TURCHIA, Erdoğan negli Usa. A Washington il “sultano” si prende la scena, ma per lui i guai non sono finiti

«Abbiamo detto che possiamo comprare i Patriot americani, ma riteniamo inaccettabile eliminare totalmente i missili russi S-400, perché è una richiesta che viola la nostra sovranità». Queste le parole pronunciate alla stampa da Recep Tayyip Erdoğan negli Usa all’indomani del suo incontro col presidente americano Donald Trump.
Nelle intenzioni dei suoi promotori, il vertice avrebbe dovuto portare al ristabilimento di buone relazioni tra Washington e Ankara, tuttavia, come prevedibile, questo risultato non è stato conseguito.

Si è trattato di un incontro che ha avuto luogo in una fase estremamente critica per l’inquilino della Casa Bianca, peggiore di quelle ancorché turbolente che egli ha attraversato nel passato da quando è stato eletto presidente.

I problemi tra i due paesi alleati all’interno della Nato restano quindi irrisolti, ma ovviamente il canale di dialogo non può che restare aperto e dunque ci sarà da aspettarsi nuovi approcci.

In ogni caso Erdoğan ha approfittato dell’occasione per prendersi la scena mediatica per confermare la propria autorevolezza sia sul piano interno che su quello internazionale.

Egli, consapevole del fatto che tutti i riflettori sarebbero rimasti accesi su di lui, si è rivolto direttamente alle opinioni pubbliche americane e mondiali monopolizzando per ben quindici con un suo discorso la conferenza stampa congiunta tenutasi alla Casa Bianca.

Ha espresso con chiarezza e decisione i punti chiave della sua politica: le milizie kurde presenti nelle province nordorientali della Siria sono organizzazioni terroristiche.

In effetti, gli stessi americani considerano le Unità di protezione del popolo per quello che sono, cioè una filiazione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), organizzazione inserita nell’elenco di quelle terroristiche.

Tuttavia, né il Pentagono né la Cia possono farne a meno nel contrasto degli islamisti ormai orfani del “califfato” di al-Baghdadi, e infatti ci collaborano strettamente fin dal 2014 con grande disappunto di Ankara, che considera questo una grande minaccia alla propria sicurezza nazionale, una scelta «paradossale e contradditoria», per usare le parole dello stesso Erdoğan.

Nella guerra intestina tra Casa Bianca e Pentagono quest’ultimo parrebbe avere avuto la meglio, poiché gli americani, malgrado le parole e le intenzioni del loro presidente, non lasceranno la Siria, al contrario, potenzieranno discretamente la loro presenza anche attraverso una ridislocazione delle forze in prossimità dei giacimenti petroliferi e al confine con Iraq e Giordania.

Ma per continuare a contrastare ciò che rimane di Islamic State e a monitorare da vicino russi e iraniani – che nel frattempo hanno recuperato posizioni nella Siria nordorientale – hanno ancora bisogno delle milizie kurde, quindi non le possono “mollare” al loro tragico destino.

Sempre nel corso del suo intervento di ieri, Erdoğan ha tracciato sinteticamente ma in maniera inequivocabile il suo piano di reinsediamento di buona parte dei profughi siriani rifugiatisi in Turchia dopo lo scoppio della guerra civile nel loro paese.

Egli ha ribadito la propria volontà di ricollocarli all’interno di quella fascia di sicurezza tra la frontiera turca e il fiume Eufrate dove, anche grazie all’aiuto fornito da donatori internazionali, sarà possibile realizzare le condizioni adeguate per il loro trasferimento.

Ankara si aspetta che sia l’Unione europea, in particolare, a sostenere questo suo progetto avallato anche da Trump.

Infine uno degli aspetti forse più critici nelle attuali relazioni turco-americane: la pretesa di Erdoğan che il suo ex alleato politico ma oggi nemico numero uno, quel Fethullah Gülen, predicatore islamista che ha ottenuto asilo negli Usa e che adesso risiede in Pennsylvania, che il presidente turco accusa di essere l’organizzatore del fallito colpo di stato del 2016.

Ma nel corso dell’incontro di ieri fra Trump ed Erdoğan ha sempre aleggiato la presenza di un convitato di pietra: i sistemi antiaerei e antimissile S-400 che le forze armate di Ankara hanno acquistato dalla Russia di Putin.

Una questione dirimente che ha portato Washington addirittura a congelare le forniture previste per i turchi del nuovo caccia F-35, sofisticato velivolo da combattimento del cui programma di sviluppo questi ultimi sono parte integrante a tutti gli effetti.

Si tratta di una enorme fonte di attriti tra i due paesi alleati nella Nato, una questione tuttora irrisolta, anche perché gli americani oppongono ai turchi l’incompatibilità dell’impiego contemporaneo dei due sistemi d’arma nel medesimo teatro operativo.

La “via di uscita” da questa impasse offerta da Trump mediante l’invio di una missiva dai toni minacciosi è stata però sdegnosamente respinta da Erdoğan. Essa prevedeva – un po’ sulla scorta del precedente analogo caso cipriota – la messa in naftalina dei missili russi, che non si dovrebbero mai attivare e sarebbero posti sotto il costante e pregnante controllo dei funzionari del Pentagono.

Ankara, al contrario, si dice disposta a concedere esclusivamente la propria partecipazione a un comitato congiunto investito del compito di stabilire la compatibilità o meno degli S-400 con gli F-35.

Il Congresso Usa preme per le sanzioni a carico della Turchia, di probabile applicazione in assenza di una compromesso.

Nel mirino del Tesoro americano c’è una delle maggiori banche turche, la Halkbank, secondo istituto bancario pubblico del Paese messo sotto accusa da un tribunale distrettuale di New York per avere preso parte a un programma dell’ammontare di miliardi di dollari finalizzato all’elusione delle sanzioni economiche imposte da Washington all’Iran.

L’inchiesta, aperta nell’ottobre scorso dal Dipartimento alla Giustizia americano, che imputa alla Halkbank crimini di riciclaggio, frode e altri reati, non giova certo alla situazione economica turca e, di risulta, al consenso politico goduto da Erdoğan.

Le accuse formulate dalla giustizia americana hanno provocato un crollo in borsa dei titoli azionari della banca turca, -7,2% nella giornata di mercoledì. Nelle ore precedenti Washington aveva formalizzato le proprie sanzioni a carico di funzionari turchi e, contestualmente, aveva incrementato le tariffe e sospeso i colloqui commerciali con Ankara.

Il tentativo è quello di persuadere Erdoğan a cessare gli attacchi contro la milizia curda dello YPG in atto nella Siria nordorientale.

Le accuse mosse alla Halkbank scaturiscono da un precedente procedimento penale intentato nel 2016 a carico del commerciante turco-iraniano Reza Zarrab, accusato di avere svolto un ruolo centrale nel piano di elusione delle sanzioni.

Mehmet Hakan Atilla, ex vicedirettore generale della Halkbank, è stato arrestato a New York l’anno successivo ed è stato successivamente condannato a 32 mesi di carcere.

Zarrab si è dichiarato colpevole e ha testimoniato di fronte ai procuratori americani dichiarando che Teheran, avvalendosi dell’aiuto della Halkbank e di esponenti del governo di Ankara (tra i quali lo stesso presidente), avrebbe usato una rete di società di comodo per porre in essere false transazioni in oro, generi alimentari e farmaci allo scopo di violare l’embargo statunitense agli ayatollah.

Ankara ha sempre reagito alle accuse affermando che rientrano in un complotto politico ordito contro di lei.

Le banche di Stato turche, che dall’inizio dell’attacco militare contro i kurdi in Siria si sono viste costrette a vendere dollari per difendere la lira, adesso vengono chiamate in sostegno della consorella Halkbank allo scopo di attutire il colpo sui mercati ed evitare un pericoloso avvitamento della crisi finanziaria che colpisce il Paese.

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