STRATEGIA, Pacifico. Il mare indo-cinese: la frontiera con la repubblica Popolare dal 2021

I contrasti commerciali e sul concetto di democrazia all’ombra del 5G e della disputa con Taiwan. I timori nutriti da Tokyo riguardo i possibili approcci al «problema» cinese dell’amministrazione Biden

di Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito italiano, attualmente membro del board della NATO Defense College Foundation  – Venerdì scorso, il viceministro della Difesa del Giappone ha espresso pubblicamente il suo incoraggiamento al neo eletto presidente degli Stati Uniti Joe Biden affinché dimostri di  «essere forte» nel sostenere Taiwan di fronte a una Cina sempre più aggressiva e definendo la sicurezza dell’isola, una «linea rossa» da rispettare.

«Siamo preoccupati che la Cina possa espandere la sua azione aggressiva in aree diverse da Hong Kong: penso che uno dei prossimi obiettivi, o quello di cui tutti sono preoccupati, sia Taiwan», ha dichiarato alla Reuters Yasuhide Nakayama.

Egli nell’intervista, riferendosi a Taiwan ha invitato con decisione il nuovo inquilino della Casa Bianca a seguire le orme del presidente uscente Trump, che ha incrementato in modo opportuno e importante l’azione dissuasiva americana anche attraverso la cessione di sistemi d’arma al governo di Taipei.

Il crescente sostegno di Tokyo nei confronti di Taipei si è reso concreto negli ultimi anni anche su base prevalentemente non governativa. I giapponesi, infatti, hanno ultimamente cercato di mantenere una politica equidistante tra le due Cine rispettando in linea di principio il suo alleato militare ed economico americano.

In estrema sintesi, il Giappone condivide interessi strategici con Taiwan, che si trova sulle rotte marittime attraverso le quali scorrono gran parte delle forniture energetiche e commerciali destinate all’arcipelago, dunque, soprattutto per questo motivo in Giappone si parla e ci si attiva per sostenere sempre più il Quadrilateral Security Dialogue (QUOD), cioè l’accordo in materia di sicurezza tra Usa, Giappone, Australia e India, concepito allo scopo di bilanciare l’azione di penetrazione strategica di Pechino nell’indo-pacifico.

«Finora non ho ancora visto una politica chiara o un annuncio su Taiwan da Joe Biden. Mi piacerebbe ascoltarlo a breve e quindi potremmo anche preparare la nostra risposta su Taiwan in unità d’intenti», ha rimarcato Nakayama.

Nel corso della campagna elettorale per le presidenziali, Biden ha espresso la convinzione di rafforzare i legami con Taiwan e le altre «democrazie affini». Dopo le discusse elezioni dal team di transizione del neoeletto presidente democratico è stato fatto trapelare, sia che il presidente eletto ritiene che il sostegno degli Usa a Taiwan «debba rimanere forte, di principio e bipartisan», sia che «una volta in carica, continuerà a sostenere una risoluzione pacifica delle questioni attraverso lo stretto, in modo coerente con i desideri e gli interessi del popolo di Taiwan».

Pechino non ha mai nascosto la sua irritazione per l’aumento del sostegno fornito degli Stati Uniti d’America a Taiwan, incluse le vendite di armi e le visite a Taipei di alti funzionari di Washington, ponendo così ulteriormente in crisi i già complessi e delicati legami sino-statunitensi.

La Repubblica Popolare cinese considera Taiwan, oggi governata democraticamente, come una delle sue province e non ha mai rinunciato a minacciare l’uso della forza per portarla sotto il proprio controllo.

«Taiwan è un affare interno della Cina», ha ribadito venerdì scorso il portavoce del ministero degli esteri di Pechino Wang Wenbin. «Ci opponiamo fermamente alle interferenze negli affari interni della Cina, da parte di qualsiasi paese o chiunque, con qualsiasi mezzo», ha egli aggiunto.

Secondo le statistiche del ministero della difesa di Taipei, le forze armate di Pechino (Esercito Popolare di Liberazione) hanno intrapreso azioni, definite «provocatorie», nello stretto di Taiwan. Si è trattato di incursioni di aerei da caccia, bombardieri e velivoli antisom, per un totale di ottantaquattro missioni dal 1 gennaio al 17 dicembre di quest’anno. La frequenza delle citate «provocazioni» è andata intensificandosi fino a divenire quotidiana nella metà di settembre.

Queste azioni, combinate forse con perizia strategica sia alle dispute di frontiera con l’India che con le mai nascoste controversie con Tokio per il controllo del mare a est della Cina (le isole Senkaku in primis), costituiscono una grave minaccia alla pace e stabilità mondiale.

A Taipei, la portavoce del ministero degli esteri Joanne Ou ha chiesto un forte sostegno reciproco tra gli Stati Uniti e Taiwan, che sia basato sul «linguaggio condiviso» della libertà e della democrazia. Ella ha dichiarato che: «Taiwan attende con impazienza di lavorare a stretto contatto con il team di Biden per continuare a migliorare costantemente le relazioni tra Taiwan e Stati Uniti sulla base della solida amicizia esistente».

Tornando alle dichiarazioni di Nakayama, lo stesso viceministro ha anche ricordato al mondo che «c’è una linea rossa in Asia: Cina e Taiwan», una citazione letterale che riporta all’ex presidente americano Barack Obama, che, riferendosi all’impiego siriano di armi chimiche, si espresse in questo modo, seppure in seguito quella linea rossa sarebbe stata egualmente oltrepassata da Damasco.

Allora Biden era il vice di Obama, quindi conosce bene questo genere di meccanismi, anche se trattare con Pechino non è come trattare con al-Assad, anche se quest’ultimo è sostenuto da Mosca.

Infatti oggi la Cina è la terza economia al mondo, la più grande in termini di parità di potere d’acquisto, il più grande paese commerciale del mondo e fonte di oltre il 40% del deficit commerciale strutturale degli Usa.  Inoltre, il programma cinese di investimenti noto come Belt and Road si estende in tutto il mondo, mentre l’Asian Infrastructure Investment Bank cinese vede ora più di cento tra membri attuali e potenziali, con tutte i paesi “che contano” e, appunto, con le notevoli eccezioni di Stati Uniti e Giappone.

L’Occidente per ora osserva, seppure in questi giorni un personaggio del calibro dell’ex segretario generale della NATO, il danese Rasmussen, abbia dichiarato in un’intervista concessa al quotidiano italiano “La Repubblica” che, «se Pechino fisserà gli standard per il 5G e per l’intelligenza artificiale, nel mondo si ridurrà la libertà e la democrazia», aggiungendo poi che: «Così come il mondo è stato costruito intorno al modello delle società libere nella seconda parte del XX secolo, oggi corriamo il rischio di vedere la restante parte del XXI costruita intorno agli standard autoritari cinesi».

L’auspicio è che la stagione delle relazioni transatlantiche non sia finita e che Biden non metta in seconda piano l’Europa e la NATO nella sua agenda, magari per andare a coprire gli interessi americani del QUAD e dei paesi che potrebbero aderirvi.

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