MEDIO ORIENTE, Golfo Persico. Il confronto tra Iran e Arabia Saudita

Sullo sfondo il “colpo di stato ombra” dei Pasdaran a Teheran. Il quadro della complicata situazione a Teheran e a Riyadh delineato nel corso della presentazione del saggio di Cinzia Bianco

Le recenti rivolte divampate in Iran a causa dell’aumento improvviso del prezzo dei carburanti, unitamente alla situazione difficile attraversata dalla monarchia degli al-Saud, che proprio in questi ultimi giorni hanno quotato alla borsa di Riyadh il loro “gioiello di famiglia”, cioè la compagnia energetica di stato Aramco, hanno riacceso i riflettori sulle vicende e sullo scontro tra le due potenze regionali del Golfo Persico.

Se ne è discusso giovedì scorso a Roma nella sede dell’Associazione della Stampa estera in Italia in occasione della presentazione del libro “Guerra o pace in Medio Oriente? Comprendere i conflitto tra Iran e Arabia Saudita”, scritto da Cinzia Bianco, analista per la penisola arabica presso l’European Council on Foreign Relations.

Nel dibattito all’Associazione Stampa estera sono stati ripercorsi gli ultimi decenni di storia del Golfo Persico mantenendo il focus sui due grandi protagonisti.

L’uno, che nell’immediatezza della vittoriosa rivoluzione venne trascinato in una lunga e sanguinosa guerra dall’Iraq di Saddam e dagli sponsor di quest’ultimo, l’altro, impegnato contestualmente nel contenimento della neonata Repubblica islamica di credo sciita e nel sostegno alla guerriglia jihadista anti-sovietica in corso nell’Afghanistan.

Oggi Riyadh ha un deficit pubblico non indifferente, in crescita rispetto al recente passato, nel 2017 era pari al 9,2%, poi sceso al 4,6% nel 2018. Il Regno si è impegnato in una serie di conflitti regionali estremamente costosi, dai quali o ha visto sconfitti i suoi proxi, oppure non riesce a uscirne (si veda ad esempio quello yemenita).

Il contratto sociale tra gli al-Saud e il loro popolo vacilla sotto i colpi della disoccupazione (nel passato parola sconosciuta ai sauditi), poiché il ramo della famiglia regnante attualmente al potere a Riyadh riesce a staccare l’assegno con sempre maggiore difficoltà.

Il “riformista” Mohammed Bin Salman ha lanciato il Regno in spregiudicate operazioni, come la quotazione in borsa della Saudi Aramco, ma gli esiti di esse sono in parte incerti.

Quanto all’Iran, il Paese ha vissuto un periodo estremamente difficile fin dalla deposizione dello scià, un periodo segnato da instabilità, terrore e scontri che alla fine hanno visto il definitivo assestamento al potere degli ayatollah.

Dalla Rivoluzione khomeinista del 1979 sono passati ormai quaranta anni e tante guerre, combattute in prima persona oppure per procura, mentre la società iraniana mutava sensibilmente.

Alle rivolte di questi mesi, comprese quelle verificatesi negli ultimi giorni – divampate a causa dell’apparentemente inopinato e improvviso aumento del prezzo dei carburanti – hanno preso parte prevalentemente giovani manifestanti, spesso povera gente o appartenenti alla piccola borghesia, privi sostanzialmente di una vera e propria direzione politica, questo mentre la borghesia stavolta non vi ha preso parte, rimanendo al riparo lontano dai tumulti che andavano incendiando le principali città.

Si tratta di un aspetto sul quale è stata fatta una riflessione approfondita.

Infatti, gli aumenti dei prezzi dei carburanti sono stati introdotti con due aliquote, la prima del 50% e la seconda addirittura del 100%, una cifra insostenibile. Una misura del tutto impopolare decisa, per altro, in un contesto di grave crisi che vede il Paese sotto sanzioni economiche internazionali.

Ma allora perché varare un provvedimento del genere quando nei palazzi del potere di Teheran si aveva piena consapevolezza che esso avrebbe generato insoddisfazione e sicure proteste di piazza?

Una scelta che non si spiega certamente con un improbabile autolesionismo della dirigenza – meglio, di parte della dirigenza – della Repubblica islamica, anche alla luce dei precedenti risalenti a poco più di un anno fa.

Secondo gli intervenuti al dibattito romano, due potrebbero essere le spiegazioni alla base di questa scelta.

Una ovviamente è di natura economica, in quanto il deterioramento della situazione nel Paese per effetto delle sanzioni internazionali imposte dagli Usa negli ultimi diciotto mesi ha pesato in maniera particolare, poiché in Iran si è registrato un crollo delle esportazioni di materie prime energetiche pari alla metà del volume precedente, che ha inciso su almeno il 60% delle entrate del Paese.

A questo va aggiunto il crollo del valore del rial, la moneta locale, che si è ripercosso sui prezzi al consumo provocando una serie di aumenti e un’impennata dell’inflazione.

Il welfare iraniano, del quale beneficiano le fasce meno abbienti della popolazione, attinge a una economia in buona parte controllata da fondazioni religiose pubbliche riconducibili ai Pasdaran, le bonyad, che in questa condizione di impoverimento generale necessitano di una iniezione di denaro, indispensabile a una successiva operazione di redistribuzione del reddito.

L’altra spiegazione andrebbe invece ricondotta alla sfera politica, cioè alla sotterranea lotta per il potere che vede contrapposti

Le (per nulla inattese) violente manifestazioni di piazza in reazione agli aumenti dei prezzi sarebbero state deliberatamente provocate allo scopo di mettere con le spalle al muro l’attuale governo presieduto da Hassan Rouhani, artefice dell’accordo sul nucleare stipulato nel 2015 con gli americani (in realtà col cosiddetto «5-1»), che tuttavia non avrebbe recato alcun vantaggio all’Iran, anzi, con l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha ben presto stracciato l’accordo, il Paese è precipitato nuovamente nella crisi.

Secondo questa lettura l’esecutivo Rouhani sarebbe dunque sempre più sotto scacco di Pasdaran e Bassiji, sia dal punto di vista economico che da quello del mantenimento dell’ordine pubblico.

Un ulteriore fattore che determina le dinamiche è quello internazionale, con non pochi Paesi europei che cercano in vario modo di superare l’embargo decretato dagli Usa, e che vede perfettamente allineati i suoi principali alleati nell’area, cioè sauditi e israeliani.

Una riapertura di canali commerciali darebbe ossigeno all’economia di Teheran in un momento di aspro confronto nella regione mediorientale, un possibile sviluppo che preoccupa fortemente molti sia a Washington che a Gerusalemme.

Di seguito è possibile ascoltare l’audio integrale della registrazione del dibattito (A217)

A217 – MEDIO ORIENTE, GOLFO PERSICO: IL CONFRONTO IRAN-ARABIA SAUDITA. Sullo sfondo il “colpo di stato ombra” dei Pasdaran a Teheran. Il quadro della complicata situazione a Teheran e a Riyadh delineato nel corso della presentazione del saggio di Cinzia Bianco all’Associazione Stampa estera di Roma.
Il dibattito ha avuto luogo il 2 dicembre 2019 in occasione della presentazione del libro “Guerra o pace in Medio Oriente? Comprendere i conflitto tra Iran e Arabia Saudita”.
Interventi di: CINZIA BIANCO (analista per la penisola arabica presso l’European Council on Foreign Relations), ALESSANDRO POLITI (direttore della Nato Defence College Foundation), ALBERTO NEGRI (giornalista, già inviato in aree di crisi ed esperto di problematiche mediorientali); ha moderato il dibattito LIISA LIIMATAINEN (giornalista, già corrispondente dall’Itali per la Radiotelevisione finlandese e autrice di saggi sull’Iran e l’Arabia saudita).
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