ARTICO, geopolitica. Gli interessi dei vari attori regionali stimolati dal progressivo scioglimento dei ghiacci polari.

Presentato a Roma nella sede del SIOI (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale) il volume di Limes 1/2019 “La febbre dell’Artico”; intervenuti, oltre al presidente della SIOI Franco Frattini, anche Federico Petroni (responsabile per la regione artica della rivista di geopolitica Limes), Janne Talaas (ambasciatore della Repubblica di Finlandia) e Margit F. Tveiten (ambasciatore del Regno di Norvegia). (ascolta l’audio integrale della conferenza digitando A092).

L’Artico costituisce una tematica di particolare interesse per la SIOI, in quanto essa – insieme a Unitelma Sapienza e d’intesa col Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare – organizza un master universitario di primo livello in sviluppo sostenibile, geopolitiche delle risorse e studi artici.

Le attenzioni per l’Artico non rappresentano certo una novità, poiché da quando i ghiacci della calotta polare hanno iniziato a sciogliersi sempre di più a causa dell’innalzamento della temperatura terrestre, gli occhi dei vari attori regionali vi si sono appuntati con fissità.

Nuove rotte marittime divengono possibili e, soprattutto, le risorse energetiche (e non solo) del suo sottosuolo sono oggetto del desiderio di grandi e medie potenze le cui coste si affacciano sul mare e della Cina, maggiore investitore negli ultimi anni. Da almeno quindici anni la narrazione ufficiale rende all’opinione pubblica un’immagine tranquilla della situazione attorno al Polo, vengono enfatizzati i rapporti di cooperazione tra i vari Paesi circumpolari e non si manca mai di sottolineare l’importanza dei fora internazionali per la stabilizzazione della regione.

Facendo finta di ignorare che oggi, inverno 2019, la probabilità che nei prossimi mesi la prevista sessione del Consiglio Artico non abbia luogo a causa delle tensioni in atto a livello internazionale. Come se da almeno tre lustri non si registrasse una corsa alla militarizzazione della regione. Una regione militarizzata eccome, seppure appaia comunque difficile l’eventualità che oggi esploda un conflitto per essa.

In ogni caso, tanto per non sbagliare la Nato vi rivolge sempre più le sue attenzioni. E poi non va dimenticata la Cina. Il gigantesco dragone asiatico, quatto quatto, come sempre, attraverso le sue penetrazioni sottili rese irresistibili dagli ingenti investimenti ha infilato una zampa nelle acque gelide frantumando la sottile lastra di ghiaccio superficiale senza però provocare eccessivo clamore.

La Repubblica Popolare in questo senso è estremamente attiva: a lei vanno ricondotti i maggiori volumi di investimenti nell’Artico, anche perché al momento la regione non risulta pienamente regolata, dunque si presenta “aperta” allo sfruttamento, soprattutto nel suo mare aperto; i cinesi si pongono l’obiettivo di guadagnare una posizione preminente che al momento in cui le regole verranno scritte consentirà loro di esercitare una influenza sul quadro che si andrà delineando. Intanto usa la diplomazia, come è avvenuto il 30 ottobre scorso, quando Pechino ha stipulato un accordo in materia di pesca con altri nove paesi. Anche i russi seguono la strada diplomatica.

Putin, come tutti i kaghebesnik che si rispettino, è intelligente e pragmatico, quindi non si imbarcherà mai in avventure azzardate, malgrado sia pressato dall’avanzata della Nato e abbia impegnato le nuove forze armate della Russia su un segmento non indifferente dell’arco di crisi che attualmente infiamma il suo “estero vicino” unitamente a quello che fino a poco tempo fa veniva definito il “Mediterraneo allargato”.

Non è uno scherzo. Nel lasso temporale durato pochi anni è stato completamente stravolto il paradigma precedentemente delineato da Gorbaciov e Kohl quando Bonn trattava con i sovietici in via di implosione la riunificazione tedesca: a fronte di una grande Germania la Nato non si espanderà all’Est. Chiacchiere che il vento si è portato via.

Invece l’espansione della Nato c’è stata eccome, non solo a Est ma anche a Nordest, alimentando le tensioni nella regione artica. Polonia, Georgia, Ucraina, Siria: per Mosca la linea del fronte si è estesa dal Mar Mediterraneo al Baltico, attraversando pericolosamente il Mar Nero. E le tensioni nel Baltico – si pensi alla strategica Penisola di Kola – si riflettono inevitabilmente sull’Artico, ricordando a tutti che una guerra per l’Artico è al momento impensabile, una guerra nell’Artico probabilmente sì.

Comunque, per ora i segnali ufficiali fatti pervenire dai potenziali contendenti sono sempre improntati all’ottimismo, e l’unico vero conflitto registrato è quello tra le dichiarazioni (e alcuni importanti atti, come il trattato sulla pesca del merluzzo e le materie prime raggiunto da Mosca e Oslo dopo quaranta anni di trattative) e la graduale e progressiva militarizzazione della regione.

In Artico tutti lottano contro tutti per accaparrarsi le risorse (le riserve di idrocarburi stimate sarebbero gigantesche) e questo favorisce un tipo di narrazione che va nel senso opposto a quello della prevalenza dello spirito di cooperazione. In effetti, nella regione vige uno stato di complessivo equilibrio e finché esso non subirà sostanziali alterazioni non si dovrebbe pervenire a conflitti aperti.

Eppure da tempo si levano voci relative a una militarizzazione spinta, un’escalation che contrapporrebbe Usa e Russia, con il corollario di fenomeni inquietanti quali la cessazione della neutralità della Svezia e della Finlandia, con Mosca che vede ormai del tutto consolidato il suo status di “nemica” dell’Occidente.

Oggi alla Casa Bianca c’è Donald Trump, non più Obama, e l’atteggiamento nei confronti del grande avversario dei tempi della guerra fredda è mutato nei termini, anche perché nel frattempo il Cremlino, nonostante le sanzioni, ha riguadagnato relativi spazi di manovra, imponendosi come ineludibile interlocutore nel Medio Oriente. Quale era dunque il rischio di allora – accentuato da vampate di crisi come quella georgiana del 2008 – e quale è quello di adesso? Se non si placherà il fenomeno del riscaldamento terrestre, il mutamento climatico a esso associato accentuerà il processo di arretramento dei ghiacci artici. L’ulteriore effetto conseguente potrà essere la ricerca di sovranità da parte degli stati circumpolari (ma non solo), che andrebbe così ad aggiungersi ai vari contenziosi aperti. La marina militare russa si affrancherà poi dagli attuali limiti fisici che gli impongono rotte attraverso passaggi obbligati, un accresciuto potenziale che potrebbe ingenerare negli strateghi di Mosca delle prospettive di dominio navale allorquando potranno disporre di una flotta davvero adeguata a tale progetto.

La liberazione dai ghiacci di parte della Groenlandia attribuirà maggiore importanza alla Danimarca in seno all’Unione europea, gravandola però al tempo stesso del complesso dei pesanti oneri e delle problematiche derivanti dall’accrescimento delle proprie competenze. Come reagiranno Canada e Usa di fronte ai cambiamenti? Manterranno saldi i reciproci rapporti oppure entreranno in attrito a causa della rivendicata sovranità sulle acque del noto Passaggio a Nord-Ovest (che pone in relazione Atlantico e Pacifico) e per lo stato giuridico delle isole artiche canadesi attraversate dalle navi statunitensi?

Non va poi dimenticato che l’Artico un luogo di fondamentale importanza per gli americani, in quanto il suo cielo viene costellato dalle traiettorie dei vettori balistici di Mosca, che se lanciati dalla Russia sorvolerebbero la superficie marina. Per questo l’Alaska è stata riempita di batterie missilistiche anti-missile balistico poste a difesa del territorio Usa. La stessa Alaska (e il Canada) consentono poi la proiezione dello strumento aeronavale di Washington nell’Artico, cioè nella zona di contatto diretto con la Russia, laddove, in ragione dei loro concetti strategici, gli americani tendono a limitare la sovranità di Mosca nell’area del Passaggio a Nord-Est.

In Groenlandia si trova la Thule Air Base, un’installazione militare dove sono stanziate alcune unità dell’aeronautica, delle quali una è collegata alla rete NORAD preposta alla tempestiva scoperta di eventuali lanci di missili balistici nemici contro il territorio americano, e un’altra, invece, costituisce un elemento fondamentale delle rete satellitare globale Usa. Thule lega quindi in modo indissolubile sui piani sia militare che politico Washington a Copenaghen.

Nel maggio 2009, il Dansk Institut for Militære Studier pubblicò lo studio particolareggiato “Quattro scenari per le Forze armate danesi in Groenlandia nel 2030”. Dalle proiezioni in esso contenute emerse che l’isola costituiva il perno sul quale si articolava la politica artica danese, un aspetto fondamentale nella pianificazione in materia di difesa e sicurezza di quel Paese.

La Groenlandia – esclusa la sua zona economica esclusiva, che comprende il tratto di mare nelle 200 miglia nautiche a partire dalla costa – si estende per 2.166.086 chilometri quadrati. Il suo territorio è ricoperto per l’80% dai ghiacci, mentre il rimanente è popolato da poche decine di migliaia di abitanti. Essa basa la propria economia quasi esclusivamente sulla pesca, sull’industria petrolifera e sui fondi erogati dal lontano governo centrale. Tuttavia, l’incremento delle attività umane previsto tra gli effetti dello scioglimento dei ghiacci (alcune stime lo indicano al 50% della superficie totale) muterà certamente la sua valenza nel quadro regionale.

Un futuro che per lo strumento difensivo danese comporterà una maggiore focalizzazione su questa vasta area, oltreché sulle isole Faer Oer, con la contestuale presa in carico di funzioni che, in situazioni diverse, ricadrebbero nell’ambito delle competenze civili. Dei quattro scenari elaborati per l’anno 2030 dagli analisti del DIMS soltanto due, entrambi in ogni caso ritenuti altamente improbabili, contemplavano una militarizzazione regionale spinta. La Norvegia. Il 1º agosto 2009 Oslo spostava il suo comando operativo (qualcosa di simile al COI italiano) da Stavanger a Reitan, presso Bodø, cioè più a settentrione.

Il Nord è un’area di interesse strategico per il Paese scandinavo, però questa focalizzazione delle attenzioni sull’Artico fece pensare a possibili timori reconditi nutriti dai norvegesi per la situazione in evoluzione, con i possibili risvolti negativi dell’avanzata economica e militare russa. Ovviamente, da Oslo diplomatici e militari chiarirono subito il concetto, assicurando che porre l’accento su una militarizzazione dell’Artico evocando i fantasmi del confronto con Mosca sarebbe stato un approccio errato alla comprensione del problema, poiché «era oltremodo evidente che tale spostamento rispondeva niente altro che a esigenze di razionalizzazione».

La creazione di un nuovo centro di comando «in una zona della Norvegia più centrale che settentrionale» avrebbe avuto il positivo effetto di incrementarne l’efficacia propria riducendo al contempo le esigenze di personale. Per la Norvegia rimangono aperte alcune non indifferenti controversie con la Russia, tuttavia Oslo ha sempre cercato soluzioni compromissorie con la controparte, coronate anche da successi, come quello sopra citato sulla pesca e lo sfruttamento comune degli idrocarburi.

Va inoltre ricordato che nel Mare di Barents tra i soggetti portatori di interessi figura anche l’Eni, che collabora sia con i norvegesi (dal 1964) che con i russi. L’Italia nell’Artico riveste oggi il ruolo di paese “osservatore”, lo è divenuta a seguito del Vertice ministeriale di Trømso. L’Artico è un luogo di ineteresse e di attività di due suoi campioni nazionali, L’Eni, appunto, e l’Enel. Una cooperazione circumpolare sena la partecipazione della Russia risulterebbe scarsamente significativa.

Oggi non è sul piano strettamente militare che va misurato l’espansionismo del Cremlino, seppure il suo strumento difensivo abbia da tempo superato la condizione di degrado in cui versava negli anni Novanta. Il riscontro di ciò si è avuto in Georgia, Crimea e Siria, ma in ogni caso non ha le risorse né economiche né tecnologiche che lo pongano in grado di ingaggiare la Nato in un conflitto aperto. Neppure a ridosso delle sue gelide coste artiche. Quando Putin e i suoi siloviki intraprendono una politica di potenza lo fanno con accortezza, ed esclusivamente su quei terreni che possono offrirgli vantaggi competitivi, come quelli energetico e, a seconda dei casi, militare.

La Russia rimane un paese uscito da una situazione di crisi e, dunque, i suoi cittadini sono alla ricerca di sufficienti livelli di normalità e di sicurezza. Il fatto che essi abbiano riacquistato fiducia in sé stessi non dovrebbe allarmare eccessivamente in Occidente, poiché indice e misura al tempo stesso di una potenza divenuta regionale che sì, forse aspira a tornare all’esercizio di un’influenza globale, ma che non potrebbe tirare troppo la corda. Infatti, il coinvolgimento in una perversa corsa al riarmo per Mosca sarebbe insostenibile, e da essa avrebbe soltanto da rimetterci. Riguardo all’Artico restano in agenda le tematiche sensibili sulle quali i protagonisti della politica internazionale dovranno cooperare.

I problemi non sono di poco conto: lo sfruttamento intensivo delle risorse locali pongono a rischio la calotta polare e il permafrost, permangono la spada di Damocle dell’innalzamento della temperatura terrestre e l’incertezza sia sulla concreta applicazione dell’Accordo di Parigi, sia sul perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’Onu nell’Agenda 2020; infine permangono le potenziali tensioni indotte dal perseguimento dei loro interessi da parte dei vari attori locali, tensioni che comunque tutti affermano di voler mantenere basse.

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