POLITICA, lavoro e referenda. Vexatae quaestiones: nell’agone politico la storia rinviene sempre la Cgil

Quarant' anni fa, il 9 e 10 giugno del 1985, in un'atmosfera politicamente torrida si tenne il referendum abrogativo del cosiddetto «Decreto di san Valentino», che aveva disposto il taglio di tre punti di contingenza sui dodici previsti per l'anno 1984

a cura di Gianluca Ruotolo – Infatti, il 14 febbraio 1984 il governo presieduto dal socialista Bettino Craxi approvò un decreto per il contenimento dell’inflazione. Il provvedimento, dai contenuti molto ampi, congelava tre punti della scala mobile solo per quell’ annualità e prendeva le mosse da un accordo di concertazione triangolare tra governo, imprese e sindacati sottoscritto da tutte le organizzazioni imprenditoriali dell’industria, commercio, artigianato, agricoltura e cooperazione nonché dai sindacati Cisl e Uil , con il consenso della sola componente socialista della Cgil. Tale accordo era stato impostato da Gianni de Michelis ministro del Lavoro e dal suo consulente Renato Brunetta.

IL DECRETO E L’ACCORDO TRIANGOLARE DI CONCERTAZIONE

All’ultimo momento non venne firmato dalla sola Cgil, che in seguito a pressioni della componente comunista maggioritaria decise di ritirarsi dalle trattative, pur avendo partecipato con i suoi segretari confederali a scrivere molte pagine dell’intesa. L’accordo di concertazione e il conseguente «Decreto di San Valentino» intendevano ridurre l’inflazione attraverso la predeterminazione per il solo 1984 dei futuri scatti di contingenza; correlativamente vennero programmati (e calmierati) gli aumenti delle tariffe e dei prezzi amministrati, tra cui l’equo canone della legge 392/78, con un impegno da parte delle imprese a contenere l’ aumento dei prezzi liberi in coerenza con tali obiettivi. Il testo dell’accordo era un libretto con l’elenco preciso delle contropartite, tra cui varie agevolazioni fiscali e l’approvazione di norme più severe contro l’evasione fiscale. Non si trattava, quindi, di una imposizione o di un colpo di mano del governo ma del risultato di iniziative di programmazione concertata. Come vedremo, la questione era essenzialmente politica e le posizioni erano chiare. Il pentapartito (assieme al Partito Radicale e con l’appoggio di Cisl e Uil, ma anche della componente socialista della Cgil e della Confindustria) si opponeva al Pci, a Democrazia Proletaria e alla componente comunista della Cgil; con loro anche il Partito Sardo d’Azione e, a destra, il Movimento sociale italiano.

LA MANIFESTAZIONE DEL 24 MARZO 1984

La reazione delle opposizioni non si fece attendere. A Roma il 24 marzo 1984 si svolse una manifestazione sindacale alla quale parteciparono centinaia di migliaia di manifestanti (le fonti sindacali parlarono di un milione di persone in piazza) mobilitati dal Pci e dalla maggioranza della Cgil (comunisti e terza componente vicina a Democrazia Proletaria) con la partecipazione del cosiddetto “Movimento degli autoconvocati”. Lo sforzo organizzativo fu immenso: 5.000 pullman, 36 treni speciali, 4 navi traghetto e 4 cortei che attraversarono in direzioni diverse il centro della Capitale. Sul fronte dei media si ricordano i collegamenti con 68 radio private e  Rai3, che trasmise in diretta il comizio di Luciano Lama. Intervenne anche un gruppo di 110 fra autori, operatori, fonici, montatori e tecnici del cinema italiano, uniti per realizzare un docufilm dedicato a quella che venne poi definita «la più grande manifestazione sindacale del dopoguerra». Il quotidiano comunista “L’Unità”, allora diretto da Emanuele Macaluso, uscì in edizione straordinaria con a tutta pagina il famoso titolo «Eccoci!», frutto del caporedattore Carlo Ricchini. C’è una celebre foto del gruppo dirigente del Pci con nel mezzo Berlinguer che tiene il giornale in mano. Subito dopo Democrazia Proletaria e il Pci iniziarono a raccogliere le firme per il referendum abrogativo, indetto per il 9 e il 10 giugno 1985.

I PRECEDENTI

L’indennità di carovita e l’accordo del 1945, Il punto unico di contingenza (1975), la svolta dell’Eur del 1978, la disdetta dell’ accordo Lama-Agnelli nel 1982, il Lodo Scotti del 1983. La scala mobile ha una storia lunga e travagliata: l’istituto comparve nel dopoguerra come indennità di carovita prevista dal Decreto Legislativo Luogotenenziale 21 novembre 1945, n.772, rubricato «Provvedimenti economici a favore dei dipendenti statali». Attraverso di esso ai lavoratori del settore pubblico venne attribuita una certa somma per adeguare, in via del tutto parziale, gli stipendi al vertiginoso aumento del costo della vita. Seguì un accordo tra la Confederazione generale dell’industria italiana e la Cgil, raggiunto il 7 dicembre 1945, poi perfezionato il 19 gennaio 1946 e ratificato il 25 maggio seguente, che assicurò un salario minimo che potesse fronteggiare la forte inflazione del dopoguerra. L’istituto ebbe quindi più vasta applicazione, dando a salari e stipendi un certo tasso di copertura. Il valore dell’indennità di contingenza percepita da ciascun lavoratore dipendeva da numerosi fattori quali categoria, livello salariale e anzianità; in due parole l’indennità era direttamente proporzionale allo stipendio. Ma nella storia della scala mobile il vero momento clou fu quello del  “punto unico” di contingenza uguale per tutti, indipendentemente dalla posizione occupata e dallo stipendio percepito, che nasce con l’accordo firmato dalla Triplice e dalla Confindustria nel lontano 1975, passato alla storia come accordo Lama- Agnelli. Va detto che la Cgil aveva inizialmente previsto una indennità di contingenza divisa in almeno tre fasce in relazione allo stipendio percepito e ad altri fattori, ma la posizione della Cisl, auspice Pierre Carniti, era favorevole al punto unico e Lama firmò pur non condividendo l’ idea fino in fondo. La novità era stravolgente, tanto che il repubblicano Ugo la Malfa polemizzò con Agnelli e disse che le parti sociali erano in fuga dalle loro responsabilità. In quel periodo in Italia l’inflazione era a due cifre. Lama e una parte del Pci evidentemente avevano alcune riserve che emersero negli anni della solidarietà nazionale, con il Pci divenuto parte integrante della maggioranza di governo. E così, quando nell’ ottobre 1976 il governo Andreotti annunciò il suo programma di austerità con una raffica di aumenti pesantissimi, l’abolizione di sette festività ed anche il blocco per due anni della scala mobile Lama, da segretario della Cgil, si dichiarò in «totale accordo» con Andreotti.

LA POLITICA DEI SACRIFICI E LA SVOLTA DELL’EUR

Il 24 gennaio del 1978 il quotidiano “la Repubblica” pubblicò un’intervista a Luciano Lama dal titolo inequivocabile: «Lavoratori stringete la cinghia». Il sindacalista, in pratica, proponeva uno scambio tra ampliamento della base produttiva per risolvere il problema della disoccupazione e una politica di forte moderazione salariale, dichiarando al riguardo: «Ebbene, se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea». Spiegandosi poi ancora meglio: «La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati nell’arco dei tre anni di durata dei contratti collettivi, l’intero meccanismo della cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a fondo». Le cose cambiarono con la fine della politica cosiddetta di «solidarietà nazionale» e il ritorno del Pci all’ opposizione. In quel periodo la situazione economica non era rosea. Nel 1980, con l’accendersi del conflitto tra Iran e Iraq il prezzo del petrolio si era moltiplicato per quattro, portando l’ inflazione al 21%, per poi scendere l’ anno successivo al 17,99 per cento. Nel 1982 si iniziò a parlare di un aggiustamento della scala mobile contro l’inflazione. Dalle parole si passò ai fatti e il 1° giugno gli industriali disdettarono l’accordo Lama-Agnelli del 1975. Il sindacato reagì subito con gli scioperi generali del 2 e del 25 giugno e la palla ritornò al centro, per il momento senza ulteriori novità. Il Decreto di San Valentino del 1984 non costituì una novità nella sua impostazione. Circa un anno prima, infatti, venne firmato il Lodo Scotti del 22 gennaio 1983; anch’esso era un accordo trilaterale tra governo, la triplice Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, con il quale le parti sociali si impegnarono a ridurre l’inflazione al 13% nel 1983 e al 10% nel 1984. Tale accordo, molto complesso e suddiviso in quattordici punti, richiese un anno e mezzo di trattative e prese il nome da Vincenzo Scotti, ministro democristiano del Lavoro e della Previdenza sociale. In tal modo cessava il duro scontro sociale in atto tra sindacati e parte datoriale e si raggiungeva un compromesso. Da un lato le organizzazioni sindacali  s’impegnarono a sospendere la contrattazione integrativa, dall’altro la Confindustria sbloccò il rinnovo dei contratti le cui trattative erano ferme da tempo. Tra gli altri contenuti del documento non vanno dimenticati gli orari di lavoro, la scala mobile, la pressione fiscale nonché le tariffe e i prezzi amministrati.

I RETROSCENA

Luciano Lama guidò la campagna referendaria della CGIL fin dalla manifestazione del 24 marzo 1984, quando fece anche un memorabile discorso. Era noto ormai da tempo che non fosse entusiasta della scelta referendaria, che considerava un errore. Al riguardo vale la pena di leggere qualche passo di un suo scritto pubblicata su “Collettiva Cgil”: «La Cgil è stata fino all’ultimo minuto utile al tavolo della trattativa. La sabotò De Mita. E la Confindustria non esitò ad approfittarne per far saltare l’intero negoziato. Si è visto sei mesi dopo il referendum, quando la Confindustria ha rotto la trattativa diretta con il sindacato». Ma non basta: «La mia tesi era che si sarebbero dovuti valorizzare questi miglioramenti, e non arrivare allo show down del referendum (…) noi potremmo anche votare contro in Parlamento, perché c’era sempre quella tale questione per cui si attribuivano ai lavoratori responsabilità che non avevano, nel processo inflattivo. Ma tirare la corda, soprattutto dopo che avevamo avuto anche un successo parziale, era un errore, per due motivi: il primo, per me più importante, era che avremmo compromesso forse definitivamente l’unità sindacale e messo in discussione quella della Cgil, cosa mai avvenuta dal 1945 al 1985, perché con i socialisti eravamo sempre stati insieme; il secondo era che il referendum l’avremmo perso (…) ma non ci fu niente da fare e il mio partito decise che bisognava fare il referendum. Allora le cose andavano così, e io dissi: “Va bene, facciamolo; lo perderemo ma facciamolo”».

GIORGIO BENVENUTO E LA UIL

Giorgio Benvenuto è stato segretario generale della Uil dal 1976 al 1992. Anche lui giudicò il referendum come un’imposizione voluta dal Pci. Secondo lui se Berlinguer non fosse morto sarebbe stato possibile un accordo in extremis per evitarlo. Riportiamo di seguito alcuni punti di una sua intervista rilasciata a “BeeMagazine” nel marzo de 2024: «Lodo Scotti. Il Pci non vedeva di buon occhio che ci fosse un rapporto costruttivo con un governo che non tenesse al suo interno anche i comunisti. Berlinguer chiese un incontro alla federazione Cgil, Cisl e Uil, venne nella sede unitaria e si rivolse a Lama, che cercava di spiegare le ragioni di questa intesa. Berlinguer gli disse: “Luciano, non comportarti come di solito in modo superficiale. Tu devi capire che se il Pci è all’opposizione non ci può essere pace sociale, non ci possono essere intese di carattere politico che escludano i comunisti”. Berlinguer riesumò la teoria per cui la Cgil doveva fungere da cinghia di trasmissione del Partito comunista». Era possibile un accordo unitario? E come la pensava Lama? «Lama era convinto della necessità dell’accordo unitario tra sindacati e governo, ma Il Pci fu irremovibile (…) noi tentammo di andare verso l’accordo unitario ma non ci fu niente da fare. Andai una volta ad un incontro con Berlinguer insieme a Carniti di cui sono sempre stato molto amico, Carniti cercava di fare un discorso nel merito e l’altro faceva un discorso di principio ideologico. Berlinguer diceva: “Non ci può essere accordo se non ​c’è il sì del Pci, voi alterate la Costituzione! noi comunisti siamo sempre stati sentiti e non possiamo accettare che vengano prese decisioni che riguardano il mondo del lavoro senza la partecipazione del Pci. Non basta la Cgil». Quali erano i rapporti di Craxi con Lama? «Craxi aveva uno splendido rapporto con Lama (…) Quando sul “Avanti!” si facevano le interviste ai segretari generali dei sindacati Craxi voleva farla lui direttamente a Lama, e questo fino a che divenne presidente del Consiglio. Craxi considerava Lama un socialista e un riformista». Le stesse tesi sono riprese e sviluppate nel libro di Giorgio Benvenuto, “Il sindacalista e la storia”

LA FINE È NOTA

La campagna referendaria fu lunga e difficile e il risultato fu in dubbio fino all’ultimo momento. Molti sindacalisti, anche al di fuori della Cgil, ritennero che per motivi di interesse economico i lavoratori avrebbero votato Sì all’abrogazione del decreto, anche perché i primi sondaggi avvaloravano queste impressioni. Il Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, si impegnò a fondo in questa battaglia spiegando agli elettori le ragioni del No, invitandoli a sostenere le ragioni del governo e della stabilità politica ed economica, minacciando in caso di sconfitta le proprie dimissioni. Nella stessa direzione si mosse anche il segretario generale della Cisl Pierre Carniti. Ora noi sappiamo che anche ai vertici del Pci venne più di un dubbio. Leggendo le memorie di dirigenti importanti come Luciano Barca, membro della direzione del Partito comunista italiano e responsabile della Commissione economica, o di Giorgio Napolitano, si evince come molti dirigenti del partito ritennero il referendum un errore clamoroso. Tra i responsabili della scelta referendaria vi fu anche Alessandro Natta, che in seguito sarebbe stato il successore a Berlinguer alla segreteria del Partito. Al riguardo è interessante ricordare la posizione di Giuseppe Chiarante, allora senatore comunista di matrice rodaniana, allo scopo citiamo un passo dal suo libro “Da Togliatti a D’Alema”, pubblicato nel 1996: «In parte per un atteggiamento di disarmo da parte di coloro che consideravano la difesa della scala mobile come una battaglia insieme massimalistica e di retroguardia, in parte per l’aprirsi nel partito di un confronto sulla leadership che faceva passare in seconda linea i singoli temi di iniziativa e di discussione ci fu un quasi totale disimpegno rispetto alla campagna elettorale per un referendum che pure erano stati proprio i comunisti a chiedere. Il paradosso fu che i risultati diedero ai sì un risultato largamente superiore al previsto (…) dimostrando che con un impegno reale e mobilitante quel referendum si sarebbe potuto anche vincere». In seguito alla politica del preambolo (congresso della Democrazia cristiana del 1980) che escluse nuovi governi con la partecipazione del Pci, l’allora segretario generale Enrico Berlinguer, dopo qualche tentennamento, puntò tutto su uno schieramento di alternativa democratica, definito da alcuni la «seconda svolta di Salerno», questo per vincere le elezioni e collocare la Dc all’opposizione. Di questo schieramento, il Psi di Craxi sarebbe dovuto essere parte integrante, ma prima alcune pesanti dichiarazioni di Berlinguer nei confronti dello stesso Craxi (da lui considerato un pericolo per la democrazia), poi la rottura referendaria seguita da una pesante sconfitta, aggravarono l’isolamento del Pci, che si ritrovò senza alleati e senza una politica. I risultati furono chiari: nelle urne il ottenne il 45,68% dei suffragi (15,4 milioni di voti), il No 18,3 milioni di voti, una percentuale pari al 54,32% dei suffragi. Il 10 giugno 1985, subito dopo la chiusura dei seggi, la Confindustria disdettò nuovamente l’intesa, salvo poi  aderire, l’8 maggio del 1986, al testo della nuova intesa già raggiunta per il pubblico impiego tra il governo e i sindacati.

L’ACCORDO DEL LUGLIO 1991 E LE DIMISSIONI DI TRENTIN

Il Decreto di San Valentino e il referendum non segnarono il venir meno della scala mobile, che continuò nella sua vigenza fino al 1992. La sua fine iniziò invece nel 1990, a seguito di un’ulteriore disdetta unilaterale della Confindustria, che ormai vedeva nella indicizzazione di stipendi e salari un costo e non più un prezzo da pagare per la pace sociale. La scala mobile venne eliminata definitivamente in un momento di grave crisi economica con la firma del protocollo triangolare di intesa tra il Governo Amato e le parti sociali il 31 luglio 1992. Nella stessa occasione venne anche abolita l’indennità di contingenza, introducendo per tutti i lavoratori dipendenti (dirigenti esclusi) il nuovo EDR (elemento distinto dalla retribuzione). L’accordo fu annunciato in sala stampa. Poi scesero le delegazioni di Confindustria, Cisl, Uil; infine il Governo. Per la Cgil non si vide Bruno Trentin, segretario generale, ma intervenne il suo portavoce. Il giorno dopo si seppe che Trentin, dopo aver firmato l’accordo, si era dimesso. Dopo un’ estate di dure polemiche, nella prima settimana di settembre ad Ariccia si riunì la direzione della Cgil, nel corso della quale il segretario generale ritirò le proprie dimissioni. Tutto finì senza decreto, senza manifestazioni, senza referendum: senza niente.

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