1999, «Slobo» e gli altri: a vent’anni dall’attacco Nato alla Jugoslavia le amare riflessioni di un cronista corrispondente di guerra.

A venti anni dall’attacco sferrato dalla Nato nella Jugoslavia di Slobodan Milošević un (tutto sommato triste) bilancio di quei giorni di guerra. Oggi, almeno in Italia, la ricorrenza è passata sostanzialmente sotto silenzio. I bombardamenti alleati iniziarono senza che l’Onu si fosse ancora pronunciato al riguardo, quindi praticamente senza un’autorizzazione della comunità internazionale – una condotta divenuta poi prassi negli ultimi anni -, seguita successivamente da una Risoluzione “sanatoria” del Consiglio di Sicurezza. Sicuramente il potere del serbo Milošević tracimò, portando a soluzioni marcatamente etniche dei problemi ex jugoslavi (in quello specifico caso del Kosovo) polarizzando oltre i limiti il contesto politico interno, tuttavia

 

E poi la disinformazione e la propaganda, che la fece da padrona. Con le grandi emittenti satellitari americane a fare da mellevadrici a una guerra della quale il presidente statunitense Bill Clinton, democratico a fine mandato, data la sua posizione, aveva probabilmente bisogno a fini interni e internazionali. Senza parlare dell’illusione realtiva alla guerra tecnologica, propinata dai media fino all’imprinting nelle menti delle opinioni pubbliche occidentali: la «guerra a zero morti», con quasi nessun danno collaterale. Per le società occidentali moderne in caso di conflitto il tempo costituisce una dimensione strategica assolutamente determinante, esso deve essere compresso il più possibile altrimenti – oltre un certo periodo e oltre un certo numero di perdite di vite umane – esso crolla e, conseguentemente, la gente fa venire meno il consenso all’uso della forza nell’ambito di operazioni militari.

 

Ai fini del raggiungimento dei risultati prefissisi dai decisori politici, nelle attuali società della comunicazione – laddove la maggior parte delle cose viene percepita e spesso non compresa – si tratta di  un elemento addirittura più importante della tecnologia sviluppata nei sistemi d’arma. Effetti politici conseguiti dalla potenza tecnica dello strumento militare associato indissolubilmente alla propaganda. Ma non sempre funziona, e la campagna Nato in Jugoslavia ne fu un esempio, infatti, molti degli entusiasmi riguardo all’imperante information warfare e a quella che allora veniva definita la «rivoluzione negli affari militari» si spensero a seguito delle lesson learned nel Kosovo. Già, poiché quella volta la Nato effettuò 40.000 sortite aeree, di queste 18.000 furono di attacco, ma il risultato ottenuto fu la distruzione di diciotto mezzi corazzati dell’esercito e della polizia di Milošević: il terzo Korpus della Vojska jugoslavije si ritrò praticamente intatto.

 

E che dire della cosione interna all’Alleanza? Nel mirino dei Tomahawk americani ci furuno anche obiettivi che cagionarono danni ai sistemi economici di alcuni Paesi membri della Nato, quelli che quella volta non vollero la guerra contro Belgrado. Un copione recitato ancora, si pensi a cosa mirarono alcuni “alleati occidentali” dell’Italia nel corso del decisivo attacco al colonnello libico Muhammar Gheddafi.

 

Remondino racconta quei giorni, dal primo bombardamento su Belgrado agli attacchi “annunciati” alla sede della RTS (Palazzo Chigi lo sapeva in anticipo?), la radiotelevisione serba (nel quale perirono sedici tra tecnici e personale amministrativo), innocenti vittime sacrificali. L’inquinamento e la contaminazione provocati in Serbia dai bombardamenti contro le industrie chimiche situati vicino al fiume Danubio e gli effetti sulle persone dell’uranio impoverito dei penetratori a energia cinetica sparati contro i carri armati jugoslavi dai velivoli A-10 dell’Usaf decollati dalla base di Aviano.

 

I due missili cruise americani contro l’ambasciata della Repubblica popolare cinese a Belgrado che provocò due morti, due giornalisti cinesi. Un regolamento di conti – si afferma – per vecchie pendenze riconducibili allo spionaggio di Pechino ai danni di Washington. Nella registrazione audio la diretta testimonianza di Remondino e l’iniziale incredulità di Saxa Rubra. Fu un segnale inviato dalla Cia a Pechino, un segnale confermato in seguito ufficilamente dalle conferenze stampa del portavoce Nato Jamie Shea.

 

Ovviamente le guerre non scoppiano per caso, esse impongono dei costi elevati che devono venire commisurati alla possibilità di perseguire dei correlati interessi. E così fu anche nel 1999 nei Balcani, dove gli interessi internazionali che sottesero alla disgregazione della Federazione jugoslava erano nutriti da non pochi paesi europei. Si pensi all’estensione del marco quale moneta “effettiva” nella regione, utile al depotenziamento dei locali stati avversari (Serbia in primis) mediante la privazione della loro leva monetaria, e anche alla “grande Germania”, che in quel modo ricevette una salutare boccata di ossigeno nella sua impegnativa fase di riunificazione.

 

Nel quadro dipinto a posteriori la figura del leader serbo si delinea in maniera diversa da come venne proposta dai media in quel periodo, la sua scaltrezza e intelligenza nella gestione delle trattative sul piano propagandistico, in realtà, alla fine si risolse in un disastro, con Belgrado additato come unico responsabile di tutti i mali, a fronte di un Uçk prontamente riabilitato dall’amministrazione americane nel giugno del 1998, fuori dalla lista nera dei terroristi in precedenza stilata da Washington.

 

Le attuali tensioni nei Balcani e le prospettive per il prossimo futuro.

 

Ascolta la registrazione integrale dell’audio ’intervista: A109 – BALCANI, JUGOSLAVIA: A 40 ANNI DALL’ATTACCO NATO, QUALE BILANCIO? Ai microfoni di Radio Omega ENNIO REMONDINO, giornalista, già corrispondente della Rai dai Balcani e attuale autore del blog “REMOCONTRO”; ORA ZERO, trasmissione del 25 marzo 2019.

 

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