SPAGNA, Catalogna. Proseguono le manifestazioni indipendentiste e i tumulti

Alla fase giudiziaria seguirà una soluzione politica alla questione catalana? Forse no, poiché il risultato delle prossime elezioni politiche spagnole potrebbe irrigidire il “muro contro muro” in atto

Le proteste contro Madrid sono nuovamente divampate a partire da lunedì 14 ottobre, dopo che il tribunale supremo spagnolo aveva emesso la sentenza di condanna a carico dei dodici leader catalani imputati nel processo per la dichiarazione di indipendenza della regione autonoma avvenuta nel 2017.

Una sentenza prevedibile che viene emessa nel peggiore momento che il Paese abbia mai attraversato dalla fine della dittatura franchista e inoltre nel pieno di una campagna elettorale che preluderà, probabilmente, alla prosecuzione delle incertezze sul futuro politico.

È innegabile che la reazione muscolare di Madrid alla dichiarazione unilaterale di indipendenza dei catalani non abbia fatto altro che irrigidire le posizioni delle parti ed esacerbare ulteriormente gli animi.

La corte suprema – pur non accettando appieno l’impianto accusatorio, che contemplava il grave reato di ribellione – aveva in ogni caso condannato i leader indipendentisti per il loro tentativo di sovversione dell’ordine pubblico attraverso il referendum sulla secessione della Catalogna dalla Spagna dell’ottobre 2017 e per la conseguente proclamazione della Repubblica indipendente di Catalogna all’Assemblea regionale.

Oriol Junqueras, già vicepresidente della Generalitat e uomo politico alla guida del partito della Sinistra repubblicana catalana, è stato condannato alla pena di tredici anni di reclusione per i reati di sedizione e malversazione.

Anche altri leader indipendentisti ed esponenti dei partiti catalani sono stati condannati a pene detentive, mentre il presidente Carles Puidgemont ha dovuto trovare rifugio all’estero per evitare il carcere.

La situazione è un muro contro muro, che registra un ultima novità: il governatore della regione autonoma Quim Torra ha promesso un nuovo referendum per l’indipendenza da svolgersi entro il 2021.

 

Le proteste. Ormai sono giorni che a Barcellona e negli altri maggiori centri urbani della Catalogna si verificano gravi incidenti, con i manifestanti che incendiano i cassonetti dell’immondizia e le automobili, bloccano le ferrovie e si scontrano violentemente con la polizia.

Si registrano decine di feriti da entrambe le parti, con le forze dell’ordine – il dispositivo repressivo è stato fortemente potenziato da Fernando Grande Marlaska, ministro dell’Interno del governo Sánchez – che hanno effettuato centinaia di arresti.

Lo stesso premier – duramente contestato dalla folla – nella giornata di ieri ha fatto visita agli uomini delle forze dell’ordine ricoverati negli ospedali di Barcellona perché rimasti feriti nel corso dei tumulti verificatisi in questi giorni.

Lo sciopero indetto dagli indipendentisti ha paralizzato il capoluogo, provocando per altro anche il rinvio dell’incontro di calcio tra il Barcellona e il Real Madrid in calendario per il 26 ottobre.

La politica madrilena è bloccata. La destra non recede dai suoi passi, caldeggiando anzi un intervento risolutorio ancora più drastico, la sinistra invece caldeggia soluzioni di compromesso con gli indipendentisti, ma la percorribilità di queste ultime ipotesi è tutta da verificare.

In fondo, lo stesso premier Pedro Sánchez sembrava avesse fatto una timida apertura nei confronti dei leader catalani, dichiarando che: «È per tutti urgente la necessità di aprire un nuovo capitolo basato sulla coesistenza pacifica in Catalogna attraverso il dialogo nei limiti posti dai termini della costituzione spagnola».

Nell’immediatezza della pronuncia del tribunale spagnolo egli aveva inoltre affermato di «sperare» che la chiusura del capitolo giudiziario della crisi catalana potesse segnare una svolta nel lungo scontro tra le autorità nazionali e i legislatori separatisti di Barcellona.

 

Disobbedienza civile e violenza. Tra i protagonisti delle manifestazioni di piazza che hanno avuto luogo in questi ultimi giorni ha figurato anche “Tsunami Democràtic”, la nuova piattaforma degli indipendentisti che pratica forme marcata disobbedienza civile, agendo a cavallo della sottile linea che, se travalicata, separa la protesta organizzata da fenomeni che la legge spagnola considera reati e, di conseguenza, sanziona penalmente.

Non è quindi casuale il fatto che il 18 ottobre scorso l’Audiencia Nacional, mediante una sentenza del giudice Manuel García-Castellón, ne abbia ordinato la cessazione delle attività del suo sito web, formulando addirittura l’accusa di terrorismo. Un atto censorio che ha provocato una stigmatizzazione da parte della Commissione europea, che ha invitato le autorità di Madrid ad agire con equilibrio e a garantire la libertà d’espressione.

Un movimento in grado di mobilitare centinaia di migliaia di manifestanti e di indirizzarne le attività – finora non violente – verso forme di protesta eclatanti come il blocco degli aeroporti El Prat di Barcellona e Barajas di Madrid, oppure ad alta valenza simbolica come le partecipate marce per la libertà.

Un movimento reticolare che affonda le sue radici a sinistra e che ha dimostrato di possedere notevoli capacità sui piani organizzativo e logistico, mantenendo tuttavia sostanzialmente occulto il proprio vertice .

Gli organismi della sicurezza iberica ritengono che gli elementi apicali dell’organizzazione siano gli esuli catalani all’estero, come l’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont, nonché i rappresentanti dei partiti nazionalisti catalani, l’Assemblea Nazionale Catalana e Òmnium Cultural.

In rivolta nelle piazze ci sono poi i Comitati di Difesa della Repubblica, il collettivo Anonymous Cataluña e Picnic X la República.

 

La questione catalana. Il 1 ottobre del 2017 nella regione autonoma catalana si è votato un referendum per l’indipendenza promosso da Puigdemont (ma dichiarato nullo dalla corte costituzionale spagnola) che vide la schiacciante affermazione dei favorevoli allo strappo da Madrid.

Il 2 novembre successivo Barcellona dichiarò a propria indipendenza dalla Spagna, a questo punto il governo nazionale convocò nuove elezioni nella regione autonoma nelle quali i partiti indipendentisti ottennero la maggioranza dei consensi, seppure il partito più votato fu Ciudadanos.

Dal 2 febbraio al 12 giugno 2019 ha avuto luogo il processo ai leader indipendentisti svoltosi al tribunale supremo, la cui sentenza è stata emessa il 14 ottobre.

Alla luce della chiusura della fase giudiziaria della questione catalana sarebbe dunque auspicabile una sua soluzione sul piano politico, questo è il tema centrale sul quale ragionare.

Ma in che modo, se la politica spagnola fino a ora ha chiaramente evidenziato la sua incapacità di mediazione e di dialogo nell’interesse generale del Paese?

Altrimenti non si spiegherebbe lo scivolamento della questione catalana dal piano politico a quello giudiziario – piani completamente separati tra loro -, con tutte le conseguenze che questo ha comportato.

Il totale rifiuto di una trattativa con gli indipendentisti opposto dal precedente governo presieduto da Mariano Rahoy ha costretto i catalani (per la verità forzando la mano a Madrid) a scelte che li hanno portati a infrangere la legge mediante azioni di disobbedienza civile di massa.

La radicalizzazione del confronto ha fatto poi scivolare nella violenza degli ultimi giorni, compromettendo la convivenza civile nella totalità dei suoi aspetti.

 

Instabilità politica. Per la quarta volta in quattro anni il prossimo 10 novembre in Spagna il corpo elettorale verrà richiamato alle urne. La speranza è che il risultato del voto renda possibile la formazione di una maggioranza politica stabile alle Cortes dopo la fine del bipartitismo nel 2015.

La crisi di governo è stata causata dall’incapacità del Partito socialista del premier in carica e di Unidos Podemos di Pablo Iglesias di pervenire a un accordo che portasse alla formazione di una stabile coalizione.

Sulla Catalogna si giocherà tutto e saranno le destre che avranno l’opportunità di affermarsi. Dal canto suo Podemos è l’unico tra i grandi partiti nazionali spagnoli a pronunciarsi per il diritto all’autodeterminazione di Barcellona, esprimibile anche attraverso un nuovo referendum.

Referendum dichiarato sicuramente a parole, propaganda a uso dell’opinione pubblica catalana, che tuttavia non si concretizzerà in un impulso decisivo alla secessione in tempi brevi, almeno non tutte le componenti del variegato fronte indipendentista.

Ci vuole ancora tempo. Per il momento va bene tirare la corda senza spezzarla, dato che l’autonomia non viene messa in discussione da questo esecutivo uscente. E poi non è detto che gli elettori catalani al momento di decidere si esprimano in maggioranza per la secessione da Madrid.

A quel punto per loro sarebbe meglio staccarsi dalla Spagna oppure ottenere da essa maggiori spazi di autonomia nello statuto modificando la costituzione attualmente in vigore?

Ovvero ancora, in una cornice di riconciliazione anestetizzare l’indipendentismo attraverso concessioni economiche nelle forme di investimenti, in primo luogo infrastrutturali, dei quali beneficerebbe il tessuto economico-industriale catalano e, conseguentemente, affievolirebbe (almeno per un po’) la spinta alle rivendicazioni e il vittimismo della popolazione locale.

Bisognerà attendere i risultati delle elezioni, ma gli spazi di manovra praticabili restano comunque angusti, poiché sia le destre che un’eventuale governo di grande coalizione tra popolari e socialisti irrigidirebbero il “muro contro muro” con gli indipendentisti catalani, cassando l’ipotesi di una soluzione politica alla questione indipendentista.

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