ZONE GRIGIE, caso Sindona. La scomparsa di Silvio Novembre, collaboratore dell’avvocato Ambrosoli

Già sottufficiale della Guardia di Finanza, affiancò il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana fino al giorno dell’assassinio di quest’ultimo, ucciso dalla mano di un killer mafioso italoamericano

La scorsa settimana, all’età di ottantacinque anni è venuto a mancare il sottotenente in congedo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, noto per aver lavorato al fianco dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, uno degli istituti facenti capo al finanziere Michele Sindona.

Novembre era nato ad Alseno, in provincia di Piacenza, ma la sua città di adozione era poi divenuta Milano, luogo dove nacque la sua amicizia con l’avvocato Ambrosoli, un rapporto cementatosi nel corso dei difficili giorni della vicenda giudiziaria legata alla Banca Privata Italiana di Michele Sindona, il finanziere senza scrupoli giunto dalla Sicilia nella capitale economica negli anni Cinquanta.

Era il 1974, l’allora maresciallo Novembre era in forza presso la prima Sezione speciale del Nucleo regionale di Polizia tributaria di Milano, quando il Pubblico ministero Guido Viola richiese al Comandante del Nucleo regionale di formare una squadra di Finanzieri da affiancare al commissario liquidatore, allo scopo di condurre insieme a lui le indagini sul fallimento della Banca Privata Italiana .

La squadra venne formata da sette militari, tuttavia, fin dai primi giorni di collaborazione il maresciallo Novembre diventò il referente diretto di Ambrosoli, un rapporto di servizio che si tramutò ben presto in una profonda amicizia, durata fino all’11 luglio del 1979, quando l’avvocato milanese venne barbaramente assassinato da William Joseph Aricò, il killer fatto venire dall’America nel disperato tentativo di fermare la liquidazione coatta della banca di Sindona e salvare i soldi che mafia e altri soggetti nel passato vi avevano depositato.

Ambrosoli venne assassinato perché con la sua azione costituiva un ostacolo al salvataggio dell’istituto in bancarotta che Sindona e i suoi sodali stavano cercando di ottenere in tutti i modi.

Inoltre, l’omicidio del commissario liquidatore avrebbe dovuto spiegare i suoi effetti intimidatori anche sul potente Enrico Cuccia, anch’egli in opposizione al piano di salvataggio.

Tuttavia, malgrado l’eliminazione dell’avvocato Ambrosoli, Novembre e i suoi colleghi espletarono egualmente l’incarico ricevuto e le indagini posero fine a una delle vicende giudiziarie più complesse della storia della Repubblica.

Una figura, quella di Novembre, sarebbe stata poi resa celebre anche dall’interpretazione fattane da Michele Placido nel film “Un eroe borghese”, ricostruzione cinematografica della tragica vicenda di Ambrosoli.

 

Il mastino buono. Di come fosse il maresciallo Silvio Novembre si trova una traccia testimoniale nel libro biografico su Enrico Cuccia scritto da Fabio Tamburini nel 1992, “Un siciliano a Milano”, edito da Longanesi.

«Silvio Novembre, fisico massiccio, faccia larga e schiacciata del mastino buono, per anni ha rappresentato una spina nel fianco di Sindona e Calvi. Novembre appartenne fin dall’inizio al gruppo ristretto di collaboratori che affiancarono il commissario liquidatore Ambrosoli e gli stette vicino fino al momento dell’assassinio».

Poi seguì i processi a Sindona e al vertice del Banco Ambrosiano, confermandosi un vero archivio di personaggi, episodi e coincidenze.

Nella loro ordinanza di rinvio a giudizio, i magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone riportarono la circostanza che, per cercare di toglierlo di mezzo l’avvocato Rodolfo Guzzi si rivolse al gran maestro della loggia massonica P2, Licio Gelli, chiedendogli di farlo trasferire in un’altra sede che non fosse Milano, ma, nonostante allora un gran numero di ufficiali della Guardia di Finanza fossero iscritti alla loggia di Gelli, non ci riuscirono.

«Un secondo tentativo andò a vuoto per poco – prosegue nella sua ricostruzione Tamburini -, quando era già stata scelta la sua destinazione, il distaccamento sul Monte Bianco da dove, certamente, non avrebbe potuto nuocere. Il giorno del funerale dell’avvocato Ambrosoli decise di lasciare il servizio, di non continuare a servire questo stato imbelle e almeno in parte connivente. Terminò alcuni lavori che gli aveva affidato il commissario e, dopo qualche tempo, diede le dimissioni diventando consulente nella liquidazione del Banco Ambrosiano».

Quando ricordava le esperienze di vita maturate al fianco di Ambrosoli, le minacce, i tentativi di corruzione provava un misto di rabbia e orgoglio.

«di rabbia, perché il prezzo pagato è stato alto e perché Ambrosoli fu lasciato solo, di orgoglio per avere fatto parte di un piccolo drappello di uomini che seppe andare  fino in fondo».

Sempre nella stessa biografia sul potente capo di Mediobanca – che evitò di mettere al corrente il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana del grave pericolo che in quel momento stava correndo -, Tamburini concluse che: «Le cronache del processo (a carico di Michele Sindona) raccontano lo smarrimento e il pianto della moglie di Ambrosoli, la rabbia del maresciallo Novembre, le perplessità di quasi tutti i presenti. Compreso Sinibaldo Tino, che dopo la morte dello zio aveva occupato lo studio in via Filodrammatici, collaboratore e grande amico del commissario liquidatore, stupito che Cuccia non lo avesse utilizzato come tramite per avvisare l’interessato delle minacce di Sindona».

Il suo impegno per l’affermazione della cultura e del rispetto della legalità è proseguito poi attraverso i numerosi incontri avuti con gli studenti delle diverse scuole milanesi, nonché con i reparti d’istruzione del suo Corpo di appartenenza, la Guardia di Finanza.

Nel 2014 venne insignito del prestigioso Ambrogino d’Oro, la massima onorificenza riconosciuta dalla città di Milano.

Negli ultimi anni della sua vita soleva ricordare i tempi del suo arruolamento nel Corpo, quando, giovane finanziere, venne inviato in Trentino presso la Scuola alpina di Predazzo.

 

Storie italiane. In effetti, le disgrazie di Michele Sindona ebbero davvero inizio quando si trasferì negli Usa, dopo essere stato sconfitto dall’establishment nel tentativo di controllare la Bastogi, allora “salotto buono” e camera di compensazione della finanza italiana.

Assieme ai suoi finanziatori e protettori avrebbe voluto costituire un “polo economico-finanziario cattolico” da opporre a quello laico del Nord.

Però non ci riuscì e, incaricato il suo sodale Roberto Calvi di liquidare le sue partecipazioni azionarie in Italia, si trasferì in America, dove aveva salde relazioni con ambienti finanziari e criminali.

Lì decise di acquistare una banca locale, la non proprio florida Franklin National Bank, ma mal gliene colse, poiché essa si sarebbe rivelata decisiva nella bancarotta dell’impero finanziario che fino a quel momento era riuscito a creare.

Privo delle protezioni delle quali aveva potuto godere in Italia, schiacciato dalle conseguenze delle sue operazioni finanziarie e dai pregnanti e severi controlli delle Autorità federali, nonché dalla congiuntura economica sfavorevole del 1973, anche sulla base del crollo causato dai dissesti generate dalle azzardate operazioni sui cambi attraverso la controllata Moneyrex precipitò inesorabilmente nel crack.

A quel punto, per la Giustizia statunitense non ci volle molto a incriminarlo e a mandarlo sotto processo, dove Sindona venne poi condannato a una lunga pena detentiva per una serie di gravi reati.

Quelle di Michele Sindona e Roberto Calvi – entrambi banchieri legati alla criminalità ed entrambi morti ammazzati – sono due storie profondamente italiane, lo spaccato di un mondo che ormai non esiste più, per lo meno in quelle forme.

Ma come ha potuto scalare il mondo della finanza italiana un personaggio come Michele Sindona, che fino al suo arrivo a Milano era stato un oscuro impiegato della filiale messinese del Credito Italiano?

Nella metropoli del boom economico lo spregiudicato fiscalista di Patti si fece subito strada, al punto che già nell’ottobre del 1960 fu in grado di acquisire il controllo della Banca Privata Finanziaria, prima pietra sulla quale avrebbe edificato il proprio impero.

È la fase nel corso della quale stringe salde relazioni con ambienti della finanza vaticana, mettendosi in luce per le sue capacità e giovandosi degli intrecci con personaggi del calibro di Massimo Spada, Luigi Mennini e monsignor Paul Casimir Marcinkus. Insomma, arriva allo Ior, l’Istituto per le Opere di Religione, la banca d’affari  della Santa Sede che – ufficialmente – banca non è, almeno per lo Stato italiano, seppure i suoi sportelli operino a poche centinaia di metri in linea d’aria dal Parlamento della Repubblica e dal Quirinale.

Una banca che, proprio nel corso della gestione Marcinkus, accentua la sua caratteristica di perno nelle attività speculative immobiliari.

L’obiettivo di Sindona è quello di associarsi alla Chiesa cattolica romana e uno dei suoi primi rapporti d’affari con il Vaticano risale al 1964, quando lo Ior gli cede la quota di maggioranza della ginevrina Finabank.

Lo scopo dell’interesse per oltre Tevere manifestato dal rampante finanziere siciliano trapiantato a Milano è oltremodo evidente: acquisire prestigio e potenza, che gli consentiranno di presentarsi sulla scena finanziaria internazionale nelle vesti di una personalità affidabile con la quale fare affari e stringere alleanze.

 

Il peccato originale. «Sindona ha rinvenuto la propria forza e la capacità di influenzare la scena economica italiana nel fatto di essere stato l’uomo di fiducia del Vaticano nel campo della finanza. Di quella finanza che nel 1969 gli venne affidata da papa Paolo VI perché egli la “internazionalizzasse”, cioè in sostanza la trasferisse dall’Italia, dove fino ad allora era, all’estero allo di sottrarla agli effetti delle leggi in materia fiscale in quel periodo varate dal Parlamento della Repubblica, che aveva imposto una tassa anche sui dividendi delle azioni riconducibili alla Curia romana che erano però maturati attraverso operazioni effettuate nel territorio dello Stato italiano».

Con queste efficaci parole, Massimo Teodori – docente universitario di Storia americana e già parlamentare radicale – disegna il quadro nell’ambito del quale il banchiere di Patti sfruttò abilmente l’opportunità che gli permise di divenire il maggiore fiduciario della finanza vaticana.

I suoi legami all’interno delle Mura Leonine sono più forti di quelli degli altri uomini e delle altre strutture della Santa Sede, anche degli esponenti di spicco del mondo economico e finanziario cattolico di allora.

Le eminenze grigie fanno ricorso ai suoi servizi al punto che alla fine degli anni Sessanta questo intreccio si stringe sempre di più e il Vaticano diviene finanziatore e partner di Sindona in numerose imprese.

Il sigillo all’alleanza viene apposto nella primavera del 1969, quando avviene il suo incontro riservato con Paolo VI, il pontefice bresciano, rigoroso e gerarchico – oggi fatto santo –che gli affida le cospicue finanze vaticane.

È l’inizio della fase espansiva della sfera del potere economico e politico della Chiesa cattolica romana, che, attraverso lo svincolamento da un singolo settore di attività e da una singola economia nazionale, massimizza i propri profitti cercando di pagare meno tasse possibili, a cominciare da quella tanto contrastata imposta cedolare sui dividendi che era stata introdotta in Italia.

La nuova dirompente strategia finanziaria concepita oltre Tevere anche con la consulenza di Sindona seguiva un altro importante provvedimento: la profonda riforma della Curia, voluta due anni prima da Paolo VI, che conferma la piena autonomia dello Ior.

Quell’Istituto per le Opere di Religione che presentava una evidente contraddizione, quella di essere una un istituto che non era una banca ma che, tuttavia, forniva una gamma completa di servizi bancari. E non soltanto alla Santa Sede, poiché al suo sportello clienti di tutto il mondo vi depositavano capitali avendo la garanzia del mantenimento di un rigoroso segreto.

Afferma sempre il professor Teodori: «Egli (Sindona) al tempo stesso agì al fianco di Marcinkus e Calvi e fu anche il riciclatore dei soldi sporchi di cosa nostra, che gestiva proprio attraverso i canali di oltre Tevere, in particolare attraverso lo Ior. Da quest’ultimo, è noto, sono stati cancellati oltre tremila conti correnti ambigui. Esso ebbe la funzione di grande canale di riciclaggio per conto della criminalità organizzata attraverso compiacenti prestanome del clero».

 

La sfida all’establishment. Tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi anni Settanta ha luogo il tentativo sindoniano di creazione di un polo finanziario di matrice cattolica alternativo a quello di Mediobanca.

È lo scontro tra la finanza laica del Nord e quella “cattolica”, quest’ultima espressione di parte del mondo economico privato, di quello pubblico, della finanza vaticana, di settori della politica e dei servizi segreti.

Attraverso l’acquisizione de la Centrale Finanziaria e il tentativo di controllo della Bastogi (che allora era la camera di compensazione del capitalismo familistico italiano) e della Banca Nazionale dell’Agricoltura il banchiere di Patti cerca di realizzare una delle maggiori società finanziarie europee, una enorme concentrazione di potere all’interno di un contesto normativo obsoleto in quanto risalente agli albori del capitalismo italiano.

Ovviamente l’establishment di allora non se ne resta inerte a guardare e contrasta duramente il progetto. Sindona cercò di affermarsi come grande banchiere d’affari sfidando la laedership di Mediobanca e, così facendo, mettendo in discussione il potere del suo dominus Enrico Cuccia.

Ma la sua sconfitta venne sancita dal mancato controllo della Bastogi, che per lui segnerà il punto di non ritorno, dato che in quello stesso periodo inizierà il declino che lo condurrà inesorabilmente alla disgrazia.

In parallelo emergevano le serie criticità del suo ramo americano, mentre, più o meno contestualmente, a seguito della caduta del governo Andreotti, il nuovo esecutivo tripartito presieduto da Mariano Rumor, in un clima di crisi economica e stratta creditizia, attraverso il ministro del Tesoro Ugo La Malfa (repubblicano) bloccò l’operazione Finanbro, chiudendo in questo modo gli spazi di manovra residui rimasti a Sindona

È in questo periodo che si colloca il patto di ferro stretto con Roberto Calvi del Banco Ambrosiano.

Infatti, proprio a seguito delle sconfitte subite, Sindona decide di trasferirsi negli Stati Uniti d’America per lavorare al progetto della Franklin National Bank e investe il presidente dell’Ambrosiano dell’incarico tutelare i suoi interessi residui in Italia.

Lo fa costituendo una società dedicata, la Zitropo, costituita nel giugno 1972 in Lussemburgo mediante il finanziamento della Radowal, a sua volta riconducibile al Banco Ambrosiano. Attraverso la Zitropo vengono fatte transitare le partecipazioni azionarie di Sindona in capo a Calvi.

Roberto Calvi diviene dunque il fiduciario di Sindona in Italia. I due si erano conosciuti anni prima a Milano durante un pranzo organizzato dall’influente avvocato Mangoni, padre di Pier Sandro Mangoni, genero del finanziere di Patti. Sia Sindona che Calvi, inoltre, avevano un potente conoscente in comune, il sinistro monsignor Marcinkus, capo dello Ior.

 

La banca della mafia. Il Banco Ambrosiano, istituto nato come banca cattolica, aa seguito dell’intervento di Calvi e Sindona iniziò però a operare come una vera e propria “banca della mafia”.

In sostanza, venne trasformata in una lavatrice usata per riciclare il denaro proveniente dalle attività illecite poste in essere dalla criminalità organizzata.

Una banca che – secondo alcune attendibili ricostruzioni storiche – avrebbe visto la propria sorte segnata dalla sanguinosa guerra tra la cosiddetta «mafia perdente», facente capo al clan Bontate e quella «vincente» dei corleonesi, uno scontro che conobbe il suo apice all’inizio degli anni Ottanta.

Inoltre, massoni della loggia P2 di Licio Gelli o personaggi quali il faccendiere Flavio Carboni fecero parte del consiglio del Banco Ambrosiano Andino, mentre lo stesso Roberto Calvi fu il primo a trasferire attività e soldi dell’istituto in Sud America.

Al riguardo non stupirebbe dunque al voce relativa a una presunta missione in Perù condotta da una squadra degli OSSI del Sismi – della quale avrebbe fatto parte anche il maresciallo Vincenzo Li Causi, assassinato qualche tempo dopo in circostanze misteriose in Somalia -, voluta dall’allora Presidente del Consiglio dei ministri Bettino Craxi e finalizzata al sostegno del presidente peruano Alain Garcia (anch’egli socialista al pari di Craxi) e al contestuale recupero di parte del tesoro del Banco Ambrosiano fatto sparire dopo la morte di Calvi sotto il Ponte dei frati neri a Londra.

Esistono inoltre importanti documenti prodotti dal Governo federale degli Usa nei primi anni Ottanta – periodo della presidenza Ronald Reagan – che indicano l’effettuazione di singole operazioni di riciclaggio a opera del Banco Ambrosiano per conto dei boss dei cartelli del narcotraffico colombiano.

Il “buco” miliardario apertosi nell’Ambrosiano non venne mai colmato, nel senso che all’atto della liquidazione della banca questi soldi non vennero più ritrovati.

Ciò si spiegherebbe in par con l’effetto negativo del rialzo dei tassi di interesse rispetto al dollaro (che oggi definiremmo spread), che avrebbero eroso un terzo del capitale della banca, poiché è noto che i collassi delle banche si verificano molto spesso (se non quasi sempre) quando i tassi sulle esposizioni debitorie sono crescenti, dinamica che pone colui che il debito lo ha contratto nelle condizioni di non essere più in grado di fare fronte al pagamento di somme incrementatesi al punto da divenire insostenibili.

Un’altra parte dei soldi dell’Ambrosiano non si sono trovati perché in precedenza se ne era appropriato nel corso della gestione allegra della banca da parte di Roberto Calvi e del suo entourage.

Infine, ci sono quelli che devono essere ancora ritrovati.

(1 – Continua)

 

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