a cura di Mario Giro, docente di Politica internazionale e già viceministro degli Affari esteri con delega alla Cooperazione internazionale; articolo pubblicato da “Pluralia” il 26 settembre 2025, https://pluralia.com/o/usa-e-cina-guerra-o-pace/ – Quale sarà il mondo di domani? Se lo chiedono in molti dopo l’immensa parata militare di Pechino del 3 settembre. Un aspetto pare accertato: la ricomposizione dell’equilibrio delle forze inizia in Asia. D’altronde il XXI secolo non doveva essere asiatico? Questa volta è dal Pacifico che si sta rimodellando l’architettura globale, sia in termini economici che militari. L’ascesa della Cina ha definitivamente spostato l’ago della bilancia verso quell’oceano, mentre l’Atlantico si restringe e si periferizza. Come ha scritto l’ambasciatore Giampiero Massolo: «L’assetto di Tianjin non sfida alcun ordine costituito: il mondo ne è privo da tempo». Giudizio impietoso ma vero, soprattutto sull’Occidente che si è come suicidato ancor prima che la Cina potesse sfidarlo. Oggi in Europa si sente dire che è tutta colpa di Donald Trump, delle sue intemerate, dei suoi dazi e della sua insensibilità verso gli alleati. Ma a ben vedere il Tycoon non fa che proseguire, con il suo stile brutale, la politica disinteressata nei confronti dell’Europa di Barack Obama, che optò per il “pivot to Asia”, ma anche quella di Bill Clinton, che fece entrare la Cina nell’organizzazione mondiale del commercio pensando che avrebbe allargato le possibilità di mercato per gli Stati Uniti. Nessuno aveva previsto che i cinesi avrebbero colto l’occasione per trasformarsi, pur restando sé stessi. Nessuno aveva davvero ascoltato i discorsi di Deng Xiaoping sul modello giapponese e di Singapore, con i quali la Cina si preparava alla sua modernizzazione.
ASIAN VALUES
Va detto che già allora non era stata fatta una vera analisi sull’Asia, in particolare sul Giappone degli anni Ottanta, con i suoi asian values e la sua ambizione di superare l’America. Le vignette satiriche di quell’epoca rappresentano l’operaio americano grasso e sonnolento a confronto di quello giapponese dei circoli di qualità, svelto, magro e scattante, esattamente come le vignette cinesi di oggi. Il messaggio era lo stesso: l’Asia, con i suoi valori alternativi, alla fine supererà l’Occidente. È una vecchia storia (anche la guerra del Pacifico degli anni Quaranta del secolo scorso vi può rientrare), fatta di tanti tentativi che oggi forse giungono al loro culmine come reale alternativa al modello unico occidentale, non solo economico ma di lingue, cultura e religione. Il continente meno conforme e permeato di valori occidentali è proprio l’asiatico, fatta salvo l’inclinazione comune per scienza e tecnologia. La domanda su quale sia l’anima (religiosa, culturale e identitaria) dell’Asia per ora non trova risposte definitive, anche secondo la sensibilità delle religioni asiatiche (taoismo, buddismo, confucianesimo, scintoismo, eccetera), sempre in bilico tra filosofia di vita e materialismo pratico delle loro società. Fa eccezione l’induismo, un vero e proprio marchio identitario del subcontinente indiano, che rappresenta il suo universo culturale non condiviso con altri e quasi totalmente indipendente. L’islam è riuscito a penetrare in Asia con i commerci, trasformandosi in un islam diverso da quello a matrice araba che conosciamo, meno violento e più abituato alla convivenza, ad eccezione forse delle Indie britanniche, oggi India e Pakistan. Malgrado un gran lavoro missionario, il cristianesimo è prevalente solo nelle Filippine e in Corea del sud. La simpatia di papa Francesco per l’Asia si spiega anche con l’ascesa del continente nella geopolitica globale, incluso l’accordo da lui fortemente voluto con le autorità di Pechino e sovente criticato da pezzi della Curia romana. In definitiva l’Asia crede di possedere valori propri, ad esempio sul lavoro, la famiglia e la tenuta sociale, che non corrispondono a quelli occidentali basati sull’individualismo e la libertà personale. Anche sulla democrazia le visioni sono diverse.
ARMI, MA ANCHE GEOPOLITICA
Con le sue capacità militari in rapida crescita, Pechino sostiene di mirare innanzi tutto al primato regionale. Ma si tratta di un gioco di specchi se si considera che l’Asia fa i due terzi del globo: se prevarrà, la Cina avrà già un controllo globale. Accortisi in ritardo dell’espansionismo cinese, gli Stati Uniti stanno cercando di mantenere la propria posizione di potenza dominante nella regione, che oggi ribattezzano Indo-Pacifico, ottenuta con la vittoria sul Giappone nel 1945 e mantenuta dividendo la Cina di Mao dall’Unione Sovietica. Puntano tutta la posta sul controllo dei mari cinesi e dei due Oceani dispiegando risorse aggiuntive e rafforzando le proprie alleanze e partnership asiatiche. Tuttavia, l’incoerenza dei segnali lanciati da Washington dall’inizio del secondo mandato del presidente Trump sta alimentando molto nervosismo tra alleati e partner asiatici, mentre si fa largo l’idea che gli Usa non possano più essere un garante affidabile della sicurezza di ciascuno di loro e di quella regionale. A parte il Giappone e la Corea del Sud, nessun’altra potenza asiatica (India, Indonesia, Malaysia, Tailandia, Vietnam, Filippine) vorrebbe davvero essere costretta a scegliere tra Usa e Cina: tutte preferirebbero restare in equilibrio tra i due colossi. È esattamente ciò che stanno tentando di fare nel mezzo di tanti adattamenti, come si evince dall’atteggiamento prudente tenuto di fronte all’aggressività cinese sulle isole contese (spesso veri e propri scogli) nel mare della Cina meridionale. L’incertezza sugli Stati Uniti e il timore per le avances cinesi, ha già provocato una generale militarizzazione in tutta la regione, tendenza che probabilmente si intensificherà e che l’International Crisis Group ha definito «una sorta di escalation involontaria» che sta generando una corsa agli armamenti regionale. È in tale contesto che la Corea del Sud sta diventando uno dei più grandi produttori di armi convenzionali del pianeta, complice anche la guerra di Ucraina.
INDIA, DAZI E COMPETIZIONE GLOBALE
Le tensioni derivanti dai dazi di Trump hanno provocato reazioni di amara sorpresa in molti stati asiatici che contavano sul contrappeso americano. Finora tanti avevano fatto affidamento sugli Usa per mantenere la pace regionale e far rispettare i loro diritti. Oggi non ne sono più tanto sicuri. La situazione più contradditoria è quella dell’India: potenza demografica, è stata a lungo avversaria della Cina con cui ha tuttora diversi contenziosi territoriali. Ma i dazi americani l’hanno spinta verso Pechino, come si è visto con la partecipazione del premier Narendra Modi alla Shanghai Cooperation Organization (SCO) di Tianjin, anche se poi il leader indiano non si è fermato per la successiva parata militare. Fino ad ora Nuova Delhi aveva fatto affidamento sulle armi russe e francesi per la sua difesa, ma nell’ultima battaglia con il Pakistan del maggio scorso ha avuto la brutta sorpresa di vedersi surclassare dagli apparecchi cinesi J-10 che hanno abbattuto forse cinque Rafale transalpini. Una scossa che fa ripensare alla relazione con Pechino, anche se non tutto sarà facile. Dal punto di vista militare la Cina si è molto rafforzata tecnologicamente, come da quelli nucleare e convenzionale, ma resta indietro specialmente sui mari. Seppure possieda la flotta più numerosa, non ha la medesima potenza di Washington: solo tre porterei leggere contro le undici pesanti americane (lo stesso problema del Giappone durante la seconda guerra mondiale). D’altra parte, coi missili può interdire e bloccare temporaneamente le basi statunitensi nella regione e impedire alle portaerei statunitensi di avvicinarsi alla Cina. La libertà di manovra degli Stati Uniti ne sarebbe limitata ma si tratta di una strategia difensiva: Pechino non è ancora in grado di sfidare gli americani in profondità nell’Oceano. Inoltre, gli Usa si stanno adattando alle tattiche cinesi, ad esempio rafforzando la cooperazione con l’Australia ma anche con formati “minilaterali”, come il vertice inedito Usa-Giappone-Corea del Sud del 2023 e con le Filippine nel 2024; nonché l’idea del QUAD (Stati Uniti, Giappone, Australia e India), ora però in perdita di velocità a causa della guerra commerciale con Nuova Delhi. Dal lato cinese rimane comunque una contraddizione: Pechino parla di pace e di multilateralismo ma tende a usare la sua minaccia militare per spingere i paesi vicini a cedere nelle controversie sulla sovranità, a volte in violazione del diritto internazionale. In sintesi, i paesi asiatici mettono in dubbio sia l’affidabilità degli impegni di sicurezza degli Stati Uniti che le promesse di equanime multilateralismo della Cina.
GUERRA O PACE?
Il “problema Taiwan” sta dividendo la classe politica americana. Per i democratici la difesa dell’isola era considerato un punto dirimente della politica asiatica. Per Trump si tratta invece soprattutto di evitare lo scontro coi cinesi, mettendosi d’accordo sulla questione dell’industria dei semiconduttori. Le due grandi potenze devono trovare un nuovo equilibrio partendo dal porre fine alla guerra commerciale attuale. La domanda è se gli americani vogliano preservare la deterrenza al punto da dissuadere la Cina dall’attaccare i suoi alleati nella regione, siano essi tradizionali come Filippine, Australia, Giappone e Corea del Sud, o partner come Taiwan. Oppure se sia possibile trovare un accordo che soddisfi entrambe le parti senza avventure militari. Trump ritiene che gli Stati Uniti e la Cina possano collaborare su una vasta gamma di questioni: a dicembre scorso ha dichiarato che i due paesi potrebbero «risolvere tutti i problemi del mondo». Al contempo ha una visione della competizione strategica diversa dai suoi predecessori. A parte esprimere frustrazione per il surplus commerciale della Cina con gli Stati Uniti (e per i pochi sforzi di Pechino contro i precursori del fentanyl), non sembra avere particolari simpatie per Taiwan. Se potesse trovare una mediazione sulla TMSC, l’azienda produttrice di semiconduttori più grande al mondo, non è da escludere un cedimento con Pechino su Taipei. Trump è molto più sensibile all’espansionismo cinese mediante la via della seta che alle questioni militari. È una concezione che il presidente prende dalla dottrina dei restrainers, i quali sostengono che gli Stati Unit in politica estera debbano limitarsi ai propri interessi nazionali e non immischiarsi in diatribe frontaliere o territoriali altrui. In altre parole: gli Usa vogliono restare il “numero 1” al mondo ma non occuparsi di tutte le crisi come poliziotti globali. Neppure Pechino sembra pronta ad assumere tale ruolo. Ci dobbiamo abituare ad un mondo senza equilibri stabili.



