NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (7)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

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   Gentili telespettatori, una buona domenica dalla redazione di “Buongiorno Regione”. Iniziamo subito col comunicarvi le informazioni sulla viabilità in Friuli Venezia Giulia. Una sola segnalazione per il momento e riguarda la A-28 Portogruaro-Conegliano: causa lavori, viene registrato un restringimento di entrambe le carreggiate di marcia tra Fontanafredda e Porcìa. Vi ricordiamo inoltre, che alle sette e trenta verrà trasmessa la rassegna stampa locale, cui seguiranno il meteo e le news. Buona visione!

A quell’ora del mattino il televisore era già acceso, ma proprio mentre annunciarono la trasmissione del bollettino meteorologico il caffè, sbuffando microscopici lapilli neri e schiumosi, fuoriuscì dalla moka sul fornello acceso a fiamma bassa. Contrariato, Livio imprecò contro tutti i santi del martirologio. Sua moglie Delia, sentitolo dalla camera da letto lo rimproverò.

«Se hai voglia di bestemmiare vallo a fare all’osteria con quegli ubriaconi degli amici tuoi, ma non farlo in casa mia: chiaro!?!»

I rimbrotti della Delia non avevano mai sortito effetti concreti sul comportamento del marito, infatti, quello dei Deganutti era il classico teatrino familiare nel quale i coniugi si calavano nelle parti in commedia: la mogliettina brava casalinga e un po’ oca giuliva, il marito burbero e assolutamente refrattario alle buone maniere.

Livio si era svegliato presto allo scopo di guardare alla televisione che tempo avrebbe fatto durante la giornata, poiché temeva che la pioggia potesse rovinare la gara e il pranzo previsti al bacino artificiale Tramont. Fortunatamente le previsioni trasmesse dall’emittente locale lo incoraggiarono, dato che la piacente signorina del “meteo” informò che ci sarebbe stato bel tempo. Sullo schermo il Friuli era sovrastato da palle di colore giallo, mentre le nuvole più vicine si trovavano sulla Dalmazia, dunque abbastanza lontane, seppure il loro colore nerastro finì egualmente per inquietarlo.

«Putanazza de trojs, nuvole sulla Dalmazia! La bora nasce a Fiume, cresce a Trieste e muore a Venezia …stai a vedere che a mezzodì la bufera arriva pure qua da noi». Il terrore di Livio era quello che le gelide folate di vento slavo portassero la pioggia anche in Friuli, rovinandogli così quel giorno di festa.

Intanto, nel centro storico di Spilimbergo gli Alpini erano già per la strada. Stava iniziando il loro raduno e qualcuno brindava col merlot in netto anticipo sul tradizionale orario dell’aperitivo.

«Alta la penna fradelis!». Alle consuete frasi di saluto dei “veci” si sovrappose la musica di un’orchestrina e in breve il motivo suonato venne accompagnato da un coro improvvisato.

O ce biel, o ce biel cis’ cjel a Udin…

O ce biel, o ce biel cis’ cjel a Udin…

Ooo, ce biel cis’ cjel a Udin, o ce biele zoventût…

All’altezza di Piazza Garibaldi, un alpino più intraprendente degli altri aveva parcheggiato il suo “trabiccolo” in mezzo alla strada. Uno di quegli strani e buffi veicoli che immancabilmente presenziano ai raduni e che tanto fanno indignare i dirigenti dell’Associazione d’Arma. Si trattava di una vecchia Fiat 600 Multipla modificata mediante il taglio della capote, che era stata sostituita da un grosso cappello alpino fatto con la latta; all’autovettura erano state asportate le portiere e sul suo frontale, sopra la mascherina, tra i due fari sporgenti come bulbi oculari di un pesciolino un po’ scemo, c’era scritto con la vernice gialla in friulano il motto dell’Artiglieria da montagna Tas e tire!, «Taci e tira!».

Uscito nel frattempo di casa assieme alla moglie, Livio Deganutti venne costretto da quest’ultima a farsi una “vasca” in Corso Roma. Per nessuna ragione la donna si sarebbe sottratta alla sua passeggiata domenicale in centro e lui aveva dovuto acconsentire. Però, giunto in viale Mazzini, l’ansia per i possibili contrattempi al bacino Tramont lo inchiodò sotto i portici. Delia, che lo precedeva di qualche passo, lo esortò a sbrigarsi.

«Beh!?! Allora cosa fai, ti pianti lì a guardar le bici?»

Per tutta risposta lui non la degnò neppure di uno sguardo, ma prese il telefonino e compose un numero. All’ennesima sollecitazione della consorte, rispose con un gestaccio sgarbato facendole segno di andare avanti da sola. Ella, dopo aver malamente apostrofato il marito, notata una persona con la quale desiderava a tutti i costi chiacchierare, Delia con nonchalance gli si fece incontro richiamandone l’attenzione con voce suadente.

«Professoooreee!!! Professor Toneatto”!»

La donna raggiunse il crocchio che attorniava il professor Delfo Toneatto, ritenuto uno dei massimi studiosi della marilenghe e teorico della “koinè furlana”, sorta di fusione armonizzata delle varie parlate attorno al linguaggio raffinato di San Daniele, Gemona e Tarcento.

Mentre osservava il comportamento civettuolo della moglie da sotto i portici, Livio cominciò a sbuffare, dall’altro capo dell’apparecchio non davano segni di vita. Soltanto al quarto tentativo finalmente qualcuno rispose.

«Prrrontiii, chi parla?»

Per un istante Livio rimase contraddetto dalla voce dell’interlocutore.

«Liut? M questo non è il telefonino di Marsanich? Perché rispondi tu?»

«Cosa vuoi Deganutti – replicò l’altro – guarda che qui stiamo lavorando sai! Tu te ne vai a spassino e noi qua a sgobbare: quand’è che arrivi così ci dai una mano? Ti stiamo aspettando dalle otto e mezza!»

«Sì, sì, sì… hai ragione – disse Deganutti, che trovatosi in difficoltà cercò di giustificarsi –, sai come vanno le cose, quella spaccapalle della moglie ha voluto fare il giretto per Corso Roma. Scolte: lì è tutto a posto… sì?!? Marsanich l’ha presa la carne?»

Fortunatamente al bacino Tramont tutto procedeva secondo il programma: le fiasche del vino le avevano portate, Marsanich era intento a preparare la brace per la griglia e la gente stava disputando la gara di pesca sotto gli attenti sguardi dei giudici del circolo.

Chiusa la comunicazione con Liut, Deganutti si avvicinò al gruppetto che attorniava il professor Toneatto per portar via da lì la moglie e raggiungere al più presto con lei il bacino Tramont, ma le capacità affabulatorie del noto cattedratico avevano fatto presa sulla donna. Nonostante i suoi sessant’anni l’elegante professore esercitava sempre un discreto fascino sulle donne. Ascoltato con estremo interesse dagli astanti, in quel momento si stava producendo in una dotta disquisizione sulla crisi economica e i fondi sovrani arabi e cinesi.

Deganutti accennò un saluto a mezza bocca rivolgendosi all’intero gruppetto di persone, poi cercando di non farsi vedere dagli altri strattonò con forza la moglie. Lei però gli oppose resistenza, una reazione che irretì il marito, inducendolo a strattonarla con forza maggiore.

«Ci perdoni professore – affermò con una forte dose di ipocrisia Livio –, ma oggi purtroppo abbiamo la gara di pesca fuori Spilimbergo e proprio non possiamo trattenerci. Mandi!»

Quando i due coniugi furono sufficientemente lontani il professor Toneatto non poté fare a meno di commentare, lo fece a bassa voce, avendo però certezza di essere ascoltato da tutti i presenti.

«Che persona sgradevole quel Deganutti: è maleducato e invadente».

Quand con notevole ritardo la coppia raggiunse il bacino artificiale Tramont, la gara di pesca, che era iniziata un paio d’ore prima, volgeva ormai al termine. Il bacino era un vascone grande come un campo di calcio che veniva alimentato dalle acque captate dal vicino torrente Meduna per mezzo di un canale industriale. Lì dentro ci sguazzavano le trote iridee, una specie ittica importata dall’America per via della sua facile allevabilità e del suo elevato tasso di accrescimento, molto superiore a quello delle altre due specie di trote presenti nelle acque friulane, la fario e la marmorata.

«Di un po’ Deganutti, ma cosa ci vieni a fare qui a quest’ora che è quasi tutto finito? Fai sempre il precisetto con tutti e poi ti presenti con tre ore di ritardo».

Fu il rimprovero di Denis Ceccutti, che dietro al bancone stava travasando il merlot dalle fiasche da cinque litri alle bottiglie da tre quarti da distribuire ai tavoli. Per stemperare il proprio disagio Deganutti la buttò sulla risata, invitando l’amico a farsi un nero.

«Ma dai, mole dûc e bef un taj…»

Livio e Delia si precipitarono poi al buffet per prendere da mangiare, quindi, portandosi dietro gli spiedini alla brace, si sedettero al tavolo dov’erano gli altri loro amici. Marsanich, fino a quel momento indaffarato alla griglia, si accomodò accanto a loro, mentre poco distante, appollaiato alla meno peggio su di uno sgabello metallico, Liut suonava una polka con la fisarmonica. L’argomento della discussione era la carne e i macabri aspetti relativi alla sua conservazione.

«Altro che frigorifero – disse Ceccutti -, un tempo su in montagna se crepavi d’inverno ti lasciavano di sopra, in soffitta sotto sale, tanto faceva così freddo che il cadavere si conservava lo stesso. Se il villaggio rimaneva isolato per la neve, pensate per esempio su a Chièvolis, dove non c’era nemmeno il camposanto, col ghiaccio in terra non ce la facevano mica a portare giù a valle il morto per metterlo sotto terra, dovevano per forza aspettare il disgelo».

Come al solito, Livio si intromise con invadenza cercando di egemonizzare il gruppo nella discussione.

«Guarda che tra poco di morte qua nel fiume ci ritroviamo le trote! Se l’acqua si scalda ancora un po’ quei mostriciattoli arrivano fino a Tarvisio».

Tornava ad aleggiare minaccioso l’incubo del gambero rosso del Missouri, che risalito il mare da sud aveva raggiunto anche il fiume Tagliamento. Il vorace crostaceo, forte delle sue potenti chele, faceva strage di tutto ciò che incontrava.

«Qui al bacino le trote non ne corrono di rischi, eh Livio!?! – Ironizzò quindi Mulinaris – qua basta che stanno “in corrente” e il primo fesso che arriva le piglia all’amo, così diventa pescatore pure lui!»

L’inaspettata battuta provocatoria, corroborata da qualche bicchiere di troppo, fece infuriare il suscettibile Deganutti, che essendo uno degli organizzatori della gara si sentì al centro della critica. Egli ritenne che Mulinaris volesse ridicolizzare competizioni come quella, fatte con i pesci di allevamento nati e cresciuti in cattività, che col passare delle generazioni avevano perso l’atavico istinto al riconoscimento del pericolo. Ma come spesso accadeva in questi casi esagerò nella reazione.

«Meno male che esistono gli scienziati come te che vengono a insegnarci le cose! Guarda, fa una cosa: la prossima volta la gara organizzala tu, cosi a questi gli facciamo pescare il pesce gatto che sa di fango!»

Offesosi, Deganutti si alzò bruscamente da tavola imponendo alla moglie di seguirlo al buffet. I commensali rimasero sconcertati da quel comportamento eccessivo. Tutti tranne Mulinaris, che espresse il suo disappunto per quel gesto.

«Dove va? Si è offeso? Ma guarda questo… è veramente uno stronzo! Secondo voi si può litigare per una trota?»

«No ti capisis une madone, Sacramento! – lo riprese con severità Ceccutti – Tu non tieni mai la bocca chiusa quando invece dovresti farlo! Che non lo sai che quello è un permaloso?»

Trovatosi in difficoltà, per smorzare la tensione Mulinaris cercò di dirottare il discorso su un argomento diverso e fece riferimento a un altro socio del circolo che però non era presente al bacino.

«Ma oggi non è venuto il Bortolusso?»

«Sì, e quando lo vedi a quello… – replicò sarcastico Marsanich -, che non lo sai? Quando gioca in casa l’Udinese lui è uno del tifo organizzato: ha quasi sessant’anni e ancora va allo stadio a fare casino… poi si lamentano che gli trombano le mogli. Perché lo cerchi? Anche tu vuoi andare in curva con gli Amîs da l’Udinese

«Ma cosa me ne frega a me dell’Udinese – replicò corrucciato l’altro –, da lui avrei voluto farmi dire se sapeva qualcosa riguardo al Nevio. I Carabinieri mi hanno convocato in caserma per interrogarmi, chissà cosa pensano che possa dirgli».

Terminò di masticare il suo boccone di carne, poi, deglutito il bolo, si pulì la bocca con una salvietta di carta bisunta e stropicciata, quindi prese il bicchiere e bevve un sorso di vino. Le sue conclusioni giunsero poco dopo.

«Questi è un pezzo che hanno cominciato a chiamare la gente per fargli domande, stanno sentendo tutti quelli che conoscevano al Nevio».

Le sue osservazioni vennero improvvisamente troncate dalle grida di entusiasmo provenienti dall’ampio spiazzo adiacente il vascone. La radio accesa di una autovettura con le portiere aperte diffuse ad alto volume la voce metallica del cronista in collegamento dallo stadio Friuli di Udine. Un istante prima aveva interrotto il suo collega che seguiva Inter-Juventus da San Siro, la partita di cartello di quella giornata di campionato.

Scusa Milano, qui è Udine: c’è un calcio di rigore assegnato ai padroni di casa. Manterremo la linea finché non verrà battuto. Il risultato al “Friuli” resta ancora a reti inviolate: zero a zero tra Udinese e Fiorentina; ecco, il numero nove bianconero pone la palla sul dischetto. Parte la rincorsa, tiro: rete! Bianconeri in vantaggio! Dodicesimo minuto del primo tempo: Udinese uno Fiorentina zero. A voi di nuovo la linea Milano…

L’Udinese aveva segnato e al goal erano seguite le grida esultanti dei suoi tifosi, soprattutto dei bambini, che approfittando dell’occasione avevano incominciato a correre e a fare trambusto, venendo immancabilmente redarguiti  dalle loro madri, preoccupate che potessero farsi male o, peggio, cadere nelle acque scure del bacino. Altri, per nulla interessati alla partita di calcio, continuarono a sorseggiare grappa e a fumare.

  

XXI

   Fuori il tempo sembrava reggere, ma esauritasi l’animazione della mattinata di festa in città le strade si erano comunque spopolate.

Quella domenica il capitano Cadrella era rimasto in caserma. Gli uffici della Sezione Investigativa erano deserti, c’erano soltanto un vicebrigadiere e un carabiniere comandato di servizio, poiché il resto dei militari era via oppure di riposo.

Zincone e Toffanin si trovavano presso la Compagnia di Spilimbergo ad ascoltare le testimonianze dei conoscenti della vittima, mentre Borlacco era a casa sua dall’ora di pranzo, reperibile telefonicamente in caso di necessità.

Dopo aver telefonato alla famiglia giù a Corato, Cadrella accese il computer per dare un’occhiata alle pagine Web delle varie agenzie stampa. Tutto fermo – pensò durante un momento di noia più intenso degli altri – chissà che staranno facendo quelli della Mobile.

A un certo punto decise di prendersi una breve pausa per spezzare quella monotonia: ci voleva un caffè. Uscì dalla sua stanza e si aggirò nei corridoi rischiarati soltanto dalla luce del sole. Il finissimo bagliore filtrato attraverso le fessure delle serrande semiabbassate disegnava sulle pareti una teoria di linee che conferivano a quello squallido ambiente un’atmosfera vespertina dai toni pastello, calda e ovattata.

Aveva tempo, e solo in seguito si sarebbe dedicato ai referti ricevuti dal dottor Vidussi, il necropata che aveva effettuato l’autopsia sul cadavere della vittima. Inserì allora le monete nella fessura del distributore automatico di bevande liofilizzate e selezionò il prodotto desiderato. Trascorsi un paio di secondi il meccanismo si attivò e i rumori emessi dalla macchina durante la preparazione del caffè squarciarono il silenzio. Un frastuono che guastò l’inusuale quiete che quel pomeriggio festivo aveva avvolto i locali del Reparto Operativo.

Si accinse a bere, ma proprio quando aveva quasi portato il bicchierino di plastica alle labbra intravide dal fondo del corridoio la sagoma di una figura umana che si precipitava verso di lui. Era il vicebrigadiere di servizio.

«Comandi signor capitano! Lo hanno fermato – esclamò trafelato il sottufficiale – voglio dire …lo abbiamo fermato noi! Cioè i colleghi a un posto di blocco. Ce l’hanno comunicato immediatamente».

«Brigadiè – chiese calmo Cadrella –, a chi si sta riferendo, al Kovacich Miro?»

«Affermativo signor capitano. Lo hanno bloccato a Rabuiese appena rientrato dalla Slovenia e adesso lo stanno portando qua da noi».

Cadrella rimase immobile col bicchierino in mano. Già pensava al pubblico ministero e all’interrogatorio che avrebbero dovuto effettuare lì da loro. Bisognava avvisare subito Borlacco, ci avrebbe pensato lui in seguito a mettere al corrente anche il capo della Mobile.

«Contatti immediatamente Zincone e Toffanin ai cellulari di servizio, se non rispondono cerchi i loro numeri personali e li chiami lì. Devono mollare tutto immediatamente e fare rientro in sede di corsa. Ovviamente riferisca loro della novità».

Quando il cellulare del maresciallo squillò, alla Compagnia Carabinieri di Spilimbergo avevano quasi terminato l’audizione di Gino Bortolusso, il lattoniere di Baseglia che da anni era in rapporti di conoscenza con la vittima, anche lui un frequentatore del circolo della pesca.

«Sì Mesillo che c’è, dimmi – rispose Zincone – …ma dai?!? Lo hanno preso? E dove? A Rabuiese? Sì sì, rientriamo immediatamente, certo».

Raggiunsero Pordenone in venti minuti scarsi, dove erano tutti in attesa del pregiudicato triestino. Addosso a Kovacich avevano trovato due cellulari: uno era il suo, l’altro invece recava inserita la scheda di un gestore telefonico croato.

Una volta dentro la caserma il pregiudicato triestino rimase in silenzio. Si vedeva benissimo che se la faceva sotto dalla paura, una mezzatacca come lui si sarebbe dovuto confrontare col comandante del Reparto Operativo dell’Arma e col capo della Mobile, era decisamente troppo.

«Prego colonnello – esordì Zorzon – direi che debba cominciare lei, in fondo siete voi i padroni di casa».

Borlacco si avvicinò a Kovacich e iniziò a interrogarlo.

«Allora, di che cosa vogliamo parlare? Da dove cominciamo? Dimmelo tu, perché tu la conosci la ragione per la quale ti trovi qua dentro, vero?»

Kovacich continuò a mantenere gli occhi abbassati per evitare di incrociare lo sguardo severo del colonnello. Poi, però, all’improvviso ritrovò un briciolo della sua spavalderia d’accatto e si produsse in un’alzata di testa che sortì l’unico effetto di fare infuriare l’ufficiale che gli stava davanti.

«Colonnello, se mi tenete qui dovete dirmi chiaramente il motivo! Se sono accusato di qualcosa allora voglio il mio avvocato. Guardate che la conosco anch’io la legge!»

«Eeeee… quanti cazzi vuoi! Pure l’avvocato mo’ – ironizzò sulle garanzie processuali Cadrella cercando l’ilare complicità dei presenti –, e che è diventata na’ repubblica questa?»

«Stai attento Kovacich – gli urlò in faccia Borlacco – guarda che tu non hai capito proprio in quale casino ti sei cacciato! Il tuo fascicolo è alto così, quindi vedi di non rompere i collioni! Te lo ripeto: da dove cominciamo? Dalla droga o dai tuoi amici croati? Chi lo ha ammazzato a Calegaro? A proposito, dove la tieni la Glock? Perché ce l’hai tu la pistola del morto vero? Adesso ci dici subito dove l’hai nascosta».

Annichilito, il pregiudicato abbassò ila cresta e si afflosciò sulla seggiola. Poi iniziò a balbettare qualcosa.

«Ma che dice signor colonnello, io non capisco. Mi avete fermato perché io… è tutto in regola: la macchina, i documenti, tutto. Io non spaccio più e lo sapete bene, adesso faccio l’imprenditore in Croazia. E poi che esecuzione? E chi sarebbe sto’ Calegaro? Io la pistola sì che ce l’avevo, ma durante la guerra, quando ero in Jugoslavia. E poi mica era una Glock, era un’Astra, l’avevo comprata a Gospić da uno della polizia militare».

La reticenza del pregiudicato di Servola era patetica.

«Ti conosciamo bene sai, eroe di guerra dei miei collioni – replicò seccato Borlacco -, il reduce che si mette a fare l’import-export con la malavita balcanica: ma a chi la racconti sta fregnaccia! Ti conosciamo bene te, e pure agli amici tuoi, compresi quelli dell’autogrill di Portogruaro. Fatto sta’ però, che hai parlato con Calegaro il giorno del suo assassinio e questo risulta dai tabulati, quindi adesso ci dici tutto per filo e per segno. Primo: che genere di rapporti intercorrevano fra uno come te e un incensurato di settant’anni; secondo: cosa vi siete detti tu e Calegaro a Villesse la mattina prima che lui venisse fatto fuori; terzo: per quale ragione è una settimana che non dormi a casa tua e non usi il telefonino intestato a tua madre»

L’indiziato venne stretto nell’angolo dagli inquirenti, seppure questi ultimi a suo carico non avessero molto.

A una settimana dall’omicidio l’arma del delitto non era ancora uscita fuori, tantomeno qualche testimone in grado di deporre contro di lui. In quelle condizioni non potevano certo accusarlo formalmente di omicidio, tuttavia, in quella stanza erano tutti convinti che se lo avessero adeguatamente torchiato alla fine avrebbe ceduto. Kovacich “puzzava” e non ci sarebbe voluto molto per farlo parlare. Le parole giuste per scardinare le sue deboli difese le seppe trovare Zorzon, quel poliziotto con la faccia da farabutto da far paura.

«Allora Miro – gli sussurrò il capo della Mobile con tono pacato tirandosi indietro con le mani i suoi lunghi capelli biondi –, a noi non ce ne frega un cazzo se spacci il fumo al Borgo Teresiano o a Servola, noi vogliamo solo sapere perché avete fatto fuori Calegaro. Dai tabulati del tuo gestore telefonico, e parlo di quello italiano non di quello croato, viene fuori che tu e lui negli ultimi mesi avete contattato le stesse persone. Mi segui Kovacich!?! Bene, adesso ascoltami con attenzione perché io parlo una volta sola…»

Con sapiente teatralità, il capo della Mobile fece una breve pausa. Si accese una sigaretta e, tirata una profonda boccata, espirò il fumo. Quindi riprese a parlare.

«…dicevamo: tu e il morto vi sentivate con altre persone a Pordenone e a Udine, guarda caso tutti soggetti schedati come spacciatori. Come mai? E, guarda un po’: Calegaro proprio negli ultimi mesi questi contatti con gli spacciatori li aveva intensificati a dismisura. Poi, improvvisamente muore ammazzato e da quel momento sparisci anche tu e quegli stessi spacciatori non li chiami più, o perlomeno non lo fai col tuo telefonino: perché? Vedi, io sono convinto che tra tutte queste cose ci sia un nesso. Intanto ti facciamo lo stub, poi a questi bei personaggini li prendiamo per le orecchie uno per uno e vediamo cosa ci dicono».

L’interrogatorio “in doppia” pareva funzionare. Zorzon si dimostrò quello che era: un tipo estremamente riflessivo che a volte pareva di ghiaccio. Kovacich divenne sempre più confuso, incapace di organizzare una difesa in grado di scalfire il percorso logico del poliziotto. Si cagava addosso mostrando i primi segni di cedimento.

«Lo conoscevo a Calegaro… l’ho conosciuto a Portorose all’inizio della guerra. È stato durante una licenza in uno di quei night-club dove c’erano le puttane. Quel vecchio andava sempre a puttane».

(7 – continua)

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