ISRAELE, intelligence e politica. «Bibi» sulla falsariga di «The Donald» liquida i poliziotti scomodi

Al pari di Donald Trump, anche Benjamin Netanyahu, dalla sua posizione apicale di potere, si scaglia contro l’asserito «deep state di sinistra» (che, per altro, sta indagando su di lui nel caso «Qatargate«). L’Alta Corte dello Stato ebraico ha comunque bloccato il dimissionamento del direttore dello Shin Bet che il primo ministro aveva ordinato. L’unica democrazia del Medio Oriente si trova dunque ad affrontare una resa dei conti intestina senza precedenti nella sua storia, con un capo dell'intelligence in carica che è costretto a resistere al primo ministro, questo mentre Israele è in guerra da mesi contro gli islamisti radicali di Hamas nella striscia di Gaza

Sostiene Dan Perry in un suo articolo pubblicato di recente – https://danperry.substack.com/p/netanyahu-fires-shin-bet-chief-who -, che la democrazia israeliana ha conosciuto altre crisi, tuttavia poche sono state così concentrate, consequenziali e assurde come quella che ora affligge il Paese.

SULLA FALSARIGA DI DONALD TRUMP

Egli aggiunge che questo genere di caos potrebbe suonare terribilmente familiare agli americani, poiché «il primo ministro Benjamin Netanyahu sta esplicitamente attingendo al manuale dell’erosione democratica scritto dal presidente Donald Trump». Infatti, il premier dello Stato ebraico negli ultimi mesi ha cercato di dimissionare il Procuratore generale, figura che nel sistema istituzionale israeliano riveste una posizione indipendente e potente. Adesso, quello stesso procuratore generale sta bloccando il tentativo di Netanyahu di estromettere anche il capo dell’agenzia di sicurezza interna, lo Shin Bet (o Shabak, Sherut HaBitachon HaKlali, Servizio generale di sicurezza), Istituto attualmente impegnato nella conduzione di una indagine sulle attività poste in essere dai consiglieri del primo ministro, in quanto sospettati di avere ricevuto illecitamente dei finanziamenti dal Qatar.

«BIBI» E I SOLDI DEL QATAR

Appresa la notizia, il direttore dello Shin Bet aveva in seguito affermato di poter anche «non accettare» un suo licenziamento. È in ogni caso opinione diffusa in Israele, sottolinea nel suo articolo Perry, come attraverso questa e altre azioni del genere il governo presieduto da Netanyahu abbia silenziosamente ripreso il suo attacco al sistema giudiziario, che era iniziato nel 2023. «Un leader che tenta disperatamente di indebolire la magistratura indipendente, che per lui è la maggiore minaccia – scrive al riguardo Perry -, cercando altresì di piegare le agenzie di intelligence alla propria volontà personale, e che lavora per screditare sistematicamente ogni istituzione e individuo in grado, in qualsiasi modo, di controllare il suo potere. Vi suona familiare?», si interroga alla fine l’estensore dell’articolo.

IL MODELLO AMERICANO DI EROSIONE DEMOCRATICA

E prosegue argomentando che forse, in caso contrario, le parole di Netanyahu pronunciate questa settimana potranno fungere da utile spunto per una riflessione. «In America e in Israele, quando un forte leader di destra vince un’elezione, il deep state  “di sinistra” trasforma il sistema giudiziario in un’arma per ostacolare la volontà del popolo», ha infatti scritto il premier israeliano su X, la piattaforma social media di proprietà dell’attuale braccio destro di Donald Trump, Elon Musk. «Non vinceranno in nessuno dei due posti! – ha quindi aggiunto Netanyahu – Restiamo forti insieme». Eppure, evidenzia a questo punto Perry, Netanyahu si è dimostrato diverso da Trump nella suaa capacità critica, poiché non è stato capace di scatenare il caos in un modo altrettanto efficace come è riuscito a fare il suo amico americano. Non è stato in grado di licenziare i procuratori che indagavano sulle numerose accuse sollevate in giudizio contro di lui, non è riuscito a sfidare i tribunali e non è stato in grado di politicizzare l’apparato della pubblica amministrazione così come invece Trump ha tentato di fare con l’FBI e il Dipartimento di Giustizia.

LE VALVOLE DI SICUREZZA DI ISRAELE

Ad avviso di Perry, la ragione di questa differenza risiederebbe nella differente struttura delle due democrazie: mentre gli Stati Uniti d’America, nonostante i molteplici strati di resistenza insiti nel loro sistema federale, sono giunti nel tempo a coinvolgere quella che è stata definita una «presidenza imperiale» con vasti poteri e il diritto di emanare ampi ordini esecutivi, in Israele questo non è stato fatto. Già, poiché nello Stato ebraico, pur in asenza di una costituzione scritta da interpretare e, dunque, in un sistema che si è sviluppato ad hoc, la carica apicale dell’esecutivo, oggi ricoperta da Netanyahu, si vede attribuiti meno poteri. «Israele – sostiene Perry – ha una magistratura autorevole e sufficientemente potente, un’istituzione di sicurezza iconica (Shin Bet, Mossad e Aman, più le forze di polizia, n.d.r.), oltre a un gruppo tradizionalmente formidabile di gatekeeper genuinamente dediti alla democrazia liberale, cioè i tribunali e tutti i funzionari pubblici coordinati dal procuratore generale e dai consulenti legali all’interno dei dipartimenti governativi. E inoltre, una società civile che si è mobilitata con passione per bloccare le mire di Netanyahu».

STATO PROFONDO OSTILE?

«Quindi – sottolinea Perry -, mentre Trump ha fatto ricorso all’armamentario propagandistico dello «stato profondo ostile», il deep state appunto, nel tentativo di giustificare la sua corsa sfrenata all’indebolimento di ogni istituzione federale possibile, c’è del vero nelle lamentele di Netanyahu, secondo cui “sarebbe vincolato da funzionari pubblici e giudici non eletti”. La contro argomentazione è che tali vincoli sono assolutamente necessari in una situazione a tal punto fragile come quella israeliana: vivere sotto il trauma di continue minacce alla sicurezza e con la questione irrisolta di milioni di palestinesi sotto occupazione militare e senza diritti, per non parlare delle complicazioni che derivano da una cittadinanza con chiari ricordi della vita in paesi non democratici, pone diverse serie problematiche».

TENTATIVO DI EPURAZIONE NEI SERVIZI SEGRETI

La frustrazione di Netanyahu è evidente da tempo, sostiene Perry. Egli ha ripetutamente cercato di rimodellare il governo di Israele in qualcosa che fosse più simile ai modelli illiberali di Ungheria e Turchia, ma ogni volta che ci ha provato un mix di indignazione pubblica e resistenza istituzionale hanno vanificato la sua azione. La sua riforma del sistema giudiziario del 2023, che avrebbe indebolito drasticamente la magistratura consentendo ai politici di annullare le decisioni dei tribunali, è stata duramente contestata da vibranti proteste nel corso di partecipate manifestazioni di piazza. Ma gli sforzi profusi da Netanyahu più di recente vengono considerati senza precedenti: la scorsa settimana il governo ha avviato la complessa procedura prevista per il dimissionamento del procuratore generale Gali Baharav-Miara. In seguito, il predecessore di Ronen Bar alla guida dello Shin Bet, Nadav Argaman, era intervenuto dagli schermi televisivi per rendere noto in maniera criptica che qualora avesse ritenuto la «democrazia in pericolo», avrebbe rivelato ciò che sa su Benjamin Netanyahu. Il giorno dopo, il primo ministro in carica lo ha citato in giudizio accusandolo di averlo ricattato, poi, nella giornata di domenica, ha annunciato in televisione che avrebbe imposto le dimissioni a Ronen Bar perché «aveva perso la fiducia in lui».

IL GOVERNO CONTRO IL DIRETTORE DELLO SHIN BET

In una rara dichiarazione resa pubblicamente, l’attuale direttore dello Shin Bet, Ronen Bar, ha replicato al primo ministro affermando che egli, in realtà, «cercava da lui una “lealtà personale” e non la fedeltà allo Stato ». Si è trattato di una frase che ha immediatamente riportato alla mente la (famigerata) richiesta di lealtà fatta da Donald Trump a James Comey, del Federal Bureau of Investigation. Da quel momento le dinamiche interne a Israele sono note: il Procuratore generale, signora Baharav-Miara, è immediatamente intervenuta ammonendo che il licenziamento di Bar avrebbe richiesto un procedimento legale e che, conseguentemente, nei confronti dell’alto funzionario dell’intelligence il governo non avrebbe certo potuto procedere sulla base di «preoccupazioni» personali del primo ministro, adombrando nella procedura di dimissionamento fondati profili di illegalità e conflitto di interessi. Bar, il cui mandato allo Shin Bet include le competenze in ordine alla preservazione del sistema democratico, non ​si è dimesso.

VERSO L’AUTORITARISMO

Nel frattempo, nella mattinata di venerdì scorso il Gabinetto del ministro lo aveva comunque deliberato, ma la decisione è stata contestata in tribunale e la competenza è divenuta della Corte suprema. Questo dilaniante scontro interno al Paese ha luogo mentre sullo sfondo c’è l’aspra polemica divampata sulle responsabilità per i fallimenti della sicurezza che hanno portato al pogrom compiuto da Hamas il 7 ottobre; inoltre, nella strisica di Gaza i combattimenti sono ripresi e della guerra non si profila una conclusione. Il governo di destra presieduto da Netanyahu cerca di sopravvivere politicamente, «ma lo fa – sostiene Perry –anteponendo il proprio interesse a quello nazionale», mentre l’opposizione ha già annunciato proteste su larga scala, con i suoi leader che hanno lanciato l’allarme, preconizzando il precipizio verso l’autoritarismo. «Le Istituzioni dello Stato ebraico, sostenute dai manifestanti, manterranno la linea oppure Netanyahu seguendo il modello delineato da Trump, riuscirà a logorarle?». Le prossime settimane saranno critiche: se Bar e Baharav-Miara verranno in qualche modo rimossi il messaggio sarà inequivocabile: nessuna Istituzione, neppure i servizi di sicurezza, è al sicuro dalle interferenze politiche di un esecutivo senza scrupoli. E ciò costituirebbe un mutamento fondamentale, non solo per Israele, ma per le democrazie ovunque.

DEMOCRAZIE AL BIVIO

Sottolinea Perry nel suo articolo che «il tempismo di questa dinamica non può venire ignorato». Infatti, nelle ultime settimane lo Shin Bet ha indagato sui presunti legami illeciti tra l’ufficio di Netanyahu e il Qatar, nel quadro dello scandalo noto come “Qatargate”. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, si è impegnato a contrastare in tribunale l’estromissione di Bar, sostenendo che «Netanyahu sta cercando di sabotare un’indagine penale che riguarda il suo stesso ufficio». Israele è a una resa dei conti senza precedenti nella sua storia: un direttore dell’intelligence in carica sta resistendo a un primo ministro, mentre il Paese è in guerra. Le profonde questioni costituzionali sollevate saranno oggetto di giudizio della Corte Suprema, che a sua volta viene sottoposta a continui attacchi da parte dell’esecutivo, con non pochi suoi membri che non riconoscono l’autorità del presidente della Corte, Yizthak Amit, da loro ritenuto un «attivista liberale».

WASHINGTON E GERUSALEMME

Dieci anni fa, il precipitare in una crisi come questa avrebbe provocato l’immediata condanna da parte di Washington, ma oggi non è così, poiché la maggiore democrazia del mondo è coinvolta nelle proprie guerre istituzionali. «Quando gli americani guardano a Israele e gli israeliani guardano agli Stati Uniti – conclude Perry nel suo articolo -, è sempre più difficile affermare quali norme della democrazia siano state erose di più e quale leader del paese abbia un’inclinazione maggiormente autoritaria. Trump ha infranto le aspettative di lunga data su come un leader dovrebbe comportarsi e Netanyahu sembrerebbe seguire la stessa strada, testando i limiti del sistema a ogni svolta. In Israele, quei limiti, finora, hanno ampiamente retto, tuttavia, se Netanyahu avrà successo si tratterà di una grande vittoria in stile Trump nella sua lunga campagna per l’erosione della democrazia del proprio paese».

Condividi: