AMBIENTE, rifiuti. Roma e i termovalorizzatori: abbattere il tabù dell’incenerimento

Il «no» agli inceneritori porta a situazioni gravi come quella romana, dove l’emergenza rifiuti non ha mai fine. Per superare questo stallo, l’autore (esperto di politiche ambientali e regolazione dei servizi pubblici) nei giorni scorsi ha lanciato una proposta accattivante: un concorso di idee per il termovalorizzatore in città, non per sciare come a Copenaghen, ma per recuperare il decoro e la qualità ambientale della città e, allo stesso tempo, realizzare le nuove terme romane, quasi duemila anni dopo quelle di Caracalla

“Fàmolo co’ le Terme” è l’articolo di Antonio Massarutto, pubblicato il 15 dicembre 2021 su “l’Astrolabio”, newsletter degli Amici della Terra (http://astrolabio.amicidellaterra.it/node/2545) (*) Il no agli inceneritori porta a situazioni gravi come quella di Roma dove l’emergenza rifiuti non ha fine. Per superare il tabù, l’autore, esperto di politiche ambientali e regolazione dei servizi pubblici ha lanciato nei giorni scorsi, dalle colonne de lavoce.info, una proposta fantastica e accattivante: un concorso di idee per il termovalorizzatore in città, non per sciare come a Copenhagen, ma per recuperare il decoro e la qualità ambientale della città e, allo stesso tempo, realizzare le nuove Terme romane, quasi duemila anni dopo quelle di Caracalla.

NO AGLI INCENERITORI E SOLUZIONI CREATIVE

Gli inceneritori non si possono più bollare come «macchine di morte», se mai lo sono stati, oggi con tutta evidenza non lo sono più. Così la variopinta famiglia dei no-inc ha trovato l’argomento definitivo per continuare ad avversarli. La combustione dei rifiuti per produrre energia e calore non sarebbe proponibile come soluzione per gestire i rifiuti non riciclabili in quanto si tratterebbe di «una soluzione del secolo scorso». Nel nuovo secolo, invece, grazie all’economia circolare, ai nuovi materiali, alle raccolte differenziate iperselettive, alla messa al bando della plastica monouso, sarà possibile spingere il riciclo fino a sfiorare il 100 per cento. Dunque, non ha senso realizzare impianti che, quando saranno operativi, potrebbero non servire più a niente.

Con sofismi del genere, giunte regionali di ogni colore (in testa il Lazio di Nicola Zingaretti) hanno espunto gli impianti dai loro piani di gestione. In Toscana, in luogo dell’impianto di Firenze il cui progetto si è impantanato al Consiglio di Stato per qualche vizio di forma nell’iter autorizzativo, si è arrivati a prospettare un accordo con l’Eni per destinare gli scarti di mezza regione a una non precisata tecnologia che trasformerebbe quelli non riciclabili in idrocarburi utilizzabili nei normali processi di combustione, che non mi risulta sia stata mai testata su scala industriale.

Ora, si potrebbe obiettare che la ruota è una soluzione inventata qualche millennio or sono, ma non per questo smettiamo di utilizzarla, visto che le alternative per ridurre l’attrito (levitazione magnetica, cuscino d’aria) sono ancora poco pratiche e troppo costose e il teletrasporto, per il momento, è applicato solo nei film di fantascienza.

Ma più che le battute, contano i fatti. E i fatti ci dicono che l’illusione di far sparire i rifiuti con le raccolte differenziate nasconde il solito trucco di trasformare quelli urbani in rifiuti speciali, scaricando a valle sulle imprese del riciclo l’onere di smaltire gli scarti, che sono tanto maggiori quanto peggiore è la qualità del materiale raccolto. Cosa che in genere si verifica quando si inseguono livelli di raccolta differenziata più spinti. Non fosse altro perché nella differenziata ci finiranno anche tutti quei materiali misti (polimeri non riciclabili, poliaccoppiati) che allo stato attuale riciclabili non sono.

I VIRTUOSI DELLA DIFFERENZIATA

Troppo spesso si celebrano i successi dei modelli di gestione “ricicloni”, come quello del Veneto orientale, contrapponendoli a quelli che fanno uso di impianti di incenerimento. Ma si dimentica di osservare che le raccolte differenziate super-spinte generano, a valle, scarti molto maggiori, sui quali però è molto difficile avere dati affidabili perché confluiscono agli impianti insieme a molte altre frazioni più pulite. Anche Ispra non aiuta, fornendo un sacco di numeri, ma non quelli che servirebbero. A ogni modo, a saperli leggere, i dati forniscono almeno qualche indizio.

Per esempio, stando al bilancio di sostenibilità di Contarina (Treviso), il rifiuto secco riciclabile che si origina dalla raccolta differenziata (qui si sfiora il 90%, un record mondiale praticamente) viene gestito per metà in impianti propri e per la parte rimanente in impianti di terzi. Per il flusso trattato “in casa” viene riportato il bilancio di massa, secondo il quale il 30% circa è costituito da scarti. Nulla si dice dei flussi che sono trattati in impianti di terzi. Se ipotizziamo che la frazione di impurità sia la stessa, se ne deduce che il riciclo vero, nel migliore dei casi, può raggiungere il 60-70 per cento. D’altronde, i traguardi fissati dall’Ue per il 2035 prevedono un 65% di riciclo e un flusso a discarica non superiore al 10% (nel quale devono trovare posto tutti i sottoprodotti dello smaltimento). Tutto questo accade a Treviso, in un territorio che consente anche nel centro storico una raccolta selettiva e capillare: cosa che risulta ben difficile immaginare in una grande metropoli come Roma.

Dal canto loro, le tecnologie per ricavare dagli scarti non riciclabili combustibili alternativi, siano idrogeno, gas metano o altro, sono ancora troppo lontane dalla fattibilità industriale su larga scala e hanno costi tuttora in larga misura ignoti, senza contare gli scarti a valle che andrebbero comunque gestiti.

Il fatto che questi scarti non riciclabili cessino di essere un problema per il gestore (che quindi può fare a meno di impianti di termovalorizzazione propri) non significa che cessino di essere un problema per il Paese. Gli operatori del settore lamentano da tempo la cronica carenza di impianti adeguati a chiudere il ciclo, in mancanza dei quali questi rifiuti sono destinati a prendere la strada dell’esportazione, con i risultati ben evidenziati anche su queste colonne.

L’EMERGENZA ROMA

Ma se almeno nel campo degli impianti per il trattamento dell’umido qualcosa sembra muoversi, sull’altro fronte, «inceneritore» resta una parola tabù. Persino dove la situazione è drammatica, come a Roma. Sono sufficienti due numeri in croce per capire che senza un impianto come si deve la Capitale non potrà mai sfuggire alla morsa dell’emergenza. Neanche l’ormai ex amministratore unico di Ama, Stefano Zaghis, pur nominato dalla giunta più no-inc che si possa immaginare, non ne aveva fatto mistero, ottenendo in risposta il gelo (questo era del resto l’unico argomento su cui Nicola Zingaretti e Virginia Raggi si trovassero d’accordo). Tutto ciò era peraltro chiaro quando ancora c’era la discarica di Malagrotta di Manlio Cerroni, ma le amministrazioni che si sono succedute hanno preferito tirare a campare fino a fine mandato, pur di non dover pronunciare la “parola proibita”.

E fu così che Roma si trovò a sperimentare un modello sui generis di economia circolare: si trasformano i rifiuti in sterco animale, materiale che, essendo cinghiali e gabbiani bestie selvatiche, non è neppure classificato come rifiuto, permettendo una singolare forma di «end of waste». In pratica, come si faceva nel Medioevo, quando i rifiuti venivano abbandonati per le strade, e a farli sparire provvedevano maiali e capre.

Invece delle «soluzioni del secolo passato», evidentemente, si preferiscono quelle del millennio passato. Ma niente paura: per salvare la Capitale dallo sconcio dell’emergenza rifiuti, si sta profilando all’orizzonte la soluzione dei tempi nuovi, una bella discarica. Si tratta solo di decidere dove farla, ma non dubito che sarà solo questione di tempo. Durerà quel che durerà – lo spazio di una legislatura o magari anche due, se la faranno abbastanza grande, e se si potrà contare su qualche benedetta proroga. Chi spera però che, terminata la vita utile della nuova Malagrotta, magari con l’intercessione di Padre Pio, l’economia circolare avrà finalmente spiccato il volo, potrebbe andare incontro a brutte sorprese. E non saranno i programmati biodigestori – peraltro indispensabili – a chiudere la partita.

Mentre auguro al neo-sindaco Roberto Gualtieri buon lavoro e buona fortuna (ne ha bisogno) mi permetto un suggerimento.

Da quasi duemila anni, Roma non ha uno stabilimento termale degno di questo nome. Le ultime terme sono state quelle di Caracalla, da tempo in disuso. Se a Copenaghen sull’inceneritore si scia, perché non immaginare a Roma un grande parco acquatico con piscine giganti, laghi artificiali riscaldati, hammam e saune, impianti sportivi e palestre, magari in un bel parco tematico dedicato alla ricostruzione in real life del mondo degli antichi romani? Dove il turista possa trascorrere qualche giorno vestito in toga, incontrare Cicerone e Muzio Scevola, cenare sdraiato sul triclinio, assistere a spettacoli (finti) di gladiatori e andare, appunto, alle terme?

Il tutto alimentato da un impianto moderno, che sfrutti le migliori tecnologie, cattura del CO₂ compresa? Per l’impianto si potrebbe spendere il nome di Vesta, antica dea del focolare domestico. Si parta con un bel concorso di idee, non dubito che le archistar internazionali faranno la fila per presentarsi.

(*) professore associato di Economia applicata presso l’Università di Udine e fellow di centri di ricerca quali GREEN (Università Bocconi) e SEEDS (interuniversitario)

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