Afferma Gigi Vinci, curatore dell’evento: «La rovina, intesa anche come caduta degli dei, è una metafora di autodistruzione di immortali. Il che sembrerebbe paradossale, eppure è teorizzabile laddove, terminato un ciclo, le divinità nella piena coscienza del loro potere decidono la loro stessa fine. Il concetto della morte di divinità, di Dio e di potenti, è già stato formulato in diverse speculazioni filosofiche, cinematografiche ed artistiche: ad esempio con “Dio è morto”, Nietzsche intende l’abbandono della fede cristiana e quindi di tutti i valori morali e teologici che essa comporta. Questo abbandono, per il filosofo, porta l’uomo al rifiuto di qualsiasi valore assoluto e quindi, a poco a poco, al nichilismo, fino a fare di sé stessi divinità fragili, impotenti e mortali».
DIO È MORTO
«Mi è anche piaciuto nel titolo della mostra intravvedere il dramma della rovina morale di potenti – egli prosegue -, già esplorato da Luchino Visconti nel film “La caduta degli dei”, che mette in scena un simbolico parallelismo tra le lotte familiari, con gli dèi che costituivano una famiglia con legami di sangue, e le atrocità di un regime totalitario, compiute anche per capriccio degli dèi. Lucio Fontana, invece, ha una intuizione completamente diversa del trascendente: infatti, il “The End of God” non è una dichiarazione nichilista, ma piuttosto una celebrazione del divino nel mondo materiale. Fontana vedeva l’arte come un mezzo per oltrepassare le limitazioni terrene e connettersi con il regno spirituale. La mostra alla Galleria Artètika si prefigge di esplorare altri aspetti più intimisti attraverso delle fluide chine e psicologiche macchie, il fascino sinistro ed esoterico di figure mitologiche nell’espressione dei loro vizi e dei loro vezzi. Il tutto conduce, attraverso un processo di anamnesi, alla mostruosità che, determinate volte, si cela nella condizione umana, la quale spesso porta l’uomo all’autodistruzione, rovinando dalla divinità che di sé stesso ha fatto ed a cui ha reso paganamente culto».
CARTA VELLUTATA
«Per Sergio Di Paola la carta è vellutata come un petalo di magnolia appena aperto – sottolinea il critico Massimiliano Reggiani -, ha la sensualità del mistero non ancora profanato; è il luogo dell’attesa e del possibile incontro. Donarsi all’ebbrezza di un salto nel vuoto, alla vastità di un cielo stellato. La carta è per lui un rifugio, un universo dai margini definiti e dalle profondità insondabili. Al foglio manca la spaesante lucentezza d’oro delle icone ortodosse ma è intriso della medesima luce che filtra attraverso le sue fibre cotonose e soffici. La carta assolve alla medesima funzione della pittura sacra su tavola: permette all’al di là senza voce né corpo materiale di affacciarsi verso l’osservatore. In questo ribaltamento prospettico il contingente diventa un episodio passeggero, una danza di muscoli e sguardi, un abito, un profumo, la maschera di un essere che vive nel mondo fuori dalla cornice e assiste, da spettatore, alla grande epopea che i fogli racchiudono e, magicamente, disvelano».
L’EPOPEA DISVELATA DALLE CHINE DELL’ARTISTA
«Le chine dell’artista marsalese – prosegue il Reggiani -, che per geografia di nascita ha vissuto gli strati e i sedimenti dell’antichità preromana, parlano la lingua dei classici. Lilibeo, infatti, è il centro punico che si stende sotto l’attuale Marsala islamica e riaffiora nelle vestigia archeologiche, nei ricchi musei o – come in questo caso – nell’inconscio dell’autore. Le sue figure hanno nomi antichi e ancor più arcaici sono i miti che palpitano sanguigni nella loro ascendenza. Allo stesso tempo, però, sono divinità mute, denudate dei simboli che per millenni le hanno adornate e vestite. Chi sono quindi questi corpi e volti, queste membra solo accennate, queste linee antropomorfe che danno consistenza ai personaggi e al loro apparire? Sarebbe una ricerca vana assecondare ogni suggestione, trovare nel titolo il riscontro ad una fonte, cercare il frammento o la leggenda che li hanno generati. Sono queste ombre fragili figlie di parole, progenie di un canto ormai svanito? No. Non è questo che Sergio Di Paola ci racconta. Nella sua colta e riflessiva esistenza, l’Artista semplicemente ci tende la mano per condividere uno spazio che, per i libri di storia, è ormai trascorso e appartiene al passato. Secondo i più può, al massimo, essere riletto nella chiave della psicoanalisi».
UN VATICINARE INDIRETTO, PERCETTIBILE
«Egli, invece – si dice convinto il critico -, pone il proprio corpo al servizio di un mondo solo in apparenza perduto. Si fa pontefice, ministro e tramite sublimando nel foglio di carta la propria pelle. Lascia che il gocciolare della china, il corso leggero del pennino, lo scorrere del tempo, graffino e feriscano, aprano e lascino affiorare ciò che sta sotto, quel che si cela nella propria fertile mente. In un rapporto assoluto e intimo, nell’equilibrio acrobatico fra la macchia e l’assorbenza, fra la linea e la colatura, fra l’intuizione e il ragionamento la carta svela il potenziale di ciò che sembrava ormai dimenticato. Narrano gli antichi che a Delfi, nel santuario di Apollo, i vaticini del dio non fossero mai diretti, né evidenti. Eppure, nonostante l’ambiguità di molte delle parole ispirate alla sacerdotessa, tutti guardavano a quel tempio con timore e venerazione, con sconfinata speranza e ricchissimi doni. Parlava così ai popoli il fratello di Artemide e figlio di Leto o erano le genti a trovare nella voce della Pitia il riscontro alle proprie aspirazioni? Lo stesso ragionamento vale per Sergio Di Paola, per quest’arte raffinata fatta di segni leggeri e di grandi ombre che s’innervano nelle sue fibre più nascoste».
NERI E ROSSI
«È la sua conoscenza dell’iconografia classica, la sua passione per l’arte, la sua volontà di rappresentare che portano alla realizzazione dell’opera o sono forse le fioriture improvvise di neri e di rossi a suggerirgli il percorso e il significato di quel che via via va apparendo? L’arte di Sergio Di Paola non è solo colta ma è soprattutto potente. Parla del sacro senza scadere nella mera narrazione, allude alle presenze che, pur nel razionalismo oggi imperante, continuano ad aggirarsi come figure maestose dietro le quinte della storia. Divino è il candore senza macchia della superficie bianca, sacra è la sua violazione, incerto ma sconvolgente è ciò che vi scopre dietro, o meglio, dentro. Varcare la soglia, accedere al tempio, penetrarlo e tornare nel mondo proteggendo la violenza e la bellezza di questo connubio con un ricamo di linee sottili. In questo caso l’artista ha nel Romanticismo più alto e sublime la culla profumata del proprio linguaggio estetico».
SERGIO DI PAOLA
Sergio Di Paola, nato a Palermo nel 1997, è un poliedrico artista la cui formazione, radicata negli studi classici s’intreccia con una profonda passione per le arti figurative. Caleidoscopico sperimentatore, estende la propria ricerca creativa anche alla scrittura, esplorando con eguale intensità la poesia, la prosa e un narrativo di gusto arcaicizzante, in un dialogo costante con i fasti dei secoli passati che riflette la medesima sensibilità della sua produzione artistica. La sua ricerca si nutre di conoscenze segrete, verità universali, esoterismo e mistero, elementi che affiorano nei suoi lavori con un’intensità visionaria e mistica, tra il visibile e l’invisibile. La sua formazione è segnata da incontri fondamentali: mediante il confronto con due maestri del territorio, Jole Cascio Briuccia e Vito Linares, che gli ha permesso di saziare la propria sete di conoscenza: osservando, assimilando e sperimentando, ha sviluppato una padronanza tecnica e concettuale che gli permette di spaziare tra tecniche tradizionali e sperimentali.
DIALOGO COSTANTE CON I FASTI DEL PASSATO
Le duecento opere che ha realizzato, diverse per formato, supporto e tecnica, rivelano delle costanti: la precisione del tratto, la ricercatezza cromatica e una straordinaria capacità di evocare atmosfere dense di significato, dove l’architettura delle forme si sposa con un simbolismo personalissimo. Un grave incidente stradale verificatosi nell’estate del 2019 lo costrinse a una pausa forzata dalle scene espositive. Quel periodo, apparentemente di ritiro, si rivelò poi un’intensa fase di metamorfosi interiore e tecnica. Lontano dai riflettori, infatti, approfondì lo studio delle simbologie antiche, affinando il proprio controllo del segno e sperimentando nuove alchimie materiche. Quel silenzio pubblico non fu dunque abbandono, bensì gestazione. Un tempo sospeso nel quale l’arte, coltivata nell’intimità del suo studio, si purificò e potenziò. Realizzò opere più mature, in cui la sofferenza si trasfigurava in una ricerca ancora più raffinata, dimostrando come anche le prove più dure possano divenire linfa creativa.