Gerusalemme, 13 maggio 2025 – Il suo è un evidente messaggio inviato anche e principalmente ai suoi alleati nella coalizione di governo, l’estrema destra e gli ultrareligiosi, reso pubblico nel mentre i negoziatori dello Stato ebraico si accingono a raggiungere Doha, in Qatar, nel tentativo di rassicurare Ben Gvir, Bezael Smotrich e i loro seguaci sul fatto che Israele non porrà fine alla guerra.
TREGUA TEMPORANEA
A meno che Hamas non accetti di disarmarsi, Gerusalemme accetterà soltanto una tregua temporanea, pattuita in cambio della liberarazione di alcuni degli ostaggi tenuti segregati dal 7 ottobre di due anni fa dall’organizzazione islamista radicale palestinese. Nel corso dell’incontro avuto con dei militari delle IDF rimasti feriti nei combattimenti, Netanyahu si è rivolto a loro confidandogli «di prevedere per Gaza cose che non avete mai visto». La rassicurazione ai partiti alleati era stata fatta nel pomeriggio di ieri, quando telefonicamente il primo ministro in carica gli aveva garantito che non avrebbe accettato di porre fine alla guerra se non dopo la sconfitta di Hamas, inoltre, di avere deciso per la tregua a seguito della richiesta fattagli dall’amministrazione Trump di inviare una squadra di negoziatori a Doha al fine di riavviare le trattative per la liberazione degli ostaggi con il gruppo terroristico che risultano ferme ormai da tempo.
LE PRESSIONI DELLA CASA BIANCA SU NETANYAHU
Netanyahu ha accolto la richiesta di Washington dopo aver incontrato Steve Witkoff, inviato speciale degli Stati Uniti d’America in Medio Oriente, e aver parlato al telefono brevemente con il presidente Donald Trump dopo che Hamas aveva rilasciato l’ostaggio dalla doppia cittadinanza israeliana e statunitense, Edan Alexander, tenuto prigioniero nella striscia di Gaza per 584 giorni. Un rilascio definito come un gesto di buona volontà nei confronti del presidente americano da parte di Hamas, dopo che quest’ultimo aveva ottenuto rassicurazioni da un mediatore terzo che il passo avrebbe avuto un impatto significativo sulla Casa Bianca, aprendo la strada a una possibile pressione esercitata dall’amministrazione Trump su Israele affinché ponesse termine al conflitto. Tuttavia (almeno stando a quanto riportato da buona parte della stampa israeliana), Netanyahu avrebbe dichiarato che non arresterà l’offensiva sul campo di battaglia prima che le capacità militari e di governo di Hamas siano state completamente smantellate.
«BIBI» IN BILICO TRA TRUMP E GLI ALLEATI DI GOVERNO
Una posizione che rischia di metterlo in contrasto sia con l’organizzazione islamista radicale palestinese che controlla militarmente la Striscia che con gli Stati Uniti d’America, i cui esponenti dell’amministrazione in carica a Washington ricorrono da mesi alla retorica della «fine della guerra» a Gaza, mentre Israele minaccia di espandere massicciamente le operazioni militari per rioccupare l’intera Striscia. Il presidente Donald Trump ha definito la decisione di Hamas di rilasciare Alexander come un «passo compiuto in buona fede nei confronti degli Stati Uniti e degli sforzi dei mediatori (…) per porre fine a questa guerra brutale e restituire tutti gli ostaggi viventi e le spoglie (di quelli morti, n.d.r.) ai loro cari». Sebbene i risultati di numerosi sondaggi effettuati sull’opinione pubblica israeliana indichino che una netta maggioranza degli interpellati è favorevole alla fine della guerra se questo comporterà il rilascio degli ostaggi, Netanyahu ha comunque respinto questo scambio, sostenendo che manterrebbe Hamas al potere. Sulla medesima linea politica anche i suoi alleati di governo dell’estrema destra, che negli ultimi giorni hanno minacciato ripetutamente di togliere la maggioranza al governo e farlo così cadere qualora si approvasse un accordo del genere.
NEGOZIATI A DOHA E VISITE UFFICIALI DI TRUMP NELLA REGIONE
In questo difficile contesto, la delegazione di negoziatori israeliana parte alla volta di Doha per un altro round di colloqui indiretti con Hamas, mediati da Qatar, Egitto e Stati Uniti d’America. Il primo ministro israeliano farà affidamento sul suo consigliere diplomatico, Ophir Falk, Gal Hirsch e un ex vice direttore dello Shin Bet. nel frattempo, Donald Trump si appresta a visitare la regione, iniziando i suoi incontri ufficiali in Arabia Saudita, quindi si recherà in Qatar e successivamente negli Emirati Arabi Uniti. Sono trapelate voci relative ai temi che verranno trattati nel corso di questi incontri e, almeno per ora, il conflitto di Gaza non vi rientrerebbe. Tuttavia, nulla esclude che venga infine sollevato durante i colloqui con i leader delle monarchie del Golfo, seppure il tour del presidente statunitense sia stato incentrato principalmente sugli interessi economici di Washington nella regione. Israele ha minacciato di lanciare la sua principale operazione militare a Gaza una volta che Trump avrà lasciato il Medio Oriente venerdì, se Hamas non accetterà un accordo sulla presa degli ostaggi entro quella data.
TREGUA E DISARMO DI HAMAS
Resta il fatto che Netanyahu ieri ha confermato ai suoi alleati di governo che, «nonostante l’invio di una squadra negoziale a Doha la sua posizione non è cambiata» e che «ai negoziatori è stato conferito esclusivo mandato di discutere la proposta Witkoff», che prevede il rilascio di almeno metà degli ostaggi sequestrati da Hamas in cambio di un cessate il fuoco di settimane. Durante quella tregua, se vi sarà, Israele si è reso disponibile a negoziare la fine definitiva della guerra, ma non accetterà nulla di meno del disarmo di Hamas, oltre alla sua rinunzia al controllo della striscia Gaza. Dal canto suo, Hamas avrebbe reso noto di essere pronta a cedere il controllo della Striscia e di accettare una tregua di anni con lo Stato ebraico che preveda garanzie di sicurezza, ma rifiuta un disarmo permanente. Ha inoltre chiesto ai mediatori garanzie, formalizzate in una risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che impediscano a Israele di riprendere i combattimenti qualora Hamas accetti di rilasciare gli ostaggi rapiti. I mediatori arabi hanno al riguardo affermato che si troveranno a dover affrontare un duro lavoro per convincere il movimento islamista radicale palestinese a rilasciare gli ostaggi in assenza di una garanzia che Israele porrà fine alla guerra, poiché il precedente accordo firmato in gennaio avrebbe dovuto prevedere l’avvio di colloqui tra le parti sui termini di un cessate il fuoco permanente, però Netanyahu si è rifiutato di farlo e la tregua è crollata a marzo a seguito della prima delle tre fasi previste.
L’INCERTO FUTURO DEI PALESTINESI
Nel passato Washington aveva sostenuto questa formula, incontrando il favore di gran parte dei Paesi arabi, tuttavia si tratterebbe di un processo graduale che richiederà a Israele di consentire la creazione di un’alternativa valida nella striscia di Gaza imperniata sulla riforma dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Ma Netanyahu si è rifiutato di concedere all’Anp un appoggio significativo a Gaza, decisione che ha quindi impedito a una parte dei Paesi arabi di partecipare alla gestione postbellica della Striscia, poiché essi condizionano il loro sostegno alla definizione di un concreto orizzonte politico nella direzione di un’eventuale soluzione a due Stati. In mancanza di alternative ad Hamas la guerra a Gaza si è protratta a lungo, con l’organizzazione islamista palestinese che è riuscita a continuare a reclutare combattenti, tornando spesso nelle aree brevemente sgomberate dalle IDF. Dopo aver affermato durante i primi mesi di guerra che Israele non intendeva rioccupare Gaza, un simile risultato viene invece considerato sempre più probabile e Netanyahu e i suoi partner della coalizione di governo lo stanno ora apertamente caldeggiando quale loro obiettivo.