Nell’odierno PIL del Vietnam, il 7.5 % è merito del turismo che ha trasformato un’economia prevalentemente agricola in una di servizi. Il 2019 ha segnato 18 milioni di turisti internazionali nel Vietnam. Numeri che ne hanno fatto il quinto paese più visitato nel continente asiatico, secondo la classifica del turismo mondiale pubblicata dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite. Ridimensionata dalla pandemia del Covid 2019, questa cifra è tornata a crescere sfiorando nuovamente i 18 milioni di turisti lo scorso anno.
Girando per le località turistiche, tra molti turisti asiatici – coreani e cinesi, soprattutto – s’incontrano tanti francesi e americani con occhi che sembrano ancora non capacitarsi delle vittorie perdute dai loro nonni e padri. Fino a quando non si immergono nei cunicoli della cittadella sotterranea di Cu Chi, a una trentina di chilometri da Ho Chi Minh City, dove solo uomini che avevano una immensa fede nella vittoria potevano rifugiarsi per combattere. I parenti dei 58.318 nomi incisi nel granito nero del Memorial Wall di Washington DC, ne traggono la conferma: sono morti in una guerra che non potevano vincere.
Erano i figli esclusi dell’America e si ritrovarono a combattere non solo i vietcong, ma anche l’opinione pubblica internazionale che si era fatta un’opinione sulla “sporca guerra” sulla base di quanto vedeva nei telegiornali, leggeva nei dispacci di Michael Herr o nelle corrispondenze di Oriana Fallaci e degli altri giornalisti ospiti del Hotel Continental di Saigon, oppure nelle foto scattate da Sean Flynn, già attore e figlio del più noto Errol, morto in Cambogia nel 1970 durante un reportage.
FALCE E MARTELLO SUL GRATTACIELO DELLA BANCA
Molti dei turisti incrociati sui campi di battaglia sono russi che si muovono con arroganza da “padri padroni”, circondati come sono dalle familiari bandiere rosse con la falce e martello, più simbolo storico e icona del passato che dell’attuale realtà socio-economica vietnamita. Addirittura paradossale quando la vedi in una animazione luminosa sulla facciata di un grattacielo di proprietà di una grande banca ad Hanoi, insieme alla stella gialla su fondo rosso, la bandiera nazionale.
Il Vietnam di oggi è un paese che si professa socialista, ma senza troppa burocrazia dove Grab, l’Uber locale, convive e prospera accanto ai servizi di trasporto urbani. Un paese dove aprire un’attività commerciale privata è molto più semplice di quanto non sia in Italia. Un paese che cresce nei numeri dell’economia – secondo produttore di caffè e quinto di riso del mondo – e della demografia – 105 milioni di abitanti, gran parte dei quali con un’età inferiore ai 45 anni -. Un paese destinato a diventare una delle future “tigri” del sud est asiatico.
IL VIETNAM E’ UNO DEI PRINCIPALI PARTNER DEGLI USA
I dazi del 46% introdotti da Trump nei confronti delle merci esportate negli Usa dal Vietnam, hanno riavvicinato quest’ultimo alla Cina di Xi Jinping che ha colto l’occasione per chiudere 45 accordi commerciali con il paese. Ciò nonostante, il Vietnam rimane uno dei dieci principali partner degli Stati Uniti con i quali sono giunti al secondo anno di Partneriato Strategico Globale (CSP) firmato nel 2023 da Joe Biden e dal defunto segretario generale del partito comunista del Vietnam, Nguyen Pho Trang.
In questo quadro, l’americana Amkor sta aprendo in Vietnam uno stabilimento per i semiconduttori da 1.6 miliardi di dollari. Mentre altre aziende prevedono investimenti per 8 miliardi di dollari nel paese, che intende così inserirsi nella scia di Taiwan, Cina, Giappone e Corea del sud nel settore dei semiconduttori. Non solo i marchi dello sportswear, dunque, ma anche l’hi-tech a cui Apple ha fatto da apripista. Con l’azienda vietnamita di auto e scooter elettrici VinFast (quotata a Wall Street) che ha aperto una fabbrica negli USA in North Carolina.
SMENTITA LA “TEORIA DEL DOMINO”
Cooperazione commerciale con gli USA sì, ma il Vietnam, seguendo l’esempio dell’India, si sottrae ad ogni alleanza militare, preservando così la propria sovranità nazionale. A 50 anni dalla caduta di Saigon, la “Teoria del domino” profetizzata dal presidente Eisenhower, poi fatta propria dai successori JFK, Johnson, Nixon e Ford, secondo cui un Vietnam comunista avrebbe contaminato l’intera Indocina, non si è concretizzata. Anzi nel 1979-1980 è stata addirittura smentita dal conflitto con l’ex alleato cinese, a causa della Cambogia conquistata dai Khmer rossi.
Il Vietnam del 2025 non è la minaccia marxista che Washington temeva. Dopo 30 anni di normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti è una nazione vivace e aperta agli affari, con numerosi americani in vacanza a Da Nang – oggi simile a Miami – sulle spiagge che nel marzo 1965 videro lo sbarco dei primi marines. Primo atto di un conflitto in cui pur vincendo tutte le battaglie gli Stati Uniti hanno perso la guerra, ma anche la dimostrazione che il libero mercato può essere più risolutivo delle armi (2 – fine)