingaggio assegnate loro in sede internazionale, che non fornivano il mandato per operare militarmente nel Paese africano. Non produsse concreti effetti neppure la successiva missione MINVAR, comandata dall’ufficiale canadese Romeo Dallaire. La guerra civile ruandese si protrasse così per quasi cinque anni, dall’ottobre del 1990 al luglio 1994, e vide l’affermazione del RPF sulle forze governative di Kigali, (queste ultime sostenute dai militari francesi e dallo Zaire) e sulle milizie Interahamwe e Impuzamugambi sue alleate.

 

I caschi blu agirono dunque sulla falsariga delle precedenti operazioni di pace decise al Palazzo di vetro, cioè su quella serie di fallimenti risalente al lontano 1949, quando l’Onu inviò un contingente militare in Palestina allo scopo di interporlo tra i belligeranti locali, lo Stato ebraico da un lato e i Paesi arabi suoi nemici dall’altro. Per parlare di «pace», almeno sulla base dei documenti ufficiali dei trattati, si sarebbero dovuti attendere quasi trentacinque anni, cioè quando – a seguito del totale annichilimento dell’Iraq di Saddam a opera della coalizione militare a guida Usa – a Oslo Yasser Arafat e gli israeliani si sedettero al tavolo negoziale. Ma nel frattempo l’Onu, con le sue missioni di pace, aveva però inanellato una serie di insuccessi: dal Libano alla Somalia, passando per la Bosnia e, da ultimo, in Ruanda.

 

Ogni effetto ha le sue cause, compresa l’incapacità dimostrata dalle Nazioni unite nei frangenti descritti. Tutte cause con un nome e cognome, quindi ben identificabili: gli interessi particolari dei paesi partecipanti alle missioni e, di riflesso, l’assenza di sostanziali interessi in gioco di questi stessi paesi partecipanti; e poi gli interessi nutriti da altri paesi che delle missioni di pace non facevano parte (come nello specifico caso dei francesi in Ruanda) e, infine, la frequente debolezza sul piano militare manifestata dai dispositivi di dissuasione schierati nei teatri di crisi.

 

Si è affermato che «da Ronald Reagan in poi, per interessi loro propri gli Stati Uniti d’America abbiano sempre cercato di frustrare ogni iniziativa intrapresa dalla comunità internazionale, missioni Onu incluse, che non gli aggradasse». Forse risponde a verità, almeno per alcuni presidenti repubblicani succedutisi dopo “Ronnie” alla Casa Bianca. Tuttavia, è pur altrettanto vero che celebrati presidenti, ma stavolta democratici, non esitarono a giocare col fuoco delle “guerre umanitarie” anche per altri e diversi scopi dall’apporto di sollievo all’umanità sotto il giogo del cattivo di turno, financo scopi di natura elettorale interna.

 

Dei crimini di guerra e di quelli commessi contro l’umanità si sarebbe occupato in seguito il Tribunale Criminale Internazionale per il Ruanda.

 

 

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