Lo «slavo» che lavorava coi morti – In quel drammatico pomeriggio d’estate del 1991 il sessantottenne Udo Grobar (protagonista del romanzo dello Scagnetti), non avrebbe potuto immaginare che sedici anni più tardi, nel medesimo luogo, la frontiera tra Italia e Jugoslavia non sarebbe più esistita e che si sarebbe addirittura potuto attraversare quel confine non più militarizzato senza neppure esibire i documenti alle guardie.
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In parallelo alla drammatica e per certi aspetti grottesca vicenda del necroforo in pensione che voleva recuperare a tutti i costi la sua vecchia autovettura, i combattimenti in Slovenia si inquadravano perfettamente nella fase storica che vide l’abbattimento delle barriere confinarie erette dagli uomini, che per anni erano parse immutabili, irrevocabilmente fissate nel tempo. Cessata la breve “Guerra dei dieci giorni” che portò Lubiana all’indipendenza, altri disastrosi conflitti sarebbero presto esplosi nel resto della Jugoslavia. Per molti di quelli della generazione di Udo, che a cavallo o a ridosso della frontiera erano nati e vissuti, la caduta di quest’ultima oltre che un evento epocale avrebbe costituito anche una rivoluzione di natura culturale. Il 23 dicembre 2007, giorno seguente le solenni celebrazioni di Rabuiese per l’ingresso della Slovenia nell’Area Schengen, nell’editoriale pubblicato sul quotidiano triestino “Il Piccolo”, Sergio Baraldi notò che al mutamento storico avvenuto avrebbe dovuto seguirne uno culturale e che solo in questo modo, poi, la nuova realtà avrebbe potuto essere metabolizzata dalla gente. «Il tempo nuovo trascina con sé una nuova logica ed è con essa che Trieste e Gorizia dovranno misurarsi…» Baraldi, riferendosi ancora all’abbattimento dei confini, aggiungeva poi che: «Le diversità culturali e i conflitti di valori attraverseranno la società in modo trasversale (…) e il nuovo rapporto con “l’Altro”, cioè con l’universo slavo, sarà imperniato sulla competizione-collaborazione, rafforzando così la possibilità di scongiurare gli scontri profondi del passato». Nell’euforia collettiva fatta di discorsi ufficiali, brindisi, sorrisi e fuochi pirotecnici, sia dentro che fuori l’enorme tendone bianco allestito appositamente per la cerimonia, nessuno perse l’occasione di ricordare che si stava vivendo un evento epocale foriero di grandi mutamenti. I protagonisti delle giornate dell’indipendenza slovena del 1991 convenuti a Rabuiese avevano ormai tutti i capelli bianchi, a cominciare dal premier sloveno Janez Janša. Lo stesso uomo che durante la guerra aveva ricoperto la carica di ministro della difesa, presentandosi alla stampa vestito dell’uniforme mimetica e con la pistola nella fondina. Nel tendone di Rabuiese, Janša rammentò a tutti l’importanza del sacrificio e dell’abnegazione degli uomini della Difesa territoriale e della polizia slovena nel cammino verso l’indipendenza. Poi si rivolse diretto alle minoranze che vivevano a cavallo di quel confine che non esisteva più, affermando che era giunto il tempo per gli sloveni in Italia e per gli italiani in Slovenia di una vita senza più confini che li dividessero dalle rispettive nazioni madre e che adesso bisognava cogliere tutti insieme nel modo migliore le nuove opportunità che si presentavano. Sulla riconciliazione insistette anche il ministro degli esteri di Lubiana Dimitrij Rupel, riferendosi a quella terra dove ancora aleggiavano i ricordi di una storia fatta di dolori, esodi e crimini di massa: «Credo che ora dobbiamo parlare di riconciliazione, anche se negli ultimi tempi avete potuto notare come ci stiamo occupando meno di quello che ci ha riservato la storia e siamo più orientati al futuro. E questo è molto significativo, soprattutto per le giovani generazioni. La mia generazione è ancora afflitta da questi ricordi e dai drammi che ne sono scaturiti e proprio per questo oggi siamo noi a essere forse più felici dei giovani, ai quali tutto questo sembra assolutamente normale». Al netto della retorica ufficiale espressa in quella straordinaria giornata, se quella mattina Udo si fosse trovato a Rabuiese e avesse ascoltato i discorsi pronunciati dalle varie personalità si sarebbe sentito sicuramente chiamato in causa. Egli infatti era un cittadino italiano della minoranza slovena nato e vissuto proprio a ridosso della frontiera che per anni lo aveva parzialmente diviso dalla sua nazione madre, anche se personalmente questo problema lo aveva segnato meno che ad altri, perché non aveva incontrato grosse difficoltà di inserimento quando viveva a Trieste. Se gli capitava di divenire oggetto di pregiudizi o luoghi comuni sugli sloveni, se li faceva scivolare via di dosso. Era un uomo semplice, al quale bastava lavorare e vivere in pace con la propria famiglia. Al contrario di altri della sua minoranza, non soffriva minimamente a causa del processo di rarefazione demografica degli sloveni e neppure per la perdita delle radici culturali, che in quegli diveniva sempre più marcata. Fortunatamente, col passare del tempo pregiudizi e prevenzioni hanno subìto un’attenuazione, ma nonostante tutto qualche incrostazione figlia del passato permane tuttora. Udo era giunto a Trieste nei primissimi anni Cinquanta, in quel periodo che gli sloveni definiscono gli “anni bui”, quando la comunità, profondamente divisa sul piano ideologico, si sentì definitivamente separata dalla Jugoslavia di Tito.
Quando il sogno era ormai svanito e anche i più convinti jugoslavisti avevano ben compreso che non c’erano più speranze di riunificazione con la vicina “Federativa”. In generale, per gli sloveni che vivevano in Italia si accentuarono le difficoltà economiche: parte di chi era in età da lavoro emigrò, mentre i contadini, maggiormente legati alla terra, si aggrapparono a essa e resistettero di più. Quando Udo dalla natia Gorizia si stabilì nel capoluogo giuliano, nonostante il boom economico, che però influiva solo marginalmente su una città avviata verso la depressione, le divisioni sociali avevano assunto tratti marcati anche all’interno della sua stessa minoranza. Alle scuole superiori si iscrivevano soltanto i ragazzi delle famiglie più ricche e i giovani, al pari degli adulti, continuavano a essere catalogati all’interno della società a seconda delle presunte radici ideologiche: quelli di orientamento cattolico-liberale venivano ritenuti a favore dell’Occidente, tutti gli altri invece “slavo comunisti”, seguendo la falsariga nell’immaginario collettivo che tendeva alla coincidenza del cittadino italiano di lingua e cultura slovena col “titino”.
Al tempo in cui Udo trovò stabile occupazione presso la cappella mortuaria dell’Ospedale Maggiore, in città e sull’altopiano si registrava ancora una notevole presenza della minoranza, che però in pochi anni avrebbe conosciuto una sensibile riduzione, al punto tale che dagli Settanta a Trieste non sarebbero più esistite aree a prevalente insediamento sloveno. Nella stessa zona popolare di Via Ponzanino, dove Udo risiedette con la famiglia (legggi il romanzo), già negli anni Cinquanta gli sloveni non erano più in maggioranza. Solo nei paesi del Carso riuscivano a conservarsi integre alcune aree popolate totalmente dalla minoranza. La stessa Opične (Villa Opicina), che oggi di circa diecimila abitanti ne conta quattromila sloveni, con lo sviluppo della città ne è divenuta una sua appendice residenziale. Se un secolo fa esistevano zone di Trieste e della sua cintura urbana abitate prevalentemente da sloveni (Barcola, San Giovanni, Servola, Poggi Sant’Anna/Kolonkovec e Cattinara), con la crescita urbana la compressione esercitata dall’altopiano ha imposto la ricerca di sfoghi nelle direzioni di Miramare (dove vennero edificati nuovi centri residenziali) e del Carso, dove invece sono stati realizzati insediamenti popolari.
Tutto questo mentre il centro storico si spopolava gradualmente. L’impetuoso sviluppo faceva sì che i vecchi borghi della cintura triestina venissero fagocitati nell’espansione della città, con l’ulteriore risultato di alterare le preesistenti realtà locali. A oggi probabilmente soltanto Prosecco/Prosek, San Dorligo della Valle/Dolina, Sgonico/Zgonik, Monrupino/Repentabor e forse Bazovica/Basovizza, contano ancora una maggioranza di popolazione slovena, mentre a Santa Croce, Trebiciano e Padriciano, sul piano numerico le nazionalità praticamente si equivalgono. Ma quasi certamente, nell’arco della prossima generazione in questi stessi comuni non verrà più registrata una maggioranza di sloveni. Dagli anni Settanta la consistenza degli sloveni sull’altopiano si è rarefatta anche per effetto delle politiche di italianizzazione.
Fino al 1954 si registrava ancora una relativa omogeneità, con la presenza italiana fino all’Isonzo e l’inizio di quella slovena a partire dall’estuario del fiume, dopo Monfalcone e fino a Trieste. Questa naturalmente è una descrizione di massima, registrandosi frequenti disomogeneità nell’insediamento dei gruppi nazionali, con presenze di sloveni anche sull’altra sponda del fiume Isonzo/Soča. Da Duino, Sistiana, San Giovanni al Timavo fino a Miramare era forte la presenza slovena, poi a seguito dell’afflusso in massa di profughi italiani provenienti dalla Jugoslavia vennero costruiti i borghi carsici, dove vennero insediati parte degli esuli istriani e dalmati, questo anche per evitare che essi si concentrassero tutti a Trieste, generando così possibili fenomeni di instabilità sociale.
I borghi carsici di nuova edificazione vennero aggregati ai vecchi paesi precedentemente popolati in prevalenza da sloveni. Così, ad esempio, a Sistiana si affiancò Borgo San Mauro e a Prosecco Borgo San Nazario. I nuovi insediamenti vennero realizzati principalmente nella fascia di territorio che del ciglione digrada verso il mare, anche se altrove, come a Padriciano, i campi profughi erano adiacenti ai paesi. Uno dei risultati di questa operazione fu la irreversibile modifica delle presenze nazionali nelle area, che rese gli sloveni in minoranza anche dove fino ad allora erano invece in maggioranza. Ad esempio mutava irreversibilmente la situazione nel territorio del comune di Duino Aurisina, dove nel 1945 gli sloveni erano il 90% della popolazione mentre oggi sono solo il 30%. Dal 1953 al 1959 circa venticinquemila triestini, dei quali tremila sloveni, lasciarono la città per emigrare all’estero. In particolare in Canada e Australia, paesi dove in precedenza si erano stabilite numerose persone (come i cosisddetti “cerini” della Polizia civile) che avevano servito l’amministrazione alleata del Territorio Libero di Trieste.
Alla base dell’emigrazione c’erano anche i timori sulla loro sorte e quella delle proprie famiglie, ma va rilevato che, in ogni caso, le aspettative economiche sul futuro di Trieste non invogliavano certo a restare. La scelta di andar via fu allettata dalla disponibilità dei paesi del Commonwealth a ricevere presto manodopera di razza bianca che fosse in possesso dei rudimenti della lingua inglese. Gli immigranti ricevevano immediatamente il visto di ingresso per i paesi di destinazione e firmavano con le autorità un ingaggio lavorativo annuale o biennale. Nella provincia di Trieste, che in quel periodo contava 300.000 abitanti, nonostante la partenza di 25.000 persone, il saldo fu egualmente attivo. Infatti l’esodo fu più che bilanciato dall’insediamento nel territorio di circa 80.000 profughi fuggiti da Istria e Dalmazia. Essi si andavano ad aggiungere alla massa di emigrati giunti dalle regioni centrali e meridionali italiane tra le due guerre mondiali, persone impiegate principalmente nel settore pubblico.
Dopo il suo ritorno a Gorizia, Udo venne da alcuni indicato con malcelato disprezzo come “lo slavo che lavorava coi morti”, nel tentativo di associare il presunto squallore di un mestiere con la sua appartenenza culturale e nazionale. Ma lui però parlava il dialetto sloveno delle sue parti, quello dei primorci, soltanto con la gente della sua minoranza, oppure quando andava poco più là in Jugoslavia, oltrepassando il valico della Casa rossa per risparmiare qualche lira facendo rifornimento di carburante nelle stazioni di servizio della Petrol. Sia in famiglia, quando viveva a Trieste, che a Gorizia quando rimase da solo, parlò sempre l’italiano. Era anche lui un assimilato come quei sloveni che a Trieste fino al 1848 si erano andati assimilando al pari degli altri lavoratori non italiani della città. Al tempo dell’Austria erano in molti a diventare italiani. Il percorso di snazionalizzazione era praticamente obbligato per tutti coloro che desideravano affermarsi in società. Questo malgrado il fatto che nella città giuliana persistesse un forte nucleo di borghesia slovena che non si faceva passare per italiana. Se si escludevano alcuni livelli apicali della burocrazia e della finanza, storicamente appannaggio dei tedeschi, i centri di potere maggiormente influenti erano nelle mani di italiani.
Al riguardo non fu un caso che il partito politico più forte a Trieste era quello liberal-nazionale. Intorno al 1860, a seguito del tumultuoso sviluppo della città, parte degli sloveni che precedentemente avevano lavorato nel settore agricolo, da contadini divennero operai e, poi, col tempo, si inserirono in tutti i settori della società: artigianato, servizi, commercio, ferrovie, eccetera. All’inizio del XX secolo la comunità slovena espresse elementi della borghesia (burocrati imperiali di elevato livello, avvocati, docenti e altri professionisti), ma contemporaneamente al suo interno si ampliò notevolmente anche il divario sociale, con una conseguente emarginazione delle fasce più povere. Nel secondo dopoguerra gli sloveni erano ormai inseriti in tutti gli strati sociali, dalla classe operaia alla borghesia, permanendo comunque sempre una loro forte presenza in particolari settori come le ferrovie, tra i lavoratori portuali, gli edili e nella ristorazione (questa era un particolarità espressa dalla minoranza a Trieste: molti sloveni divennero osti). Con la progressiva modernizzazione della società, molti dei mestieri tradizionalmente svolti dagli elementi della minoranza andarono scomparendo. Inoltre, per effetto della vasta scolarizzazione, già fin dai tempi dell’Austria numerosi sloveni erano divenuti insegnanti, maestri di scuola e professori nei ginnasi tedeschi. Questo anche perché fino al 1945 a Trieste non esistevano scuole superiori slovene, soltanto col governo alleato furono aperti il liceo e gli istituti tecnici e magistrali. Dopo il ritorno della città giuliana all’Italia, attraverso l’esercizio di diverse forme di pressioni, frutto non di politiche ufficiali delle Amministrazioni Pubbliche dello Stato, ma di attività poste in essere da personale permeato da forti sentimenti nazionalisti italiani in servizio presso di esse, questi istituti d’istruzione subirono un ostracismo che tendente al risultato ultimo della snazionalizzazione della minoranza.
Seppure in misura minore, anche Udo Grobar, lo slavo che lavorava coi morti, ricevette la sua razione di confinamento sociale e culturale. Il necroforo in pensione ritrovò il contatto con la sua minoranza solo quando tornò a Štandrež, nella casa che era stata di sua madre. In una di quelle frazioni di Gorizia popolate da sloveni, quartieri un tempo borghi e in seguito inglobati dall’espansione della città isontina. Una minoranza frammentata anche sul piano politico. Divisa al suo interno nei due blocchi principali, quello comunista e quello filoccidentale, che a loro volta presentavano ulteriori variegate sfaccettature. Nel drammatico clima regnante nell’immediato dopoguerra, quando l’unità ideologica dei cittadini italiani di lingua e cultura slovena non consentiva loro la possibilità di manifestare marcate sfumature politiche, la prima spaccatura si registrò nel 1947, con una presa di distanze della componente borghese che seppure a stento faceva ancora parte del fronte unitario. Sciolti definitivamente i vincoli dell’o con noi o contro di noi, questa componente fondò il partito della Slovenska Demokratična Zveza (Unione democratica slovena), evento alla base del quale non furono estranee le attività del governo militare alleato e dallo Stato italiano, che avevano la priorità assoluta di frammentare il fronte unitario antifascista e filojugoslavo nel quale si riconosceva buona parte della minoranza slovena dei territori di confine del Friuli Venezia Giulia.
Gli sforzi occidentali per la divisione del campo avverso vennero indirettamente corroborati dalla firma degli accordi di pace di Parigi, che, al di là della propaganda di circostanza, fecero comprendere in modo definitivo e senza equivoci a tutti gli attori internazionali che i confini della Repubblica federativa socialista jugoslava, allora ancora aderente al Cominform, non sarebbero giunti a Trieste. Nel futuro dunque non si sarebbero potute più verificare le condizioni necessarie per una annessione di porzioni di territorio del Friuli Venezia Giulia a vantaggio della Jugoslavia. Ovviamente tali sviluppi influirono sulla popolazione slovena in Italia, che nella guerra di liberazione aveva combattuto fascisti e tedeschi schierandosi a favore della Jugoslavia di Tito. Ma questo non bastava, infatti in seguito una seconda frattura in seno alla minoranza si consumò nel 1948 con lo “strappo” di Tito da Stalin. Fu una profonda spaccatura che divise il Partito comunista, le organizzazioni della minoranza e addirittura alcune famiglie al loro interno. Essa per vent’anni non venne più recuperata e riflesse i suoi effetti soprattutto sugli sloveni di Trieste. A quel tempo nella città giuliana esisteva il Partito Comunista del Territorio Libero di Trieste (PCTLT), in sloveno Komunistična partija Svobodnega tržaškega ozemlja e in croato Komunistička partija Slobodni teritorij Trsta, fondato originariamente come Partito Comunista della Regione Giulia, o Komunistična partija Julijske krajine, risultato della fusione delle locali sezioni del Partito Comunista Italiano e sloveno.
Il PCTLT era favorevole all’integrazione della regione alla Jugoslavia, ma in conseguenza dello “scisma titoista” venne a trovarsi in netto contrasto con la linea del PCI di Togliatti. A seguito della rottura tra Tito e Stalin e della conseguente risoluzione del Cominform datata 28 giugno 1948, che stabilva l’espulsione dal suo interno della Lega dei comunisti della Jugoslavia, il PCTLT subì il conseguente distacco della corrente titoista capeggiata da Branko Babič, mentre quella cominformista riusciva comunque a ottenere la maggioranza in seno al Comitato Centrale e venne nominato segretario del partito Vittorio Vidali, un ex agente del Comintern rientrato dal Messico. Babič e i titoisti diedero vita al Fronte Popolare Italo-Slavo (FPIS) e da quel momento il PCTLT fu presente esclusivamente nella Zona A del Territorio Libero di Trieste, mentre nella Zona B (amministrata dalla Jugoslavia) non ebbe agibilità politica. Al contrario il FPIS, maggioritario nella Zona B risultava invece minoritario nella Zona A. Nel 1957, a tre anni dalla definitiva assegnazione della Zona A all’Italia, il PCTLT cessò di esistere assumendo le forme della Federazione autonoma triestina del Partito comunista italiano. A Trieste dal 1948 al 1955, Vidali fece assumere al PCI posizioni marcatamente antijugoslave, operazione che condusse a un marcato processo di assimilazione dei militanti di partito appartenenti alla minoranza slovena. Per comprendere meglio la realtà di quei giorni può tornare utile una citazione tratta dal libro “Gli anni bui della Slavia. Attività delle organizzazioni segrete nel Friuli orientale”, scritto da Natalino Zuanella e pubblicato nel 1996 dalla Società Cooperativa Editrice Dom di Cividale del Friuli. A pagina 140 vengono illustrati i riflessi negativi sulla minoranza slovena dello strappo di Tito dall’Unione sovietica: «Questo conflitto, che avrebbe dovuto mantenere un carattere squisitamente ideologico, provocò invece un grave danno alla comunità slovena in Italia e coinvolse indirettamente anche le valli del Natisone. Dopo la rottura con Mosca si aprì in Jugoslavia la caccia ai cosiddetti “cominformisti” (stalinisti) che riempirono per anni le carceri jugoslave e i campi di concentramento creati appositamente per “rieducare” i dissidenti. Uno dei lager più noti e più famigerati ha funzionato sull’Isola Calva (Goli Otok) e questo nome è diventato uno dei simboli della repressione titoista. In Italia invece ci fu una campagna di segno opposto. I comunisti italiani, schierati con Stalin, hanno subito iniziato l’epurazione dei compagni dissidenti, di quelli cioè che si erano schierati con il Pcj (Partito comunista jugoslavo) e con il revisionismo di Tito. In questo gruppo si trovarono coinvolti soprattutto i comunisti sloveni triestini e goriziani che simpatizzavano per Tito e per la nuova “via jugoslava al comunismo”. Anche all’interno degli stessi comunisti sloveni, iscritti nel Pci/Kpi, si verificò una spaccatura: diversi tra di loro preferirono fare una scelta ideologica in favore dello stalinismo e del comunismo mondiale piuttosto che rimanere fedeli a Tito, al quale erano legati fin dal tempo della lotta partigiana. Arrivarono al punto di esprimere la loro opposizione nei confronti del regime jugoslavo anche con un assurdo boicottaggio delle istituzioni culturali slovene in Italia, compresa la scuola, quasi fossero emanazioni del titoismo e del revisionismo jugoslavo o sloveno. Allora, diversi comunisti di obbedienza moscovita, per protesta dirottarono i propri figli dalla scuola con lingua d’insegnamento slovena a quella con lingua d’insegnamento italiana e in molte famiglie slovene iniziò, per motivi ideologici e in nome della fratellanza internazionale, quel processo di alienazione linguistica e culturale che prima o poi conduce inevitabilmente alla perdita della propria identità etnica. Il quotidiano in lingua slovena di Trieste “Primorski Dnevnik” divenne allora l’organo dei “titoisti” e il difensore del Pcj e del regime jugoslavo (…) – l’autore prosegue poi nell’esposizione – Il dissidio ideologico è degenerato in un’opposizione non solo al regime e al partito comunista jugoslavo, ma a tutto quello che poteva avere un legame con la vicina Slovenia (cultura, tradizioni e lingua). Dunque, nel boicottaggio della lingua e della cultura slovene, considerate anche come strumento per propagandare le idee revisioniste e per risvegliare nelle popolazioni la coscienza etnica, furono coinvolti nel 1948, non solo nazionalisti locali, i missini, gli ex fascisti, i repubblichini e frange del clero friulano, ma buona parte delle cosiddette forze progressiste, rappresentate dai comunisti “italiani” delle valli del Natisone».
La componente cominformista della minoranza slovena godeva del sostegno di buona parte della base popolare, ma non possedeva di sufficienti strumenti istituzionali per la diffusione della propaganda. Per supplire a tale carenza venne tentata l’operazione editoriale del “Delo” (Il lavoro), una pubblicazione che nelle intenzioni avrebbe idealmente dovuto ricollegarsi all’omonima testata fondata dai comunisti della minoranza slovena nel 1921 a Trieste. A partire dal 1955, i titini projugoslavi si aggregarono intorno alla Neodvìsna Socialistična Zveza (NSZ), l’Unione socialista indipendente, ma in ogni caso la ferita provocata dalla spaccatura iniziò a rimarginarsi soltanto dopo il 1962, quando la stessa NSZ decise di sciogliersi lasciando ai propri elettori la libertà di voto. Lo fece però con un indirizzo di massima verso il PCI, il PSI o la Slovenska Skupnost, cioè l’Unione Slovena, formazione politica che sarebbe sorta di lì a poco dalla fusione di varie organizzazioni politiche anticomuniste della minoranza attive in territorio italiano. Le due anime fondamentali della Slovenska Skupnost provenivano dalla precedente esperienza del SDZ ed entrambe avevano collaborato a vario titolo con i militari alleati del TLT.
Una di esse, quella goriziana, faceva riferimento all’avvocato Avgust Sfiligoj, antifascista condannato dai tribunali speciali del regime che nel dopoguerra aveva dato vita all’organizzazione politica nella sua provincia. L’altra era quella presente e attiva nell’area di Trieste, riconducibile al professor Anton Kacin, slavista, traduttore e saggista, considerato tra gli esponenti di maggiore rilievo della minoranza, personaggio che contribuì alla rinascita delle scuole slovene del Litorale che erano state soppresse nel 1923 dalla riforma Gentile. Sia la componente di Sfiligoj che quella di Kacin fornirono sostegno agli esuli sloveni anticomunisti fuggiti dalla Jugoslavia, tra i quali figuravano anche alcuni sacerdoti della chiesa di Lubiana che durante il conflitto avevano appoggiato Roma e Berlino. Nonostante le sue ridotte dimensioni, l’Unione Slovena giunse comunque a dividersi al suo interno in numerose correnti: cattolici integralisti, cattolici popolari, liberali, destra di Sfiligoj e indipendenti.
Questi ultimi erano soprattutto di estrazione borghese (professionisti, docenti, eccetera), che in passato avevano preso le distanze dalle strutture unitarie della minoranza e che poi però riuscirono a fatica a entrare nel nuovo partito. La componente liberale triestina, dalle forti radici borghesi, nel dopoguerra ebbe una consistenza maggiore di quella cattolica, però a partire dagli anni Sessanta venne lo stesso assorbita da quest’ultima. Gli sloveni in linea con questa seconda corrente trovarono spesso impiego nel settore pubblico, in particolare nel comparto dell’istruzione e alla RAI, Radiotelevisione italiana. Nella città giuliana la Democrazia Cristiana, in quegli anni partito di maggioranza relativa, ricevette il sostegno dell’Unione Slovena nell’ambito dei governi di centro-sinistra alla Regione e nelle Province. La DC optò per questo tipo di operazione in ragione del fatto che aveva bisogno di immettere sloveni non comunisti alla radio e nelle scuole superiori slovene. Si trattava di una strategia sicuramente in linea con i principi liberali di stampo anglosassone, che venne però limitata a questi specifici settori e non estesa ad altri. L
a ragione fu che il governo di Roma era obbligato a farlo, in quanto non avrebbe certamente potuto eliminare le concessioni fatte alla minoranza dagli alleati nel dopoguerra (appunto l’emittente radiofonica che trasmetteva in lingua slovena e le scuole) poi ereditate dallo Stato italiano. Le componenti cattoliche dell’Unione Slovena furono sempre contrarie alla collaborazione con la Federazione socialista jugoslava, respingendo così anche i finanziamenti di Belgrado indirizzati alle attività culturali della minoranza in Italia. Tito non poteva finanziare direttamente dei partiti politici italiani, quindi doveva trovare altri spazi di manovra nel tentativo di influenzare la minoranza slovena attraverso la leva culturale. In questo senso esistevano delle grandi differenze dagli sloveni della minoranza presente in Carinzia, una comunità tradizionalmente cattolica però maggiormente incline al pragmatismo rispetto a quella italiana. In Austria venne seguita una strada diversa: i finanziamenti di Belgrado furono accettati per mantenere vive le radici culturali nazionali slovene nonostante le politiche del governo di Vienna, tenendo ovviamente nel conto i possibili rischi di condizionamento da parte jugoslava.
Nel 1975, con la formazione di un partito a livello regionale, venne eliminata dalla scena la storica componente riconducibile alla SDZ di Sfiligoj. All’interno dell’Unione Slovena si imposero i cattolico-liberali, che indirizzarono la linea politica verso una maggiore apertura e collaborazione con la Jugoslavia socialista. Pur partecipando con regolarità alle elezioni politiche, l’Unione Slovena non ottenne mai complessivamente più di diecimila voti e quindi non riuscì mai a eleggere dei suoi candidati al Parlamento della Repubblica. Nel 1992 si presentò agli elettori all’interno della coalizione “Federalismo”, formata da Partito Sardo d’Azione, Union Valdôtaine e da altre formazioni regionaliste. Questo “cartello” riuscì a eleggere solo un deputato e un senatore, nessuno dei quali però del partito espressione degli sloveni. Al contrario della scena nazionale, dove non è mai riuscita a ottenere eccessiva visibilità, a livello locale la Slovenska Skupnost è stata invece in grado di svolgere un ruolo di relativo rilievo. Una parte non indifferente dei consensi della minoranza sono stati indirizzati anche a beneficio di formazioni politiche diverse dall’Unione slovena. Come il Partito socialista italiano, che a Trieste e a Gorizia riusciva a eleggere al consiglio comunale un consigliere sloveno nelle sue liste, questo mentre il PCI portava sempre qualche sloveno sia al Comune che in Regione e anche un parlamentare a Roma.
Se Udo Grobar fosse sopravvissuto sufficientemente a lungo, quel mattino del 24 dicembre 2007 avrebbe potuto leggere sui giornali che il presidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e il premier di Lubiana il giorno precedente si erano stretti la mano al confine di Rabuiese. Il breve conflitto di Nova Gorica, coi suoi tormenti, i suoi morti e le sue speranze, era ormai lontano e l’ansia vissuta in quei drammatici momenti da un’intera regione restava un ricordo del passato. Oltre la vecchia frontiera che da poche ore non esisteva più, solo le associazioni dei veterani della Difesa territoriale e i parenti dei caduti in combattimento restavano a mantenere viva la memoria di quei giorni. Il resto degli sloveni, ottenuta l’indipendenza, aveva presto archiviato il caso pensando ai traguardi futuri, NATO e Unione europea in primo luogo, dedicando una particolare attenzione ai funzionari di banche e assicurazioni tedesche e austriache prontamente calati in massa nella Repubblica del Tricorno allo scopo di adeguarne il sistema economico-finanziario alla nuova realtà comunitaria, impiantando da subito loro agenzie e sportelli in vista della conquista di nuove fette di mercato.
Dunque tutto era finito. I giorni caldi della guerra, quando si combatté a pochi minuti di macchina dalle case di goriziani e triestini erano ormai parte della storia. Erano rimasti solo un ricordo anche i mezzi corazzati dell’Esercito italiano che durante l’operazione ”Testuggine” si appostarono lungo gli assi viari del goriziano e del Carso triestino, senza sferragliare troppo coi loro cingoli sull’asfalto per non rovinarlo, facendo così ottenere al dispositivo difensivo visibilità a livello sia nazionale che internazionale.
Ambiguità tutte italiane verrebbe da dire. Già, perché anche su pressione esercitata da numerosi sindaci e amministratori locali dei comuni a ridosso del confine con la Jugoslavia, che reclamarono una presenza visibile dei militari, il Ministero della Difesa fece uscire dalle caserme del Nordest i carri armati Leopard e li posizionò “a bella posta” lungo gli assi viari delle province di Gorizia e Trieste. Paradossalmente Ministero ed enti locali, due soggetti che in tutta la storia dell’Italia democratica si erano sempre fatti la guerra sulle servitù militari, adesso erano d’accordo su questa esibizione “muscolare”. Ora la politica aveva bisogno di rassicurare i cittadini (suoi elettori), dunque i “panzer” potevano andare bene, purché se ne stessero fermi ai crocicchi delle strade. Naturalmente, sempre in quegli stessi giorni, erano state però approntate anche altre difese, meno visibili ma non per questo meno efficaci. In relativa discrezione nei punti ritenuti più sensibili vennero dislocate squadre di fanteria armate di letali missili controcarro, pronte a rintuzzare eventuali sconfinamenti di militari di varia natura dalla vicina Jugoslavia.
Quel giorno di fine giugno, mentre i goriziani preoccupati si assiepavano sugli spalti del castello per assistere impotenti ai combattimenti che alcune centinaia di metri più in basso incendiavano Rožna Dolina, la minoranza slovena della città e del circondario viveva confusa il drammatico preludio alla fine totale della Jugoslavia.
ACCADDE AL CONFINE: STORIE DI GIOVANNI POSTAL E UDO GROBAR:
EVENTI CHE SCOVOLSERO IL MONDO E LE TRANQUILLE QUOTIDIANITÀ DI UOMINI DAI DESTINI PIÙ GRANDI DI LORO (estratto)
QUEL CONFINE PIÙ APERTO D’EUROPA
introduzione a cura di Majda Bratina
Sono passati ormai vent’anni da quel giugno 1991 quando la Slovenia intraprese coraggiosamente la via dell’indipendenza. A quel tempo la decisione slovena parse agli occhi dell’Europa alquanto ardita, se non addirittura un salto nel buio. In realtà i passi fatti dalla giovane repubblica erano stati attentamente ponderati sia dal punto di vista politico sia da quello militare. Non si trattò di un colpo di testa dell’ultimo mese. La situazione di crisi politica in Jugoslavia stava andando avanti già dalla fine degli anni ottanta con una politica centrale che cercava di imporre il predominio serbo anche sulle altre repubbliche jugoslave e dettava condizioni che non potevano essere accettate da parte slovena e croata. Ma a guardare bene era tutta l’Europa dell’Est che in quegli anni stava per intraprendere dei cambiamenti che avrebbero rivoluzionato la geopolitica mondiale. Con la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989 si sgretolarono tutti gli stati della cortina di ferro e in poco tempo in Europa il comunismo diventò un sistema che si studiava sui libri di storia. In Germania già all’inizio degli anni novanta quando ci si riferiva agli anni antecedenti la caduta del muro si usava l’espressione “ai tempi della DDR” come se fosse passato mezzo secolo, mentre erano trascorsi soltanto pochi anni. La Slovenia è stata considerata da molti la più fortunata tra le ex repubbliche jugoslave, in quanto la guerra slovena durò solamente dieci giorni, giorni nei quali il protagonista della storia narrata da Gianluca Scagnetti, Udo Grobar, si trovò suo malgrado a viverli in prima persona, senza rendersi ben conto di ciò che stava accadendo, senza rendersi conto di essere testimone di un passaggio epocale che non avrebbe più avuto un ritorno. La cosa sorprendente della storia di Udo Grobar è che nei giorni in cui era scoppiata la guerra, egli riuscì comunque ad attraversare il confine, che era rimasto aperto anche in quella tragica situazione. Anche la stampa non trovò grosse difficoltà per andare “di là” a vedere che cosa stesse effettivamente accadendo. Successe addirittura che un militare dell’Armata federale jugoslava, ferito, riuscì a scappare in Italia e a farsi curare nell’ospedale di Gorizia, che si trovava a ridosso del confine. Molte persone comuni però rivissero in quei giorni la paura di trovarsi di nuovo vicino ad un confine chiuso. Il ricordo del dopoguerra e dunque dell’impossibilità di potersi liberamente muovere da una parte e dall’altra era ancora vivo in molti. Nessuno sapeva ancora come sarebbe proseguita la guerra, come si sarebbero potuti evolvere i fatti e la prospettiva di un salto al passato era molto plausibile. Per fortuna le cose andarono in altro modo. L’indipendenza della Slovenia fu riconosciuta dagli stati membri della Comunità Europea nel gennaio 1992 e da allora lentamente iniziò il cammino di preparazione all’entrata nell’Unione Europea che avvenne il 1° maggio 2004. Tre anni dopo, il 21 dicembre 2007, la Slovenia entrò a far parte dell’area Schengen. Per chi abitualmente era solito vivere il confine passando da una parte e dall’altra dei due stati per i più svariati motivi (culturali, lavorativi, turistici, commerciali, familiari…), la soppressione dei controlli ha rappresentato un cambiamento veramente epocale. Il confine si presenta sempre come una barriera, un limite che separa e divide, anche quando si tratta di un confine aperto come era quello tra l’Italia e la Jugoslavia prima e ancora di più con la Slovenia poi. Un confine ha sempre un “di qua” e un “di là” che rimangono separati e la separazione è segnata anche concretamente dalla linea di confine, dove la polizia di frontiera non permetteva il passaggio nemmeno ai residenti se per esempio il passaporto aveva il bollo scaduto o se cambiando borsa si aveva lasciato il lasciapassare a casa; c’era inoltre il controllo della dogana che suo malgrado riusciva a mettere i cittadini sempre in soggezione sia che non trasportassero niente di particolare sia che tentassero di portare qualche “stecca” di sigarette in più a casa. Non da ultimo si dovevano fare i conti con l’aspetto del “fastidio” dato dal confine, una scocciatura necessaria per poter vivere le due parti limitrofe. Il fastidio era dato dal fatto che si era comunque “controllati”, che non ci si poteva muovere del tutto liberamente, che ad una certa ora (verso le sette di sera, quindi quando era ancora chiaro d’estate) i valichi secondari chiudevano e se si voleva andare dall’altra parte si dovevano per forza scegliere i valichi internazionali, che costringevano ad allungare anche di molto il percorso da fare. Per tutti quelli che si trovavano ad oltrepassare il confine quotidianamente l’entrata della Slovenia in Schengen è stata vissuta come una vera liberazione e come una festa, un sogno che si avverava. Tanto che i primi giorni non si riusciva ancora a credere che effettivamente ci si stava trovando a pieno titolo in uno spazio comune europeo e si aveva quasi timore che si stesse vivendo qualcosa di impossibile, che non sarebbe potuto durare.
Ma l’indipendenza della Slovenia ha avuto delle conseguenze importanti soprattutto per gli sloveni che vivono in Italia. La minoranza slovena in Italia era rimasta disorientata dal crollo della Jugoslavia, non tutti riuscirono ad essere entusiasti del cambiamento, anche perché cambiava l’interlocutore per le questioni relative alla comunità slovena in Italia e improvvisamente non ci trovava più con uno stato forte alle spalle, bensì con uno stato neonato che doveva appena guadagnarsi il riconoscimento politico e morale. C’è però da dire che lo stato sloveno si è subito dimostrato come un interlocutore vicino e diretto, che comprendeva bene fin da subito le esigenze e le necessità della comunità slovena in Italia. E in effetti, contemporaneamente al percorso di avvicinamento della Slovenia all’Unione europea, si andava preparando la legge di tutela per la minoranza slovena in Italia, finché non fu approvata dal Parlamento nel febbraio del 2001. Questo riconoscimento, seppur sia avvenuto tardi, è stato accolto con particolare soddisfazione e molte speranze da tutti gli sloveni che vivono nelle tre province del Friuli Venezia Giulia: Gorizia, Trieste e Udine.
Il ruolo della comunità slovena in Italia nell’Europa di oggi è dunque un ruolo diverso rispetto a quello che poteva avere in passato. Oggi gli sloveni in Italia possono essere considerati innanzitutto una risorsa ed un’opportunità da utilizzare. Gli sloveni in Italia non sono più un soggetto storico da nascondere, ma piuttosto un soggetto da rivalutare che può essere considerato ponte tra le due realtà confinarie. Gli attriti storici tra la comunità italiana e slovena si sono allentati molto; molti italiani hanno iniziato a frequentare il confine non solo per fare il pieno di benzina, ma per conoscere e comprendere un’altra cultura e molti genitori che non conoscono lo sloveno hanno deciso di iscrivere i propri figli nelle scuole slovene in Italia, per comprendere più pienamente la realtà nella quale si trovano a vivere e per dare ai figli delle opportunità che a loro erano state invece negate. A questo proposito, per far luce sulle molteplici sfaccettature della comunità slovena in Italia, forse ancora troppo poco conosciuta, il libro di Gianluca Scagnetti è particolarmente interessante, perché attraverso una storia apre tutta una serie di questioni che sono ancora aperte sia all’interno della comunità slovena sia tra la comunità slovena e quella italiana che si guardano con sempre meno sospetto e aspirano alla naturale convivenza etnica.
UNA FETTA DI GUBANA ALLA SLIVOVICA E UNA GRAPPA, PER FAVORE…
I PRIMORCI DI ŠTANDREŽ
Quella sera nel bar della piazzetta non c’era eccessiva confusione. All’interno del locale non regnava quel trambusto che solitamente si crea quando gli avventori iniziano a essere numerosi e, soprattutto, dopo che hanno bevuto almeno un paio di bicchieri. Una kermesse fatta di voci alte e toni artatamente accesi per esagerare nel commento della partita di calcio giocata il giorno prima o sulle tasse sempre eccessive imposte dal governo. Quella del bar della piazzetta era sì confusione, ma non degenerava quasi mai in fastidiosi schiamazzi. Insomma, si trattava di un’atmosfera tollerabile sia dagli avventori che da gestori e personale in servizio al banco. Quella sera la giovane cameriera un poco dimessa ma sufficientemente provocante, continuava a servire regolarmente le consumazioni ordinate dai clienti. Questi erano praticamente sempre gli stessi, gente del borgo di Sant’Andrea, Štandrež in lingua slovena. Quella frazione all’estrema periferia di Gorizia un tempo isolata che faceva paese a sé, poi negli anni fagocitata dallo sviluppo urbanistico della città isontina. Una frazione fino a poco tempo prima abitata prevalentemente da sloveni. Un luogo che confinava direttamente con la Jugoslavia, stato federale ora in via di auto disintegrazione, che in quei giorni era divenuto una seria fonte di preoccupazione anche al di qua del confine. Da qualche giorno il clima nel bar della piazzetta era mutato. Si continuava a scherzare, certamente, però si faceva meno confusione di prima. Ogni volta che la televisione appoggiata sulle staffe di acciaio infilate nella parete trasmetteva un telegiornale, uno qualsiasi, sia che fosse un notiziario della sede regionale RAI del Friuli Venezia Giulia oppure uno di Telecapodistria, la gente al bancone e ai tavoli smetteva immediatamente di parlare e fissava gli occhi sullo schermo. Le cronache quotidiane degli sviluppi della situazione oltre confine venivano seguite dalla gente con estrema attenzione. Sullo schermo a colori passavano continuamente i filmati della rivolta in Slovenia, dove il parlamento di Lubiana aveva deciso di rendere indipendente da Belgrado la propria Repubblica socialista federata. La volontà di indipendenza era stata successivamente avallata a larga maggioranza dalla popolazione attraverso un referendum votato nel dicembre 1990, ma la prevedibile reazione del governo jugoslavo non si era fatta attendere e adesso nella piccola repubblica alpina le unità dell’Armata federale erano in stato di all’erta. Gli sloveni avevano subito eretto le barricate per ostacolarne i movimenti e a questo punto i venti di guerra soffiavano a meno di un chilometro dal bar di Sant’Andrea. La gente se ne rendeva conto attraverso i media. In quei giorni parte della minoranza slovena della provincia di Gorizia era sgomenta. Anche Udo Grobar era uno sloveno di Gorizia, lui però si era trasferito in gioventù a Trieste, dove aveva vissuto gran parte della sua esistenza trovandovi lavoro e moglie. Dalla sua compagna aveva avuto due figli, un maschio e una femmina, però in seguito purtroppo la poverina era scomparsa prematuramente. Erano i primi anni Ottanta e pochi anni dopo essere diventato vedovo Udo era andato in pensione. Dopo la felice parentesi esistenziale coincidente con la convivenza matrimoniale, le alterne vicende della vita non avrebbero più smesso di angustiare il povero uomo, che contro la sua volontà dovette persino fare ritorno a Gorizia. La causa fu uno sfratto esecutivo che lo aveva privato dell’abitazione di via Ponzanino, quella dove aveva vissuto con moglie e figli per quasi quarant’anni. I nuovi proprietari avevano rivoluto indietro l’immobile cedutogli in locazione perché, una volta liberatolo, lo avrebbero venduto realizzando un vantaggioso corrispettivo.
Quindi fuori. Trieste nel tempo era cambiata, in quegli anni una casa in affitto non sarebbe certamente stata alla portata della sua misera pensione, allora fu costretto a trasferirsi nella piccola casa di Sant’Andrea. Quella che era stata di sua madre. Un bene immobile che per sua fortuna non era stato alienato in precedenza. Adesso viveva lì, in quel borgo alla periferia di Gorizia e non aveva più fatto ritorno a Trieste, la città dove invece erano rimasti a vivere i suoi due figli, anche loro allontanatisi presto dai genitori. La femmina, più grande di età rispetto al fratello, dopo avere conseguito il diploma di maturità presso l’istituto tecnico nautico si era impiegata come segretaria presso un’agenzia di assicurazioni. Il maschio invece dopo la terza media aveva abbandonato gli studi e adesso faceva il cassiere in un supermercato di via Giulia, dimenticandosi completamente del padre, che dal giorno dello sfratto non aveva più rivisto né sentito. Solo la figlia qualche volta lo andava a trovare a Gorizia, ma il più delle volte si limitava a fargli una telefonata per salutarlo e parlargli cinque minuti. Udo soffriva molto per questi abbandoni, in pochi anni era improvvisamente piombato nella solitudine, una triste condizione che aveva accentuato la sua pregressa tendenza a rifugiarsi nell’alcool. Di tutta la sua famiglia gli restavano solo alcuni parenti al di là del confine che vivevano a Solkan, poco fuori Nova Gorica, sulla strada che conduce a Tolmin. Si trattava di sua cugina Vesna Mihalek e i dei suoi tre figli, Joško, Jana e Zdravko, persone alle quali Udo si era subito affezionato e che aveva preso a frequentare con sempre maggiore assiduità. Anche approfittando del fatto che conveniva fare il pieno in Jugoslavia perché costava meno, prendeva la macchina e una volta oltre confine, dopo aver fatto rifornimento di benzina, percorreva ancora un po’ di strada per fermarsi a pranzo da loro. Il calore della famiglia Mihalek lo aiutava a superare i momenti di maggiore tristezza, inoltre parlare sloveno coi parenti lo faceva tornare indietro con la memoria ai ricordi dell’infanzia, quando tutta la famiglia Grobar era unita sotto la guida di suo padre Janez, operaio manifatturiero al cotonificio di Gorizia. Il tempo felice quando era ancora viva l’adorata nonna Rada, che ricambiava per intero l’amore ricevuto dal suo nipotino Udo. Quella sera faceva molto caldo anche nel bar della piazzetta di Sant’Andrea. Ma nonostante ciò Udo aveva ordinato egualmente una fetta di gubana alla slivovica e una grappa. Si era però ripromesso di non andare oltre il grappino, perché il giorno seguente avrebbe dovuto svegliarsi presto per andare a piedi a riprendere la sua autovettura rimasta ferma in Jugoslavia sotto casa della cugina. Dal suo posto all’interno della saletta del bar, Udo in quel momento poteva osservare un tizio dai baffi spioventi seduto al tavolino di fronte al suo, un uomo che sorseggiava lentamente un bianco prodotto sul Collio. Questi, un individuo sulla cinquantina alto e segaligno, appoggiando leggermente il bicchiere alla bocca beveva un goccino di vino alla volta divorando però simultaneamente con avidità i pochi pistacchi iraniani rimasti nella ciotolina che la cameriera gli aveva portato insieme al vino. Naturalmente quelli del bar glieli avevano offerti apposta quei frutti tostati e salati, ben sapendo che i pistacchi una volta consumati fanno aumentare la voglia di bere anche in chi non ha più sete. Oltre che un cinico investimento effettuato dagli esercenti, i pistacchi sono però godibili non soltanto al palato ma anche alla vista e si presentano ammantati dagli stessi colori dell’autunno: verde muschio, ocra e faggio.
Che morto di fame! Pensò Udo, guardandolo di soppiatto mentre si ingozzava avidamente afferrando i pistacchi a manciate di tre per volta. Una volta tra le sue dita affusolate e gialle di nicotina, li sgusciava frettolosamente separando l’endocarpo coriaceo della drupa dal gustoso seme verde. Per un istante nella mente di Udo le assillanti preoccupazioni per la sua macchina erano state messe da parte, era troppo preso dalla scena che gli si rappresentava di fronte. La sua temporanea distrazione venne però bruscamente interrotta dalla musica della sigla del telegiornale delle ore venti: buonasera, la situazione nella vicina Slovenia permane ancora tesa in seguito alla dichiarazione unilaterale di indipendenza di Lubiana dallo Stato jugoslavo. Oggi sono stati registrati numerosi combattimenti. Già durante la notte alcune colonne militari dell’Armata federale avevano lasciato le loro caserme della Croazia puntando in direzione degli oltre trenta valichi confinari con l’estero presenti nella Repubblica di Slovenia. Almeno una dozzina di questi valichi sarebbero tornati sotto il controllo dei militari di Belgrado nel corso della giornata, mentre, a quanto si apprende dalle fonti, nelle mani della Difesa territoriale slovena sarebbero rimasti quindici posti di confine. Al momento si starebbe ancora combattendo a Maribor e a Poljane. Da Lubiana, per un aggiornamento sui fatti, ci colleghiamo con il nostro inviato… “ qui Lubiana, la situazione della capitale dell’autodichiarato stato indipendente è quella di una città in guerra.
Stamane da Vrhnika, un sobborgo a sud della città, due colonne corazzate dell’Armata federale hanno lasciato la locale caserma per dirigersi rispettivamente verso l’aeroporto di Brnik e il centro cittadino. Nel tardo pomeriggio un elicottero federale decollato per fornire appoggio logistico a un reparto impegnato sul terreno, è stato abbattuto da un missile antiaereo lanciato dal grattacielo “Iskra”, qui, proprio nel centro, a pochi passi da dove stiamo trasmettendo ora, l’abbattimento del velivolo ha provocato la morte dei due membri dell’equipaggio. Giungono inoltre notizie dell’abbattimento di altri due elicotteri federali da parte dei territoriali sloveni e ci sarebbero dei morti anche in questi casi, comunque siamo in possesso soltanto di informazioni frammentarie e quindi attendiamo una conferma ufficiale da parte delle autorità. Infine oggi si è combattuto anche attorno alla base aerea di Cerklje, dove i paracadutisti inviati da Belgrado sono giunti in difesa dell’aeroporto e dei velivoli militari presenti all’interno di esso. Siamo di fronte a una vera e propria escalation, ora bisognerà attendere gli eventuali sviluppi politici. Da Lubiana è tutto, restituisco la linea allo studio.” Grazie e buon lavoro. Dunque il quadro della situazione odierna descritto dal nostro inviato va però aggiornato con la notizia di combattimenti a ridosso del confine italiano, notizia che ci è pervenuta dalla località costiera di Capodistria, situata a pochi chilometri da Trieste, dove forze territoriali slovene sarebbero state attaccate da militari jugoslavi giunti in rinforzo alla locale guarnigione dalla zona del porto, infatti a quanto sembra questi militari sarebbero stati in precedenza sbarcati da alcune unità della marina jugoslava salpate dalle basi navali della vicina Croazia… E a Nova Gorica? Cosa stava succedendo a Nova Gorica? Era il tarlo fisso di Udo, che nello spazio di un istante era nuovamente ripiombato nel suo assillante e del tutto personale incubo: sono sicuro che accadrà. Quelli della Teritorialna mi requisiranno la macchina oppure me la distruggeranno i militari jugoslavi, figuriamoci …ha pure la targa italiana, quelli non ci penseranno su un secondo.
Domattina devo assolutamente andare di là a riprendermela e portarla di nuovo qui. Speriamo che Joško sia di parola e venga all’appuntamento stabilito. Se non ci saranno intoppi ai posti di frontiera e se lui sarà puntuale, in un’ora potrò risolvere questo maledetto problema. Nei pensieri di Udo era prepotentemente tornata la sua vecchia Fiat 131, quell’autovettura color bronzo metallizzato uscita dalla fabbrica nella prima metà degli anni Settanta. Una macchina a cui lui teneva moltissimo, sicuramente un modello datato, però ancora in ottimo stato. Aveva i doppi fari tondi incassati nella mascherina anteriore, un portapacchi metallico fissato sulla capote e tanti altri accessori, come ad esempio il rivestimento multicolore in pelliccia sintetica dei sedili anteriori o il pomello della leva del cambio a forma di pallina da golf verde erba. Erano oggetti kitsch che rendevano la sua macchina simile a quelle cariche di famiglie di turisti tedeschi o austriaci che si osservavano spesso d’estate dirigersi verso le località balneari di Lignano e Bibione. Come il deodorante alla vaniglia appeso allo specchietto retrovisore, erano accessori e optional acquistati durante i suoi frequenti pieni di benzina presso le pompe Petrol della vicina Jugoslavia. All’interno dell’abitacolo, dall’autoradio Grundig incastrato nella plancia, sporgeva per la sua metà estratta dalla piastra di riproduzione una delle numerose cassette che Udo teneva sempre in macchina, per lo più nastri musicali dove erano registrate le raccolte di brani celebri rivisitati al sassofono da Fausto Papetti. Quando aveva comperato quella 131 aveva fatto un affare. La macchina era di seconda mano, ma aveva percorso soltanto 40.000 chilometri. Del vecchio proprietario, un signore originario di Bergamo ma residente a Cormòns, restavano soltanto due cose: un adesivo della polisportiva bocciofila goriziana appiccicato sulla battuta del cofano posteriore (una patacca mai staccata anche se antiestetica per il semplice motivo che con la colla sarebbe venuta via anche la vernice metallizzata che c’era sotto) e la targa di Bergamo.
Quest’ultimo particolare esponeva Udo alle battute ironiche dei parenti di Solkan, che ogni volta che vedevano la macchina gli rimproveravano di essere un “invasore centralista serbo a caccia di benzina e slivovica a buon prezzo”. Questo per la ragione che la sigla automobilistica del luogo di prima immatricolazione della Fiat 131 era “BG”, Bergamo appunto, una sigla perfettamente corrispondente a quella della capitale jugoslava Beograd, appunto “BG”. L’indomani mattina alle nove, Udo avrebbe avuto appuntamento con Joško, il figlio di Vesna, sul piazzale di Rožna dolina, proprio davanti alla pompa di benzina. Erano ormai due giorni che la sua macchina era ferma sotto la casa dei Mihalek, l’aveva parcheggiata lì l’ultima volta in cui era andato a trovarli. Quando si era fermato in casa loro più del previsto a causa del fatto che Vesna lo aveva invitato a pranzo e insieme avevano bevuto la grappa distillata artigianalmente da Joško. Ma come spesso accadeva Udo aveva esagerato, ne aveva bevuta troppa e alla fine contro la sua volontà, vivamente consigliato da tutti, era stato costretto a non fare ritorno a Gorizia con la macchina. Se quella sera i miličniki lo avessero pizzicato in quelle condizioni lo avrebbero certamente portato in caserma con l’accusa di guida in stato di ebbrezza. Udo sapeva bene che la Milica non scherzava e, inoltre, a girare con una macchina con la targa italiana, soprattutto in quelle notti di crescente tensione, con la polizia che intensificava i controlli sulle strade a ridosso del confine, voleva dire esporsi al rischio di incappare in una pattuglia o in un posto di blocco. Meglio evitare. Poi era stato accompagnato da Joško con la sua Zastava fino al valico di confine di Vrtojba, a poca distanza dal quartiere goriziano di Sant’Andrea. Durante il breve tragitto percorso in auto, mentre conversavano insieme nel corso dell’ attraversamento della città di Nova Gorica, alle domande poste da Udo riguardo alla situazione politica e il possibile scontro con Belgrado Joško era sembrato stranamente ermetico, a tratti addirittura evasivo, come se avesse voluto evitare a tutti i costi di discutere di quegli argomenti. Lui non aveva dato peso a questa anomala reazione e aveva quindi troncato il discorso. Giunto nei pressi del confine era sceso e, prima di congedarsi definitivamente da Joško, si era accordato con lui per farsi venire a riprendere due giorni dopo di fronte alla stazione di servizio della Petrol al valico di Rožna dolina, quello di fronte al piazzale della Casa rossa. Si erano ormai fatte le nove di sera, Joško invertì la marcia della sua Zastava e fece ritorno a Solkan , mentre Udo invece prese ad andare lentamente in direzione di casa. Superato il confine con l’Italia avrebbe raggiunto a piedi Štandrež, facendo così una passeggiata sotto il cielo stellato. Oltre al sollievo ricavato dall’aria fresca della sera, il moto gli avrebbe permesso anche di smaltire la lieve ebbrezza dovuta all’alcool trangugiato da Vesna.
Era accaduto il giorno in cui aveva dovuto lasciare la macchina in Slovenia. Adesso però, nel bar della piazzetta si era fatto tardi e dopo la fine del telegiornale non vi rimase ancora per molto. Ebbe giusto il tempo di precipitare ancora alcuni istanti in una di quelle sue frequenti amare riflessioni sulla solitudine e il comportamento ingrato dei propri figli. Infine, alzatosi finalmente dalla sedia si diresse verso la cassa e pagò il conto. Prima di uscire in strada fece però presente alla barista che la gubana che gli avevano servito era un po’ secca, mentre la slivovica all’interno dell’impasto non si sentiva quasi per niente. «Strano, non mi risulta proprio sa – replicò lievemente piccata la barista intenta al lavaggio di un boccale di birra – la gubana ce l’hanno portata questa mattina da Cividale e la slivovica dentro ce l’ho versata io personalmente …quindi». Udo preferì non inisistere con le sue rimostranze, evitando di innescare una polemica sterile. Era tardi ed era stanco, voleva andarsene a casa a dormire. Salutò a mezza bocca e uscì dal locale. All’esterno tutto era calmo. Era una bella serata d’inizio estate.
I MORTI NO GA’ MANILLIE
L’abitazione che aveva ereditato dalla madre era un piccolo appartamento di due vani, cucina e bagno, più un ripostiglio nel seminterrato e il posto auto nella rimessa comune del condominio. Cinquanta metri quadrati al primo piano, uno spazio per lui più che sufficiente. La palazzina era stata costruita nei primi anni Settanta e era parte dell’ultima schiera di edifici prima del confine con la Jugoslavia, nell’area compresa tra i valichi della Casa Rossa e di Sant’Andrea-Vrtojba. Dalle finestre si vedeva il prato esteso alcune centinaia di metri prima della ferrovia e, oltre, fino alla linea di frontiera. Dal suo davanzale, in territorio italiano restavano solo le Cjasis dal Eremit, le case dell’eremita e poco più in là il cimitero.
Alla sua scomparsa, la madre oltre alla casa gli aveva lasciato anche gli arredi, un mobilio di scarsissimo valore che evidenziava il suo stato di usura. Una brandina, un comodino, un armadio a due ante per riporre gli indumenti, uno specchio e, nel soggiorno, due poltrone foderate di velluto. Infine la televisione a colori, davanti alla quale negli ultimi anni della sua esistenza l’anziana donna aveva passato il tempo guardando le telenovelas prodotte in Sudamerica.
Udo era ritornato in quella casa e ci aveva vissuto in profonda solitudine. Un’esperienza traumatica. I primi tempi non erano stati facili. Aveva provato ad adattarsi, ma non ci era riuscito, tanto che la malinconia aveva finito per assalirlo nella sua morsa. Quando se ne restava chiuso lì dentro e non aveva nulla da fare che potesse distrarlo ripensava con nostalgia ai tempi felici trascorsi con la moglie e i figli a Trieste. Nella città giuliana aveva un lavoro sicuro e trascorreva tutte le serate insieme ai suoi cari a ridere e scherzare.
I Grobar erano una famiglia affiatata. I soldi, a dir il vero mai tantissimi, erano comunque sufficienti per pagare l’affitto e far studiare i ragazzi. Almeno una volta al mese, la domenica a pranzo andavano a mangiare in qualche osteria sull’altopiano. Udo e la moglie si facevano qualche bicchierino in più e alla fine, quasi ebbri, si prendevano in giro nell’allegria generale. Un periodo davvero felice. A Trieste aveva trovato subito lavoro. Venne assunto dall’Ospedale Maggiore come portantino, una qualifica che in seguito gli venne cambiata. Trascorsi pochi mesi, venne infatti assegnato come “aiutante” presso la cappella mortuaria dell’obitorio. Quella che si affacciava su Via della Pietà. Senza dubbio un lavoraccio, tuttavia, dopo averne discusso molto con la moglie, decise lo stesso di restare in servizio presso la morgue. Ai cadaveri ci avrebbe fatto l’abitudine. In fin dei conti, in anni come quelli un posto fisso rappresentava pur sempre una sicurezza per il futuro.
E di questa scontata verità avrebbe ricevuto presto conferma, quando la città giuliana colpita da una grave crisi economica sprofondò nella depressione. Chiusero la fabbrica della birra Dreher, le Officine Grandi Motori e altri impianti industriali. Trieste venne avvolta da un’atmosfera plumbea e decadente. Ma per lui, all’obitorio, le cose continuarono ad andare bene. Lo stipendio ogni ventisette del mese gli veniva corrisposto. Non solo: con le mance elargite dai parenti dei defunti, divise più o meno in parti eguali tra gli addetti della cappella mortuaria, qualche volta riusciva addirittura a tirare su il doppio del salario. Tra rasature e vestizioni dei morti, rosari di plastica del valore di lire cinque infilati tra le mani rigide e fredde delle salme composte nelle bare e pronte per gli stanzini di esposizione, in cappella arrotondava assai bene.
Anche solo intascando mille lire a funerale, in media con quindici funerali a mattinata si tiravano su un bel po’ di quattrini. Poi però la festa finì. Un bel giorno, con la messa a disposizione dei nuovi stanzini di esposizione al cimitero di Sant’Anna la procedura subì una variazione: da allora le salme sarebbero sempre uscite nude dall’obitorio di Via della Pietà, trasportate dai furgoni nella grande camera fredda del campo santo di Via Costalunga. Della vestizione se ne sarebbero occupati quelli delle pompe funebri e i parenti dei defunti avrebbero pagato a loro il servizio.
Durante le sue lunghe e tristi riflessioni all’interno della casa di Gorizia, se lo ricordava bene quel periodo. Ricordava perfettamente quando il tasso dei suicidi a Trieste era estremamente elevato e quando in sala anatomica c’era il professor Renato Nicolini, un luminare nel campo, l’unico vero coroner italiano. Un gigante che aveva iniziato a espletare la professione nell’immediato dopoguerra, quando nel Territorio Libero di Trieste c’erano ancora gli Alleati. Allora l’Ospedale Maggiore drenava tutto il lavoro, sia dell’area urbana che dei comuni dell’altopiano, poiché era l’unico plesso ospedaliero in zona a essere dotato di una sala anatomica, delle celle frigorifere e i mitici banchi in porcellana per le autopsie acquistati in Austria e Cecoslovacchia.
In Via Pietà quei banchi di porcellana erano un vanto esibito con orgoglio, «un bene senza prezzo», come ripeté spesso con estremo disappunto Giorgio Sancin quando l’amministrazione decise di farne il “fuori uso” perché non più a norma. Sancin, il servolano doc storico preparatore autoptico dall’esperienza pluridecennale.
Udo Grobar non aveva studiato. Era stato assunto nei primi anni Sessanta per essere impiegato nello svolgimento di compiti di livello inferiore. Tuttavia, col passar del tempo maturò una certa esperienza, riuscendo a volte anche intercambiabile con l’altro personale di livello superiore al suo. Questo accadeva quando il preparatore autoptico aveva bisogno di aiuto. Udo era un sempliciotto, volenteroso e con tanta voglia di imparare.
«Dì, Grobar …varda che i morti nò gà manillie!»
I morti non hanno le maniglie, questo gli ripetevano sempre i necrofori più anziani nei primi mesi di servizio in Via Pietà. Un modo come un altro per ricordargli di sollevare adeguatamente le salme più pesanti, altrimenti sarebbero crepati tutti per la fatica.
Non erano in tanti a lavorare presso la cappella mortuaria. Fino al 1970 il custode era allo stesso tempo il consegnatario della struttura, per questa ragione aveva avuto in comodato d’uso l’alloggio di servizio all’interno dell’ospedale, un’abitazione dove risiedeva stabilmente con la famiglia.
Poi c’era il vice custode e gli aiuti. Tra questi ultimi figuravano anche lui e la donna delle pulizie, una signora di San Dorligo della Valle anche lei della minoranza slovena.
Ogni mattina Udo usciva da casa sua in Via Ponzanino per raggiungere a piedi il luogo di lavoro. Giunto in Via della Pietà apriva il grosso cancello di ferro nero che dava accesso al cortile ed entrava nella cappella mortuaria.
Se non c’erano da fare interventi sui corpi si metteva a disposizione del custode di cappella, quello che riceveva le salme sia interne (cioè provenienti dai vari reparti dell’ospedale) che esterne.
Nel primo mattino lo si trovava quasi sempre seduto al piccolo banchetto nello stanzino situato al piano terreno, dove avveniva la prima accoglienza delle salme. Di solito concentrato nella lettura de “Il Piccolo”, con le spalle volte al tavolone a rotelline dal piano in formica verde dove venivano deposti provvisoriamente i cadaveri.
Udo lo salutava frettolosamente e poi si infilava subito nello spogliatoio del personale, accanto alla porta del montacarichi per il trasporto dei morti al piano sottostante, dove c’erano le celle frigorifere e la sala anatomica.
A differenza di quelli che lavoravano al piano di sotto il personale di cappella aveva meno obblighi di natura igienico-profilattica.
Infatti, in cappella dovevano indossare soltanto il camice, il grembiulaccio paraspruzzi di plastica e i guanti di gomma. A quei tempi non esistevano materiali usa e getta e quindi i guanti li riutilizzavano più volte dopo averli lavati accuratamente dopo ogni intervento. Li rivoltavano, li “soffiavano” all’interno e, infine, li appendevano per l’asciugatura. Con questo sistema erano in grado di riutilizzare il medesimo paio anche per mesi.
Udo, per movimentare le salme se ne era procurato un paio in caucciù. Erano di colore giallo-ocra e gli avvolgevano tutto l’avambraccio. Li avevano fabbricati utilizzando un materiale molto spesso, grezzo e di fattura datata, comunque gli risultarono molto funzionali, poiché al momento della presa lo proteggevano maggiormente dai liquidi sprigionati dai corpi in avanzato stato di decomposizione attraverso l’epidermide, liquidi che generavano un fastidioso effetto scivolamento.
A volte per sbrigarsi, ma solo se il custode della cappella non lo osservava, con questi guanti indosso lui ci scriveva con la biro quando doveva compilare i registri di cappella, dove annotava i dati anagrafici, la provenienza e l’eventuale messa a disposizione dell’Autorità giudiziaria del cadavere che la polizia mortuaria gli aveva appena scaricato sul tavolone dalla cassa di trasporto in bachelite. Una procedura burocratica che preludeva al suo trasporto nel deposito di osservazione, dove rimaneva alcune ore.
In Via Pietà non ci stava poi così male, anche se il lavoro era pur sempre stressante. Al pari di altri suoi colleghi, Udo cercava di alleviarne il peso ricorrendo all’alcole. Una devianza che tra il personale di cappella aveva una notevole incidenza.
Proprio di fronte all’obitorio c’era un bar e, abbastanza spesso, capitava che qualcuno ci desse dentro. D’altro canto la stessa cosa accadeva anche a tutti quelli esposti a stress continui come loro. Ad esempio alcuni agenti delle volanti. Il bumba lo trovavi dappertutto e Udo non faceva certo eccezione.
Durante le brevi pause tra lo spostamento di una salma, il sezionamento di un’altra in sala anatomica e l’arrivo di un furgone della mortuaria con un nuovo cadavere da registrare, Grobar faceva delle veloci puntate al bar per un intermezzo a base di brandy Stock o di grappa.
L’alcole lo reggeva bene, dunque le bevute non gli procurarono mai problemi al lavoro né tantomeno richiami disciplinari.
A Trieste si usava dire che, delle cinquecento osterie della città nessuna è mai fallita. Probabilmente è vero. Una conferma deriva anche da quel bar di fronte all’obitorio. Un locale angusto e squallido, lungo quattro metri, largo due e senza neppure il cesso. Per anni, almeno fino a quando i funerali sono partiti da Via della Pietà, per il proprietario è stata una miniera d’oro. Quando le esposizioni delle salme si facevano ancora in cappella, prima che il corteo funebre muovesse in direzione del cimitero, i parenti dei defunti e i becchini che attendevano la chiusura della cassa del morto si assiepavano all’interno del bar per fare colazione.
A volte non si riusciva neppure a entrare tanto era pieno. Là dentro in tre si stava già stretti, nonostante gli arredi e le suppellettili fossero limitati all’essenziale: un piccolo bancone, la macchina del caffè e quattro bottiglie esposte. Non c’era nemmeno lo spazio per esporre le brioches, ma al gestore questo “poco” era sufficiente per fare una fortuna.
«SCENDERETE SULLE NOSTRE FIANCATE…»
A Trieste quella del 1972 viene ricordata come una estate particolarmente calda. Anche quel venerdì di luglio inoltrato non fece eccezione, seppure all’interno della sala anatomica dell’obitorio non si soffriva per la canicola. Al mattino presto il custode consegnatario aveva dovuto aprire il cancello al furgone Fiat 1100 nero della mortuaria: una salma era stata recuperata in provincia. Si trattava di una donna affogata, dall’apparente età di cinquant’anni. L’avevano ripescata a Duino e addosso non gli avevano trovato documenti o effetti personali che ne permettessero il riconoscimento. In seguito la polizia risalì comunque alla sua identità: Mara P., residente nella zona di Roiano, separata dal marito e senza prole. La sua scomparsa da casa era stata denunziata due giorni prima dalla sorella ai carabinieri.
Come abitualmente era usa fare, anche quel martedì Mara P. si era recata in pineta a Barcola per fare il bagno a mare, però alla sera non aveva fatto rientro a casa, cosa aveva preoccupato i parenti, che avevano pensato bene di avvisare militari dell’Arma. I carabinieri si attivarono subito e raccolsero delle testimonianze. La donna era stata vista da alcuni suoi conoscenti nel tardo pomeriggio del giorno della scomparsa mentre era seduta sulla riva. Da quel momento di lei non si ebbero più notizie. Alla fine la rinvenirono morta, ripescata gonfia a Duino alle sei di mattina di quel venerdì. Le ipotesi formulate sulle cause del suo decesso furono le più varie: incidente, suicidio, omicidio.
Per non sbagliare, dopo che l’effettuazione di una preliminare ispezione esterna del cadavere, l’Autorità giudiziaria aveva incaricato il professor Nicolini dell’esame autoptico. In quel periodo le autopsie si facevano anche al pomeriggio. Il professore convocò tutti i suoi collaboratori e alle undici e mezza l’équipe al completo fu al lavoro sull’affogata. C’erano Nicolini, Sancin che lo assisteva e, siccome era estate e parte del personale era assente per ferie, c’era anche un giovane laureato in medicina tirocinante presso la cattedra di anatomia patologica, il dottor Fulvio Costantinides. Il gruppo, concentratosi sul cadavere di Duino non escluse il suicidio. Non si sarebbe trattato certo di una novità per Trieste, soprattutto nella stagione estiva, quando la solitudine per alcuni diviene fatale.
Infatti, nel capoluogo giuliano il numero di suicidi è sempre stato elevato, ai livelli dell’Ungheria e della Finlandia. Ancora negli anni Settanta in città si registravano trecento tentativi di suicidio all’anno. Una triste caratteristica del luogo risalente nella storia, con picchi estremi anche al tempo dell’Austria, quando ogni anno si toglievano la vita numerose persone. In passato si era tentato di dare una risposta a questo problema e l’origine del fenomeno era stata oggetto di studi approfonditi, che tuttavia non condussero a nessuna certezza. Cosa poteva influenzare così i triestini? Si pensò alla commistione culturale frutto della particolare condizione di frontiera vissuta. Oppure anche la particolare posizione geografica, o la depressione economica che aveva afflitto Trieste a un certo punto della sua storia, senza escludere poi l’elevato tasso medio alcolemico dei suoi abitanti.
A uccidersi erano perlopiù persone di mezza età. Vecchi e malati psichiatrici. Ma non sempre però, poiché qualche volta capitava che si ammazzassero anche dei ragazzi. Quel giorno d’estate sul tavolo di ceramica c’era l’affogata di Duino. Era stato proprio Udo a portarla in sala anatomica per l’intervento. Data la temperatura refrigerante dell’ambiente, avrebbe preferito rimanersene al fresco lì al piano di sotto, ma il professore lo aveva rimproverato con severità:
«Grobar! – aveva gridato – lei non ne sa nulla dell’anguria conservata al fresco nella cella frigorifera accanto ai morti!?!»
Udo con lo sguardo basso aveva quindi fatto ritorno su in cappella. Quel giorno non si sarebbe più fatto vivo in sala anatomica, Nicolini lo aveva beccato sul fatto e adesso rischiava la commissione disciplinare. In realtà accadeva di frequente. D’estate lui e i suoi colleghi scendevano di sotto senza farsi vedere e mettevano la frutta nei frigoriferi per conservarla fino all’ora della pausa pasto a una temperatura di due gradi centigradi. Altre volte, ma solo quando la sala anatomica era completamente vuota, Udo vi faceva ingresso per camminarci a passi lenti e calibrati, in guisa da provocare volutamente quel caratteristico rumore ottenuto dal contatto della suola di cuoio delle scarpe col piano di calpestio in marmo. Come si verifica all’interno di quegli ambienti dove l’acustica è formidabile, ad esempio in certe chiese barocche particolarmente adatte allo svolgimento dei concerti di musica da camera o polifonica. All’obitorio la goliardia era una costante. Mai eccessiva e mai pari a quella di una sala operatoria in chirurgia. L’obitorio era quotidianamente pervaso da un umorismo da commedia che spezzava l’atmosfera rendendola meno pesante. Ricorreva frequente una battuta, ripetuta da tutti ma della quale a tutti il significato risultava però completamente oscuro:
«Scenderete sulle nostre fiancate…»
Veniva pronunciata all’improvviso da un medico o da un preparatore, a volte da qualcuno del personale della cappella mortuaria che si affacciava di sotto durante gli interventi. La bisbigliava a denti stretti e poi si eclissava. Si diceva che fosse stata inventata chissà perché molti anni prima da un preparatore autoptico che faceva il verso a Umberto Saba quando questi commentava le partide de bałon giocate dalla squadra di calcio della US Triestina alla domenica. Quando non era la goliardia a farlo, il clima dell’obitorio veniva reso più leggero dalle stranezze dei parenti dei morti.
Una volta una celebre cantante lirica volle a tutti i costi vestire per l’ultimo viaggio la madra morta come l’Aida nell’opera. Oppure quando c’erano i funerali degli zingari, coi parenti del defunto che riempivano di fiori tutto il pavimento della celletta di esposizione dov’era stata sistemata la bara per la camera ardente.
Il più delle volte il lavoro scorreva liscio e i parenti si limitavano a piangere lo scomparso raccogliendosi attorno a esso. Altre volte, invece, i morti non avevano parenti o conoscenti, allora la salma veniva tumulata a spese del comune nei campi a terra del cimitero. Erano casi molto tristi, nella memoria di Udo ne rimase impresso uno in particolare, era legato a un caso di cronaca nera, quello del cadavere della donna uccisa rinvenuto sulla panchina dei giardini di Via San Michele in una fredda alba dell’inverno del 1969.
Era deceduta per le percosse ricevute dal compagno col quale conviveva. Non si comprese mai il reale movente che spinse l’uomo a commettere l’omicidio. Si era infuriato e aveva iniziato a picchiarla fino a lasciarla esanime su quella panchina dove l’avrebbero trovata gli agenti delle volanti. «L’ho presa a calci nel culo», aveva poi affermato con serenità a poche ore dal fatto, quando i poliziotti lo avevano tratto in arresto nell’appartamento nella Città vecchia dove abitava. Un fatto di sangue del quale in seguito non si seppe più nulla. Due giorni dopo, l’assassino si suicidò in una cella del carcere Coroneo dov’era stato astretto. L’assassinio dei giardini di Via San Michele a Udo rimase bene impresso nella mente per due precise ragioni: la prima era che i protagonisti del fatto, sia la vittima che il suo carnefice, erano entrambi triestini della minoranza slovena come lui, inoltre perché quel mattino, mentre si recava al lavoro, attraversando Piazza Garibaldi si era imbattuto in una troupe cinematografica che stava effettuando le riprese di un film.
Mosso dalla curiosità si era avvicinato al set e, sbirciando, era riuscito a intravedere la nota attrice inglese Joan Collins. La troupe stava girando una scena de “Lo stato d’assedio”, un’opera di Romano Scavolini ambientata nella Trieste contemporanea divenuta fantasma della mitteleuropa. Una città segnata dai drammi umani strettamente legati al suo inesorabile declino.
Il film, che sarebbe stato successivamente presentato al festival di Venezia con un titolo diverso, “L’amore breve”, ricevette dalla critica giudizi alterni: bella la fotografia, inadeguate le velleità viscontiniane e modesta la interpretazione. Il film contiene numerose concessioni all’erotismo tali da renderlo del tutto negativo. Dal canto suo, la Collins, attrice protagonista, affermò che «Trieste era una delle città più tristi e deprimenti in cui ella fosse mai stata». Lui, che non era per nulla appassionato di cinema, non appena l’anno seguente venne proiettato nelle sale di seconda visione, andò a vederlo insieme alla moglie. Però a dispetto dei commenti della critica gli piacque, malgrado la storia non fosse poi così allegra e che lui, ormai, la collegasse indissolubilmente all’omicidio dei giardini di Via San Michele.
Quel goriziano di lingua e cultura slovena a Trieste ci si trovava completamente a proprio agio. La moglie era italiana e i loro figli erano nati in città, sia in casa che per la strada non parlavano sloveno, d’altro canto seguendo il corso dei loro studi i ragazzi si erano sempre iscritti a scuole italiane. I Grobar non si occupavano di politica. Udo non aveva mai militato in formazioni filo slave o comuniste, anche se per censo apparteneva alla base popolare, cioè a quella fascia sociale della sua minoranza che nel 1948, dopo lo strappo di Tito da Mosca, sostenne nella sua massima parte la componente “cominformista” del Partito.
Nella sua vita solo una volta venne avvicinato da un dirigente di un partito espressione della minoranza, uno della Slovenska Skupnost, l’Unione Slovena, formazione politica che raccoglieva consensi tra gli sloveni anticomunisti del Friuli Venezia Giulia. Gli aveva dato ascolto per un po’ al fine di ottenere una raccomandazione per fare assumere suo figlio come usciere al comune di San Dorligo della Valle. Ma quella liason non portò ad alcun risultato, dunque troncò i contatti con la politica.
TI RICORDI DI ŽIŽAK ANTON?
Rientrato in casa verso le dieci della sera, vuoi a causa del caldo vuoi anche per gli effetti generati sul suo fegato dalle grappe bevute al bar della piazzetta, non appena varcata la soglia del piccolo appartamento si precipitò in cucina a bere un bicchiere di Coca Cola. Una volta dissetatosi scartò una caramella gommosa al gusto di liquirizia. La portò alla bocca e la succhiò lentamente facendola così sciogliere, poi deglutì la saliva nel frattempo divenuta una miscela fortemente aromatizzata. Faceva sempre così quando eccedeva col bere. Era un trucco per non soffrire troppo per la sbronza. La liquirizia, oltre a dare sollievo alla sua bocca bruciata dall’alcool, alzava anche un poco il livello della pressione arteriosa, evitandogli gli immancabili giramenti di capo che si verificavano al momento in cui si coricava.
Era giunta l’ora di andare a dormire. Si recò in bagno a lavarsi i denti, dopo averli accuratamente puliti con lo spazzolino a setole di media durezza, li sciacquò ripetutamente con l’acqua del rubinetto. Infine andò in camera da letto e si sdraiò. Spense la lampadina e accese la radio appoggiata sulla cassettiera in legno. Lo faceva sempre prima di addormentarsi, quando si immergeva nell’atmosfera della sua abitazione fatta di rumori attutiti a lui familiari, come quello dei secondi scanditi dall’orologio con la molla a bilanciere. Ma anche da quegli odori che sapevano di vecchio, emanati dalle due poltroncine di velluto nel soggiorno e dal legno tarlato degli arredi che furono di sua madre. Nel dormiveglia, nella penombra resa tale dalla lieve luce lunare che penetrava attraverso la finestra, all’orizzonte, fuori, riusciva a intravedere la Jugoslavia. Laggiù apparentemente regnava la calma, seppure la radio sintonizzata sulle frequenze di Capodistria, che in quel momento stava trasmettendo il notiziario serale, continuava a riferire di fatti inquietanti.
La voce del giornalista di turno incaricato della lettura delle notizie giunse alle orecchie di Udo come un suono lievemente metallico. Questa mattina alcune unità del XIII Korpus dell’Armata federale hanno lasciato le loro sedi stanziali di Rijeka in Croazia per raggiungere il confine sloveno con l’Italia, ma la loro avanzata è stata disturbata dalla popolazione civile, che ha reagito con forza allestendo barricate lungo gli assi viari, manifestando inoltre apertamente contro l’azione delle forze centraliste di Belgrado. Non si sono comunque verificati incidenti. A Lubiana il governo della Repubblica slovena ha applicato il piano relativo all’assunzione del controllo dell’aeroporto internazionale di Brnik e degli avamposti della dogana ai confini esterni. Al riguardo il ministro della difesa Janez Janša ha dichiarato che tale operazione è finalizzata allo stabilimento della sovranità slovena nel triangolo chiave del controllo dell’aria, dei confini e, appunto, delle dogane.
Udo si era quasi addormentato, ma udendo queste parole si destò improvvisamente. Tornò immediatamente lucido, nonostante la grappa bevuta in precedenza. Dunque si sono ripresi i confini – pensò – e ora che succederà? I federali incominceranno a sparare? Vedrai che diverrà inevitabile uno scontro militare… devo assolutamente recuperare la macchina prima che sia troppo tardi, prima che scoppi un casino. Il confine era a meno di cinquecento metri da casa sua, quel confine così diverso da quello dei paesi del blocco comunista più a Est. In fondo la Jugoslavia era sempre apparsa diversa. In quel momento, però, dal fondo della sua memoria riemerse improvvisamente un fantasma che si appropriò immediatamente dei suoi pensieri fino a ossessionarlo: Žižak Anton, quarantacinque anni, cittadino jugoslavo. Trovato cadavere nel luglio del 1984 da alcuni agenti della Guardia di Finanza nei pressi della linea di confine nella zona di Muggia.
Žižak Anton, quarantacinque anni, cittadino jugoslavo. A una prima ispezione esterna del cadavere il decesso si presume provocato da colpi di arma da fuoco.
Da quel momento in poi fino a quando, finalmente, riprese sonno, quell’immagine e quel nome non riuscì a scostarli dalla mente.
Žižak Anton, quarantacinque anni, cittadino jugoslavo. All’arrivo nell’obitorio di Via Pietà il cadavere non si trovava in pessime condizioni, questo nonostante la dinamica del decesso e l’esposizione all’elevato calore estivo.
Annotate le generalità e il luogo di provenienza del morto sul registro della cappella, Udo quel giorno di luglio del 1984 aveva poi aggiunto la nota che il cadavere doveva essere posto a disposizione dell’Autorità giudiziaria. Del caso se ne sarebbe occupato il dottor Costantinides e solo l’autopsia avrebbe fornito con estrema chiarezza la causa del decesso.
Comunque non sarebbe stato difficile arrivarci lo stesso data la situazione. Infatti era stato un colpo di fucile d’assalto in calibro 7,62 per 39, probabilmente sparato da uno Zastava M-70, copia jugoslava del Kalashnikov, arma d’ordinanza in dotazione ai graničarji. Il proiettile aveva perforato il tronco dell’individuo e il suo foro d’ingresso era stato localizzato senza difficoltà al di sopra del rene destro, quello di uscita nella regione addominale. Udo ebbe l’opportunità di osservare attentamente il cadavere dal momento in cui la polizia mortuaria glielo depositò sul tavolone a rotelline della cappella. Ancora adesso ricordava perfettamente le devastanti ferite presentate da quel corpo rigido e cereo. Già, perché di ferite si trattava, dato che Žižak Anton non era morto subito. L’uomo aveva tentato di fuggire clandestinamente dalla Jugoslavia, ma nel corso del suo disperato tentativo era stato visto dai graničarji e questi gli avevano subito sparato contro a raffica. Il resto si sapeva. Un colpo aveva attinto la sua schiena trapassandogli il corpo.
Ma Žižak con le sue ultime forze era riuscito egualmente a trascinarsi in territorio italiano, lì lo avrebbero trovato cadavere immerso in lago di sangue. Chissà perché fuggiva in quel modo dalla Jugoslavia? Se lo avesse voluto in quel periodo avrebbe potuto oltrepassare il confine addirittura con il passaporto senza farsi apporre il visto. Forse Žižak al suo paese aveva problemi politici, o magari era un criminale latitante che cercava di espatriare per sottrarsi definitivamente alla cattura, ovvero ancora, era uno dei tanti piccoli contrabbandieri che trafficavano quotidianamente a cavallo del confine con l’Italia. ll’obitorio di Trieste la sua tragica disavventura sarebbe stata archiviata come un caso di omicidio volontario. Dall’altra parte della frontiera, invece, il militare jugoslavo in forza al 64º Battaglione della Granicka Straža che lo aveva fatto fuori avrebbe ricevuto dai superiori un encomio solenne per aver “esemplarmente adempiuto alla consegna assegnata”.
Udo pensava e ripensava a quella brutta storia. La legava indissolubilmente ai drammatici sviluppi della situazione in quei giorni ai confini. L’analogia era quella che c’erano nuovamente dei militari in forze a presidiare i valichi e la linea di frontiera. Alla fine, come sempre, prevalse la stanchezza e Udo cadde in un sonno profondo.
Dopo sette ore, puntualmente la suoneria della sveglia trillò. Il vecchio si destò. Sbadigliò, si stirò ripetutamente e poi si alzò dal letto. Fuori, a prima vista la giornata sembrava serena. Avrebbe fatto caldo, tuttavia contava di uscire presto proprio per evitare la canicola. Per prima cosa riaccese la radio sulla cassettiera per ascoltare le ultime notizie del giornale radio, italiano o sloveno che fosse. Voleva farsi un’idea della situazione a Nova Gorica. Capire se ci fossero problemi nel passare di là e se, dove e da chi fossero stati eventualmente disposti dei blocchi stradali.
Dai notiziari trasmessi in quel primo mattino non riuscì a saperne molto di più di quanto aveva appreso nella serata precedente, quindi entrò in cucina e iniziò con calma a consumare la prima colazione. Sul vecchio tavolo di legno erano già pronte le stesse robe che da decenni mangiava al mattino: noci, pane, formaggio di montagna, succo d’arancia e tè. Un’abitudine risalente alla sua infanzia, una dieta che gli aveva trasmesso sua nonna Rada. Accese il fornello con un fiammifero e ci pose a scaldare il bricco pieno d’acqua. Poi prelevò alcuni grammi di formaggio dal frigorifero Bosch dal maniglione a scatto e del pane dalla credenza, infine si sedette a tavola per mangiare.
Aprì il guscio delle noci inserendovi nelle fessure la lama di un coltellino col quale faceva leva per separarlo in due parti. Dopo aver estratto il gheriglio con le dita lo mise in bocca e lo masticò per bene. A ogni noce associò dapprima un pezzettino di formaggio e poi il pane. Quando era ancora viva, nonna Rada gli ripeteva continuamente che mangiare tre noci al giorno era salutare, poiché aiutava ad abbassare il tasso del colesterolo. Udo aveva fatto tesoro di questo consiglio. Quando l’acqua sul fuoco divenne calda al punto giusto la versò nella tazza di porcellana, nella quale c’era già un cucchiaino di zucchero e la bustina di tè per l’infuso. Più l’acqua è calda e più il tè viene forte, e a lui piaceva proprio così, scuro. Dopo aver mangiato e bevuto, i leggeri bruciori di stomaco che lo avevano infastidito al momento del risveglio sembravano attenuarsi.
Alle otto uscì di casa per avviarsi a piedi al valico di confine. Il luogo dell’appuntamento con Joško era poco distante da casa sua. Fuori non faceva ancora caldo e lui durante il percorso pensò bene di chiedere in giro ai passanti incontrati lungo la strada quale fosse la situazione.
«Scusi, sa mica se il valico della Casa Rossa sia aperto o chiuso? – oppure – I poliziotti lasciano passare o no?»
Provò a chiedere a qualcuno, però non ottenne risposte precise. Mentre camminava a passo spedito verso la Casa Rossa gli tornò nuovamente in testa la terribile immagine di Žižak, che in quel particolare frangente contribuì ad accrescere il suo stato di tensione. Non poté fare a meno di trovare un’analogia tra l’attuale situazione e il dramma di quell’uomo mitragliato sul confine a Muggia. In entrambi i casi si trattava di frontiere blindate da uomini armati pronti a fare fuoco coi fucili, con l’aggravante che adesso in Slovenia stava scoppiando addirittura la guerra. Žižak scappava disperatamente da chissà cosa, lui aveva solo il terrore che quel catorcio della sua macchina venisse requisito dalla Difesa Territoriale slovena oppure distrutto nel corso dei combattimenti.
QUELLI ERAN GIORNI SÌ…
Dirigendosi a piedi verso la Casa Rossa, Udo notò che il grande piazzale prima del posto di controllo presidiato da poliziotti e finanzieri quel mattino era stranamente deserto. A dire il vero quel luogo non si era mai caratterizzato per l’eccessiva animazione, se non per le ricorrenti lunghe file di veicoli provocate dai controlli eccessivamente accurati effettuati dagli agenti confinari. Ma stavolta quella distesa d’asfalto al limite della città appariva più cupa del solito. In giro non c’era quasi nessuno. Non si vedevano neppure i conducenti di quei grandi autoarticolati fermi al parcheggio in attesa di attraversare il confine, che di solito aspettavano al vicino posto di ristoro bevendo un caffè o una birra. Nulla di tutto questo. Udo lo attribuiva al fatto che il giorno precedente in Slovenia c’era stata la “battaglia dei cippi e delle bandiere”, una schermaglia simbolica combattuta dalle forze di Lubiana e dall’Armata federale. Gli indipendentisti avevano sostituito i vessilli jugoslavi che dal 1945 garrivano sui pennoni del confine con il nuovo tricolore recante il Triglav, simbolo nazionale sloveno. L’operazione aveva assunto un preciso significato: il confine esterno non era più quello della Federazione jugoslava ma della neo costituita Repubblica indipendente di Slovenia. Con l’arrivo in forze dei militari jugoslavi le bandiere slovene erano state rimosse, però la tensione permaneva elevata. Da Belgrado, il comando supremo dell’esercito per intimorire i secessionisti aveva inviato in quel settore alcune unità della 253.a Brigada, facendole muovere da Ajdovščina e Vipava. Al mattino del ventotto giugno due compagnie di fanteria appoggiate da un plotone carri avevano preso posizione a Rožna dolina, disponendosi a ridosso del valico di frontiera. Lo spiegamento di forze era visibile anche dall’Italia. Udo si rese conto della gravità della situazione e, giunto in prossimità del posto di controllo italiano, si avvicinò per chiedergli notizie sulla situazione a un agente della Polfrontiera: «Mi scusi, ma cosa succede? Si passa di là? Io devo raggiungere mio nipote poco oltre il confine, laggiù …vede, alla pompa di benzina ma ci sono dei carri armati, lei ha idea di cosa stia succedendo?» Il poliziotto lo guardò incredulo e poi gli rispose: «Proprio oggi deve andare di là!?! Guardi che stanotte c’è stata baruffa… da questo lato il confine è aperto, si passa, ma io glielo sconsiglio. Non vede che ci sono i soldati coi carri armati…» «Perché? …hanno sparato? – chiese Udo con una forte dose di ingenuità – Voglio dire …c’è pericolo che sparino?» Il poliziotto seccato dalle domande rispose bruscamente: «Di là oggi può succedere di tutto, va bene! Se vuole passare vada pure, ma sappia che lo fa a suo rischio e pericolo». Udo ringraziò lo stesso la guardia e prese a incamminarsi verso il territorio jugoslavo.
Quando fu già nella terra di nessuno, proprio prima di passare sotto al cavalcavia ferroviario, udì alla sua sinistra il vociare affannato di alcune persone che si muovevano nella sua stessa direzione, due uomini giunti quasi a superarlo. Uno di essi recava al seguito una pesante videocamera. Giornalisti! – pensò – se mi accodo a loro forse riuscirò a passare senza difficoltà anche il controllo dei graničarji. L’idea era buona e dunque allungò il passo, anche se questo gli costava fatica. Sebbene appesantito, con un certo affanno riuscì a raggiungerli poco prima della sbarra di confine. Dall’inflessione con la quale si esprimevano Udo pensò che fossero trevigiani, o magari friulani della sponda destra del Tagliamento, reporter di qualche emittente privata del Nordest. La marcia forzata terminò davanti ad alcuni militari di Belgrado. Una delle guardie di frontiera puntò immediatamente il fucile contro di loro intimandogli l’alt: «Stoj!» Udo ebbe paura. Fissò uno dei due giornalisti italiani e in lui riconobbe un volto noto. Si trattava di Gigi Di Meo, il direttore di TelePordenone si recava insieme a un operatore a effettuare un servizio sulla crisi in atto nella vicina Slovenia. «Press! Press! Novinari!!! Siamo giornalisti italiani… – esclamò Di Meo – siamo di TelePordenone, ecco i nostri passaporti guardi …è tutto in regola, lui è il mio operatore». Udo si era confuso ai due senza che questi si fossero curati più di tanto della sua presenza. Il vecchio rimase in silenzio alcuni istanti, mentre esibiva il suo documento per l’espatrio al graničar il tempo gli pareva interminabile. La guardia lo scrutava con severità, infatti aveva subito notato che il documento che Udo gli aveva esibito era una prepústnica, il lasciapassare transfrontaliero concesso in Italia.
Dopo un po’ si avvicinò un ufficiale, che controllò con un’occhiata volti e documenti di tutti e tre gli italiani. Udo abbozzò un sorriso complice a Di Meo, cercando con evidenza un’intesa col giornalista. L’ufficiale jugoslavo corrucciò il volto ma non fece domande e dopo alcuni istanti autorizzò il passaggio dei tre con un cenno della mano alla guardia. E’ fatta, pensò Udo sganciandosi dai due telereporter pordenonesi, ma lo fece soltanto alcune decine di metri più avanti per non dare l’impressione ai militari che lo avevano appena controllato di non far parte del gruppo di inviati. Per arrivare al luogo d’incontro concordato con Joško fu costretto a passare tra alcuni carri armati allineati lungo la strada che conduceva alla stazione di servizio. I soldati dell’Armata federale scherzavano tra loro, esibendosi ai pochi giornalisti stranieri presenti mostrando il segno della “vittoria”, ottenuto divaricando le dita indice e medio della mano.
C’era anche della gente assiepata all’incrocio subito dopo il passaggio del confine che gridava ai soldati jugoslavi di andarsene via, di tornarsene nelle loro caserme altrimenti alla sera sarebbero venuti a mandarli via con le cattive quelli della Difesa territoriale slovena. Raggiunse il luogo dell’appuntamento alle dieci e trenta ma Joško, solitamente molto puntuale e preciso nel mantenere fede agli impegni, non c’era. Cercò allora di trovare la sua macchina tra quelle poche ferme al vicino parcheggio, ma della Zastava del figlio di Vesna nessuna traccia. In compenso si accorse che dietro l’edificio del cambiavalute stazionavano una dozzina di autocarri militari. La cosa non si metteva bene. Dopo aver atteso in piedi una ventina di minuti, decise che era il caso di telefonare a casa dei Mihalek per avere notizie di Joško. Per farlo dovette ritornare indietro verso il posto di confine e raggiungere il bar dov’era il telefono pubblico. Il Bistrò Rožna dolina, vicino ai gabbiotti di controllo dei graničarji e della Milica. L’atmosfera all’interno del locale era surreale: praticamente vuoto con a pochi metri dalle sue vetrine fermo col potente motore diesel acceso un grosso carro armato. Nella sala ristorazione la musica veniva diffusa dagli altoparlanti appesi alle pareti. L’apparecchio stereofonico era sintonizzato sulle frequenze della Radio di Stato, che in quel momento stava trasmettendo un intermezzo di musica leggera.
Era appena terminata l’esecuzione di un brano musicale molto rilassante, la rivisitazione della nota canzone di Marty Robbins, “My love is blu”, fatta dall’orchestra di Paul Muriat. Un motivo orecchiabile divenuto senza tempo frequentemente diffuso in funzione antistress nelle sale di attesa degli aeroporti o nelle hall dei grandi alberghi. Una breve pausa e sarebbe iniziato il brano successivo. Stavolta si trattava di una vecchio successo di Dalidà: «Quelli eran giorni sì, erano giorni, tu al mondo non puoi chiedere di più…» La melodia della cantante francese contrastava in maniera stridente con la realtà circostante: il personale del bistrò era quasi tutto in cucina intento ad armeggiare col grosso frigorifero contenente carne macellata e insaccati.
Nella sala c’erano pochissimi avventori: un accaldato sottufficiale della Guardia di frontiera che sorseggiava una birra fresca appoggiato al bancone del bar, due camionisti croati seduti a un tavolino che fumavano sigarette e parlavano con un loro collega turco rimasto bloccato in Jugoslavia dalla guerra col suo autoarticolato e, infine, uno dei benzinai della vicina stazione di servizio Petrol che discuteva a bassissima voce con il cuoco. Udo si avvicinò a questi ultimi, entrambi sloveni, interrompendo la loro conversazione con una supplica: «Vi prego, devo assolutamente telefonare in questo stesso distretto, potreste passarmi una linea che la cabina fuori non funziona?» I due non si erano minimamente accorti della sua presenza e alla supplica di Udo si voltarono improvvisamente. Erano tesi, preoccupati, lo si leggeva chiaramente sui loro volti. «Non abbiamo il telefono qui – rispose seccato il cameriere – c’è solo un apparecchio di servizio ma non posso farglielo usare». Udo insistette parlando in lingua slovena: «La prego! La prego. Sono italiano, sono rimasto bloccato qui ma devo assolutamente raggiungere i miei parenti a Solkan …mi aiuti io non so più cosa fare…» Il cuoco stavolta rispose in maniara molto scostante: «Ma insomma! Mi lasci in pace, non lo vede che cosa sta succedendo qui! Cosa c’è venuto a fare oggi in Slovenia!?! Eppoi anche volendo tutte le linee telefoniche o sono sovraccariche oppure vengono disturbate elettronicamente dall’Armata federale jugoslava. Guardi che non riusciamo a comunicare neanche noi».
La risposta sgarbata del cuoco si unì alla stanchezza e alla forte emozione provata da Udo. Una miscela che lo annichilì e per un momento gli fece perdere le forze. Il vecchio si accasciò su una sedia. Racchiuse la testa tra le braccia appoggiandola al piano in formica color aragosta del tavolino, come volesse proteggerla dall’ambiente circostante. istintivamente, come avrebbe fatto un bambino, avrebbe voluto come per incanto sottrarsi a quella brutta situazione. Joško ormai non si sarebbe più presentato all’appuntamento, ne era certo, e adesso lui non aveva più alcuna idea sul cosa fare. Il vecchio Grobar stava vivendo il suo piccolo grande dramma. In lui maturava sempre più la convinzione che la sua macchina sarebbe andata perduta. Ma non era solo il pensiero della perdita della Fiat 131 ad affliggerlo, quanto tutto quell’insieme di cose nel quale era improvvisamente sprofondato quel mattino. Quella realtà in dissoluzione che si chiamava Jugoslavia. Un universo che per cinquant’anni era stato lì, granitico, a poche centinaia di metri da casa sua. Pur senza darsene una spiegazione in termini concreti, in quel momento riusciva comunque a percepire perfettamente che lì era in atto un mutamento epocale. In una terra che in qualche modo era anche la sua terra. Il mite Udo Grobar era caduto vittima di circostanze perverse.
Una, apparentemente, priva di sostanziale rilievo: il recupero della sua vecchia autovettura, l’altra invece molto più grande di lui: i primi fuochi della sanguinosa guerra in Jugoslavia. Circostanze che lo avevano risucchiato dalla sua tranquilla esistenza trascinandolo nel vortice del dramma che si andava consumando a cinquecento metri da dove era nato e cresciuto. Seduto al tavolino del Bistrò Rožna dolina si sentì come un cencio bagnato gettato sul pavimento. Alla stessa stregua di uno straccio, che una volta divenuto inerte assume una forma a seconda di come cade per terra. Poi, inaspettatamente, la voce gentile di un uomo di mezza età gli sussurrò nella lingua madre qualcosa all’orecchio: «Signore …signore! Guardi, se vuole posso accompagnarcela io a Solkan. Ho terminato il mio turno di lavoro alla pompa e adesso vado a casa …lei deve raggiungere Solkan, non è così che ha detto prima? Almeno così mi pare di aver capito quando ci ha interrotti». Udo sollevò lentamente la testa dal tavolino e si rese conto che a parlargli era il baffuto benzinaio della Petrol che in precedenza discuteva col cuoco del bar. Quell’uomo avrebbe potuto aiutarlo risolvendo il suo problema. «Davvero può condurmi a Solkan? Se lo facesse mi sarebbe veramente di grande aiuto sa…» Il benzinaio sorrise e annuì col capo: «Ma certo signore, stia tranquillo. Dieci minuti e saremo là».
Lasciarono il locale per dirigersi al parcheggio dove l’uomo aveva lasciato la sua vecchia Zastava 750. Il benzinaio aprì con la chiave la portiera dal lato del conducente e salì a bordo della piccola utilitaria, poi alzò la sicura dello sportello destro provocando un lieve caratteristico rumore meccanico. Udo aprì la portiera e si accomodò nell’abitacolo. Una volta avviato il motore partirono alla volta di Solkan. Attraversarono il centro di Nova Gorica e in pochi minuti furono davanti alla casa di Vesna. Udo si accomiatò dal benzinaio ringraziandolo ripetutamente per la cortesia ricevuta. Ora si sentiva più sereno, anche perché, con sollievo, aveva constatato che la sua macchina si trovava ancora parcheggiata là dove l’aveva lasciata. Ancora integra.
Suonò il campanello dell’abitazione dei Mihalek. Dopo pochi istanti la porta venne aperta da Joško. Udo alla vista del figlio della cugina rimase sorpreso. Una lieve smorfia di disappunto gli segnò il volto: «Joško! – esclamò – Ma cosa fai qui? Perché non sei venuto all’appuntamento che avevamo a Rožna Dolina? Tu non sai cosa ho dovuto fare per raggiungere casa vostra…» Il giovane era visibilmente imbarazzato. Cercò di abbozzare una scusa di circostanza per giustificarsi: «Guarda …ti prego scusami. Lo vedi tu stesso cosa sta succedendo in Slovenia, qui al confine in particolare. Oggi siamo stati tutto il tempo con le orecchie incollate alla radio. Non si capisce più niente, non si sa neppure chi comanda veramente a Belgrado, se il governo federale oppure i militari …io ho ritenuto che sarebbe stato più opportuno rimanere vicino alla mamma, a Jana e a Zdravko …perdonami, davvero».
Udo non se l’era presa, ormai si era reso conto della situazione e soprattutto era consapevole che i Mihalek erano stati sempre molto gentili e disponibili nei suoi confronti e quindi non voleva essere di peso. Joško lo fece accomodare all’interno della casa. Udo lo seguì fino al piccolo soggiorno, dove ebbe modo di salutare anche gli altri componenti della famiglia. Erano tutti all’interno della stanza seduti sul divano a guardare la televisione, stavano trasmettendo le immagini degli scontri avvenuti nei giorni precedenti, coi carri armati jugoslavi che schiacciavano con i loro cingoli le autovetture state frapposte alla loro marcia dalla popolazione. Ai lati delle strade, la stessa gente che aveva eretto le barricate, gridava insulti nei confronti dei militari. Per la Jugoslavia era iniziata la lenta agonia che l’avrebbe condotta alla morte. Tra i Mihalek in quel momento la più emozionata di tutti era Vesna. Si rivolse al cugino con le lacrime agli occhi: «Udo, Udo …tu non te ne puoi rendere conto, tu vivi di là …qui è tutto così triste. Tito è morto da dieci anni e guarda cosa sta succedendo…stamane gli aerei federali hanno bombardato Šentilj al confine con l’Austria e hanno ucciso un nostro poliziotto e dei camionisti turchi che non c’entravano nulla, è una tragedia!»
Jana prese la bottiglia di rakja e un bicchierino di cristallo dalla credenza e li poggiò sul banchetto di fronte al divano. Offrì la grappa a Udo, che si era completamente immerso nella pesante atmosfera regnante in quel momento nella casa. Era stato subito magneticamente attratto dalle immagini trasmesse dalla televisione e contestualmente colpito dalla commossa reazione di Vesna. Non aveva badato a ciò che gli aveva detto Jana. Realizzò che c’era della grappa solo dopo alcuni secondi di apnea mentale. «Come?!? Ah, sì …sì, la rakja. Cioè voglio dire …no, no, no, non posso bere, devo guidare, sono venuto a riprendermi la macchina». Il piccolo Zdravko, rimasto fino a quel momento in silenzio, parlò a Udo tra l’ironico e l’intimativo: «Ma non starai mica scherzando!?! Dove pensi di andartene in giro per la Slovenia oggi con quella macchina? Li hai visti o no i soldati dell’Armata federale coi carri armati per Nova Gorica!» Il vecchio rimase interdetto per un istante. Avrebbe voluto insistere per riportarsi indietro la sua macchina in Italia, ma le parole del ragazzino lo inchiodarono al divano. «Ma come?!? – argomentò senza eccessiva convinzione – Io ho attraversato tranquillamente il confine senza problemi e qui mi sembra tutto tranquillo …no? Che volete che mi facciano, in fin dei conti devo percorrere in auto soltanto pochissimi chilometri e tutti all’interno della città». Vesna gli prese con dolcezza le mani e lo esortò nuovamente a non fare stupidaggini, invitandolo a restare in casa con loro fino a quando fuori la situazione non si fosse stabilizzata. Joško invece fu stranamente perentorio, cosa che non aveva assolutamente mai fatto con lui: «Beh, tu fai come ti pare, però sappi che oggi io non potrò venirti a recuperare in nessun posto, né con la macchina e neppure a piedi. Quindi pensaci bene prima di muoverti da casa di tua cugina!»
Udo comprese che avrebbe dovuto fare come dicevano loro, i Mihalek stavolta non gli avrebbero permesso di andarsene via in macchina. La situazione non era tranquilla e in cuor suo quasi si convinse della validità dei consigli dispensatigli dai parenti poco prima. Chiese allora di poter almeno posteggiare l’autovettura nella rimessa coperta che si trovava dietro il prefabbricato. Un luogo a relativa distanza dalla strada, dove la macchina sarebbe stata più al sicuro da eventuali problemi. Gli risposero che era possibile. Allora Udo uscì dalla casa con Joško ed entrò nella sua 131 parcheggiata lì di fronte. Infilò la chiave nel blocco dell’avviamento facendola girare per far partire il motore. Nulla. Il motorino non rispondeva al comando. Merda! – pensò – ma com’è possibile …e adesso cosa faccio? Girò la testa a sinistra e, attraverso il finestrino abbassato, guardò in volto Joško che si trovava lì accanto come per riceverne una risposta. Cercò di fare mente locale e finalmente si rese conto del perché la macchina non partiva: due giorni prima, parcheggiandola, non si era reso conto di avere lasciato fari e lampadine di cortesia interne all’abitacolo accese e adesso gli accumulatori in batteria erano andati giù. Completamente scarichi. Il destino voleva che la sua macchina restasse ancora lì. Il vecchio ripiombò nuovamente nella depressione e i Mihalek fecero di tutto per rincuorarlo, rassicurandolo del fatto che la sera stessa, non appena fosse rientrato dal lavoro, Joško avrebbe trainato la macchina all’interno della rimessa dietro il prefabbricato usando il trattore della cooperativa. Mentre lo tranquillizzavano però lo prendevano anche in giro, schernendolo a causa dellan sua maniacale preoccupazione per quella vecchia macchina. «Suvvia – gli dissero ridendo – in fin dei conti anche se c’è la guerra Solkan non è mica Beirut». Verso mezzogiorno Joško si congedò dai presenti per recarsi al lavoro. Vesna gli andò incontro e gli strinse le braccia al collo con un trasporto che a Udo parve fuori dal normale. La donna non riuscì a trattenere le lacrime e baciò ripetutamente il figlio sul capo. Mah, avrà paura per via dei possibili scontri armati in città di cui tutti parlano – pensò Udo – sarà questa tensione che si taglia col coltello… per via del fatto che uscendo in strada si può restare coinvolti in un conflitto a fuoco. Ma a me qui mi sembra tutto così tranquillo.
Il ritorno a casa di Joško era previsto in tarda serata, dunque Udo, che era intenzionato a fare rientro in Italia nel primo pomeriggio, si avvicinò al giovane per salutarlo. Arrivarono anche Jana e Zdravko, pure loro emozionati. Ma cosa starà mai accadendo… pensò il vecchio rientrando in casa, deciso stavolta a bere il bicchierino di rakja offertogli da Jana. Dopo un’ora circa i Mihalek consumarono il pranzo insieme e Udo si associò a loro. Restarono tutti in silenzio, con gli occhi sempre fissi sullo schermo della televisione e le orecchie attaccate alla radio per apprendere degli eventuali sviluppi. Le emittenti locali erano costrette a effettuare dei repentini salti di frequenza per sfuggire alle continue scariche di disturbo lanciate dalle unità di guerra elettronica dell’Armata federale che voleva impedire le trasmissioni. Zdravko era costretto a inseguire il segnale radio fuggendo dal jamming jugoslavo. Agiva continuamente sul pomello della sintonia al contempo, a seconda della necessità, aumentava o riduceva il volume audio regolandolo col potenziometro dell’apparecchio a transistor. Udo era sempre più impressionato dalla situazione nella quale si trovava.
Alle ore quindici il notiziario radiofonico annunciò che a Belgrado il governo federale guidato da Ante Marković aveva dichiarato un cessate il fuoco unilaterale e che da Lubiana però, fino a quel momento non erano state fornite risposte. Al riguardo non si erano pronunciati né il presidente Kučan né il ministro della difesa Janez Janša. In Slovenia i combattimenti erano proseguiti e c’erano stati altri morti. Poi gli speaker avevano ripetuto gli appelli rivolti alla popolazione affinché si recasse a donare sangue negli ospedali. Intanto il pomeriggio trascorreva e adesso Udo fremeva nuovamente per tornarsene a casa sua in Italia, stavolta a piedi. Vesna e i suoi figli cercarono in tutti i modi di trattenerlo presso di loro: «Dormi qui da noi stanotte, dove vuoi andare in giro con tutti questi soldati in giro? Sei matto …e se poi ti sparano!?! Resta qui, che ti sistemiamo nel letto di Joško, poi domattina se fuori la situazione si sarà calmata te ne potrai tornare a casa tua».
Nulla da fare. Udo era un testardo e declinò cortesemente l’invito della cugina. Non volle sentire ragioni, era assolutamente deciso a tornarsene a Gorizia prima di sera. Il tempo stava passando e la radio lo ricordò a tutti quando trasmise il bollettino delle diciassette: la Difesa territoriale mantiene il controllo di circa la metà dei valichi di frontiera con l’estero. Nella tarda mattinata velivoli dell’aviazione militare jugoslava hanno attaccato l’aeroporto di Brnik bombardandolo: ingente il bilancio delle vittime civili e dei danni provocati all’infrastruttura. Negli scontri verificatisi fuori dall’aeroporto due giornalisti di nazionalità austriaca sono stati uccisi dal fuoco di un carro armato federale, mentre nella zona interessata dagli scontri i soldati jugoslavi non lasciano avvicinare le ambulanze giunte in soccorso ai feriti. Bombardata anche la città di Dravograd e la strada tra Novo Mesto e Lubiana. Della regione del Prekmurje è giunta la notizia che formazioni di aerei federali hanno attaccato alcune posizioni della Difesa territoriale slovena nei pressi di Murska Sobota, inoltre vengono segnalati incidenti anche nella vicina Croazia, nella capitale Zagabria e nella città di Osijek, dove la folla ha assaltato i carri armati dell’esercito di Belgrado. Sempre dalla Croazia giunge la notizia che quindicimila turisti stranieri sono stati costretti ad abbandonare i luoghi di villeggiatura e sono stati rimpatriati d’urgenza…
«ZDENKO: OPIZDI!»
Devo andare via da qui prima che faccia buio, pensò. E con un improvviso scatto di volontà si diresse verso la porta dell’abitazione dei Mihalek. Ma Joško stavolta non era lì pronto ad accompagnarlo a Štandrež in macchina e Udo da solo non sarebbe stato in grado di raggiungere il confine prima del tramonto a piedi. In condizioni normali in un’ora di cammino, magari in un’ora e un quarto, da Solkan avrebbe potuto raggiungere Rožna dolina, in passato qualche volta gli era anche capitato di farlo, ma oggi proprio no.
Avvertiva la sensazione che il suo fisico non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare fin là prima di sera. Era troppo vecchio e si sentiva spossato dalle forti emozioni provate durante la giornata. Completamente privo di vigore e appesantito pasto e dalle libagioni in casa di Vesna. Oggi per lui il valico confinario di Rožna dolina era decisamente troppo lontano da Solkan, raggiungerlo a piedi sarebbe stata un’impresa eccessiva. Alla fine una soluzione la trovò Jana, che alle cinque e mezzo del pomeriggio si rivolse a un vicino di casa. L’uomo in cambio di cinque marchi tedeschi si rese disponibile ad accompagnarlo in macchina fino a Rožna dolina. Era fatta dunque.
All’ora stabilita Udo salutò velocemente tutti e prese posto nella Volkswagen Passat giallo senape del vicino, questi mise in moto la vettura e partirono. Durante il breve tragitto di ritorno, rispetto al mattino stavolta a Udo parve di attraversare una Nova Gorica diversa. La città era semideserta. Al trgovsko središče, il centro commerciale, nonostante l’ora c’era pochissima gente e la maggior parte dei negozi erano chiusi. Tutti i semafori che incontravano lungo la strada lampeggiavano giallo, come se fossero stati predisposti per rendere libera e senza impedimenti la via a quelli che avessero avuto fretta di passare. All’angolo di un incrocio, parcheggiata per metà sul marciapiede c’era ferma un’autopattuglia della Milica. La Yugo 511 coi colori d’istituto della polizia, azzurro scuro e bianco, aveva le portiere anteriori aperte e i lampeggianti elettromeccanici a rotazione spenti. Uno dei miličniki se ne stava appoggiato con le braccia sulla capote e da quella comoda posizione comunicava via radio con la centrale operativa. Gli altri due, armati di fucile mitragliatore, si erano invece appostati dietro la vettura per controllare i movimenti nella zona circostante. Alla loro vista il vicino di Vesna rallentò. Innestata la marcia più bassa, superò a mezzo gas i poliziotti per proseguire oltre riprendendo poi gradualmente velocità. Non si trattava di un posto di blocco vero e proprio, ma in quella particolare situazione conveniva sempre rallentare.
Si erano fatte quasi le sei di sera, Udo se ne era reso conto osservando l’orologio al quarzo applicato al cruscotto della macchina. Distrattamente si voltò a destra e, guardando fuori dal finestrino, notò un piccolo monumento di granito eretto in memoria dei partigiani che avevano combattuto nella Seconda guerra mondiale. Ai piedi di esso erano state deposte due corone di fiori avvolte dal drappo rosso stellato della Jugoslavia socialista. Ancora alcune centinaia di metri e ci saremo, pensò nel momento in cui la Passat superava la zona di Grčna, poco prima dell’incrocio sottostante la collina di Panovec. In quel tratto la strada si sarebbe inerpicata su per l’altura e alla fine li avrebbe condotti a Rožna Dolina. Improvvisamente il vicino di Vesna imprecò qualcosa e spaventato si rivolse a Udo: «I federali! Lo sapevo io! Lo avevano detto anche alla radio che c’erano i soldati nella selva di Trnovo». Udo volse meccanicamente lo sguardo a sinistra dell’incrocio, verso il Trnovski Gozd e scorse distintamente una piccola colonna di autocarri militari jugoslavi preceduti da una ruspa che lentamente si avvicinava nella loro direzione. «Quelli vanno a rinforzare il presidio al valico – affermò il vicino – ascolta Udo: adesso io non posso più proseguire oltre, se vuoi ti riporto indietro a Solkan, altrimenti …non so cosa dirti, vedi un po’ tu cosa vuoi fare. Rožna dolina è dietro questa collina, se vuoi puoi provare a raggiungerla a piedi, ma stai molto attento che oggi forse qui si spara».
Udo, ormai a un passo dal confine con l’Italia, non ci pensò su due volte. Scese subito dalla macchina e si incamminò su per la strada che risaliva la collina. Dopo pochi passi, duecento metri al massimo, si sarebbe trovato sul piazzale del confine e da lì avrebbe potuto attraversarlo e tornarsene finalmente a casa. O perlomeno questo era il suo auspicio. Passo dopo passo, affaticato dall’età e dal fisico in sovrappeso, in un bagno di sudore e col cuore che batteva forte, si era lasciato alle spalle il monastero di Kostanjevica e ora alla sua destra poteva vedere la bassa collinetta di Rafut, proprio sotto Gorizia. Stremato, quando il sole non era ancora calato, giunse nei pressi dell’abitato sorto alle pendici della collinetta. Ecco, adesso aveva superato anche i cantieri delle ultime file di palazzine in costruzione a ridosso del grande incrocio di Rožna dolina. Tutto sembrava tranquillo. Anche se, per la verità, lungo tutta la strada percorsa a piedi non aveva incontrato anima viva. Strano segno. Il vecchio risentiva dello sforzo, ma resistette e proseguì nel suo lento cammino in direzione dell’incrocio. Dovette però rallentare ulteriormente il passo di quella sua marcia forzata.
Lungo quell’ultimo breve segmento di strada notò parcheggiata quella ruspa militare che aveva visto circa mezz’ora prima aprire l’autocolonna dell’Armata federale quando era a bordo della macchina del vicino di Vesna. Dietro il bulldozer c’erano alcuni soldati che parlavano tra loro fumando sigarette. Più avanti, all’angolo dell’incrocio, sul lato della stazione di servizio, osservò delle persone e qualche auto ferma accanto al marciapiede. Svoltò a destra per guadagnare il confine, però evitò di passare vicino al boschetto che lo separava dal Bistrò Rožna dolina, in quanto aveva intravisto alcuni militari appostati tra gli alberi e i cespugli. Non avevano un atteggiamento ostile, al contrario, continuavano a sorridere verso gli obiettivi delle videocamere dei reporter delle televisioni estere facendo sempre quel segno di “vittoria” con le dita. «Siamo qui perché gli italiani vogliono invadere la Jugoslavija e dobbiamo difendere i confini nazionali». Questo sentì affermare senza troppa convinzione da un graduato dell’esercito in risposta alla domanda di un giornalista inglese sulle ragioni della loro presenza in quel luogo. Malgrado i numerosi mezzi corazzati schierati davanti al confine, queste immagini non impressionarono più di tanto Udo. Egli mantenne l’animo sereno anche quando passò di fronte all’agenzia Kompas Jugoslavija, a due metri di distanza da un carro armato col cannone puntato verso la città di Nova Gorica.
Superata l’agenzia viaggi ecco il Duty Free Shop, adesso sì che aveva veramente quasi un piede in Italia. Il confine era aperto e gli restavano da percorrere meno di trenta metri per arrivare al gabbiotto dove avrebbe dovuto mostrare il suo lasciapassare alla guardia di turno. Controllò l’ora sul quadrante del suo vecchio orologio da polso con il cinturino in pelle. Le lancette segnavano le sei e mezza, ma lui sapeva bene che non si trattava dell’ora esatta. Il suo orologio andava un po’ avanti, o meglio, in realtà andava indietro, dato che perdeva circa quindici minuti nell’arco di un giorno. Era proprio per questa ragione che lui ogni mattina all’atto della carica, verificata dapprima l’ora esatta facendo riferimento al vecchio orologio austriaco dalla molla a bilanciere, poi rimetteva a posto le lancette di quello da polso, avendo cura di posizionarle un quarto d’ora più avanti rispetto all’ora esatta. In questo modo riusciva a non fare mai tardi a un appuntamento. Saranno quasi le sei e venti rifletté, poi diede un ultimo sguardo ai militari jugoslavi che presidiavano la sbarra di confine.
Improvvisamente, una voce dura e determinata riecheggiò tutt’intorno amplificata da un megafono: «Sono il maggiore Srečko Lisjak della Difesa territoriale slovena: arrendetevi altrimenti inizieremo ad attaccarvi!» Udo restò impietrito. Giratosi nella direzione dalla quale proveniva la voce, vide le persone che prima erano all’angolo della strada fuggire verso il distributore di benzina Petrol. Alcuni poliziotti della Milica slovena vestiti in abiti civili esibivano i loro tesserini identificativi alla gente e ai giornalisti stranieri esortando tutti ad allontanarsi rapidamente e a mettersi ai ripari. I militari dell’Armata federale jugoslava non si aspettavano un attacco e all’intimazione degli sloveni cercarono di prendere posizione assumendo rapidamente l’assetto tattico. I piloti dei carri si infilarono nei loro mezzi di chiudendo subito i portelloni d’acciaio, quindi avviarono i potenti motori diesel, che sbuffarono calde e maleodoranti nuvole nere di gasolio dagli scarichi. Udo era rimasto allo scoperto accanto a uno dei corazzati.
Cercò un rifugio che fosse il più vicino possibile. Lo trovò nell’agenzia viaggi. Si gettò di peso sulla porta a vetri e picchiò forte coi pugni per farsi aprire dagli impiegati che erano dentro. Da sotto il bancone spuntò una signorina, avrà avuto venticinque anni al massimo ed era bianca in volto per la paura. «Apra la prego! Apra la prego!!!» supplicò Udo. La ragazza in un primo momento tentennò, poi si avvicinò alla porta per aprirla. A quel punto Udo ebbe un lieve mancamento, ma si sforzò di restare ancora in piedi almeno per arrivare fino a dietro il bancone, lì avrebbe potuto trovare un riparo. Quello che gli stava capitando in un’unica giornata era veramente troppo per un vecchio come lui. I secondi parevano un’eternità, poi finalmente la ragazza aprì la porta. Fu proprio nel momento in cui Udo varcò la soglia dell’agenzia viaggi che gli uomini della Difesa territoriale lanciarono il primo razzo.
«Zdenko: opizdi!» Zdenko: sbattiglielo dentro! Con questa volgare ma efficace espressione castrense dagli espliciti riferimenti sessuali, Srečko Lisjak, l’ufficiale alla guida del commando della Teritorialna Obramba, quel tardo pomeriggio dette l’ordine al caporale che si trovava al suo fianco di tirare il micidiale Armbrust-300 contro uno dei T-55 jugoslavi che bloccavano l’accesso al confine con l’Italia. Zdenko dalla sua posizione protetta al primo piano dell’edificio in costruzione sulle pendici della collinetta eseguì prontamente l’ordine ricevuto e azionò il sistema di sparo. Con una piccola vampa il razzo da ottanta millimetri lasciò il suo tubo di lancio per seguire la breve e tesa traiettoria che lo avrebbe portato a impattare contro l’acciaio del carro armato nemico.
Lo colpì in uno dei suoi punti più vulnerabili: lo scafo al di sotto del cingolo. Udo avvertì distintamente il boato. Ormai si trovava dentro all’agenzia, ma lo spostamento d’aria generato dall’esplosione investirono sia lui che la giovane impiegata che gli aveva aperto la porta, sbalzandoli in terra. Udo non conosceva gli effetti dell’esplosione di una carica cava. Lui, immagini del genere le aveva viste solo al cinematografo. ma per l’equipaggio che si trovava a bordo del carro colpito invece fu l’inferno. Poiché quando una carica cava perfora la corazza, il più delle volte non c’è scampo per nessuno: il jet incandescente che l’attraversa perforandola, durante il suo stesso passaggio all’interno del mezzo crea una zona di distruzione dove tutto ciò che c’è brucia. Inoltre, intorno al suo percorso mortale si genera un’onda d’urto e una luminosità che acceca i membri dell’equipaggio eventualmente sopravvissuti all’esplosione; infine, i frammenti incandescenti di metallo distaccatisi dalla parte interna della corazza vengono proiettati contro gli uomini dell’equipaggio.
Mentre il carro armato jugoslavo iniziava a bruciare, Udo riuscì a rifugiarsi assieme agli impiegati dietro al bancone. Dopo pochi istanti, fuori, l’esplosione della riservetta delle munizioni del primo mezzo colpito trasmise gli effetti delle sue detonazioni anche all’altro carro armato fermo davanti all’agenzia viaggi. Dopo un po’ anche questo, lentamente, iniziò a bruciare. Intanbto sul piazzale erano proseguiti i combattimenti e altri razzi erano stati sparati dagli sloveni. Uno aveva colpito in pieno il vomere della ruspa dietro la quale avevano cercato protezione i militari dell’Armata federale che Udo aveva visto alcuni istanti prima. Uno di essi era morto, mentre gli altri erano rimasti feriti. La maggior parte dei soldati jugoslavi non riusciva a individuare le posizioni degli attaccanti sloveni e dunque molti di loro spararono alla cieca. Tra questi anche il comandante del carro armato fermo davanti alla stazione di servizio Petrol, che fece fuoco all’impazzata con la mitragliatrice pesante installata in torretta. Sia lui che il suo equipaggio furono preda del terrore e puntarono la torretta nella direzione opposta a quella del valico di confine, mitragliando in maniera devastante il viale che conduceva alla zona residenziale e il palazzo della società di import–export Primex. A differenza del fuoco del commando sloveno, estremamente selettivo, gli jugoslavi, bloccati nelle loro posizioni e privi di campo di tiro, si videro costretti a sparare in modo confuso, nella convinzione che gli attacchi stessero provenendo da tutte le direzioni. Molto presto si arresero. Il loro comandante, un capitano di etnia croata colpito in maniera non grave, si trovò sotto shock e non più nelle condizioni di guidare la sua unità. Ora il valico confinario era tornato nuovamente in mano slovena.
Quando ebbero la certezza che i combattimenti fossero cessati, le persone che avevano trovato rifugio nell’agenzia viaggi uscirono all’aperto. Fece così anche Udo. Una volta fuori vide il gruppo di militari jugoslavi catturati dagli sloveni che venivano fatti sdraiare in terra con le mani sulla testa. A sirene spiegate iniziarono ad affluire le ambulanze e i feriti vennero trasportati negli ospedali. Udo era inebetito. Lo spavento, la stanchezza e il caldo lo avevano completamente spossato. Si sentiva debole e avrebbe voluto farsi visitare da un medico, ma all’idea di restare ancora un minuto in quel luogo infernale preferì rientrare al più presto in Italia. Soltanto cinquanta metri più in là. Prima di incamminarsi barcollando nuovamente verso la sbarra di confine, si voltò per un‘ultima volta verso il piazzale dov’era avvenuto il combattimento. Tra i carri armati in fiamme notò che era giunto anche un milite della Difesa territoriale. Era armato di un fucile diverso da quello che avevano gli altri, un’arma più lunga e con un’ottica di precisione fissata alla canna, sembrava il fucile di precisione di un cacciatore.
Il destino quel giorno gli aveva riservato un’ultima sorpresa. Udo rimase interdetto alla vista di quel tiratore scelto. Era incredibile. Stentava a credere a quello che vedeva: quello sniper era il “piccolo Joško”, il figlio di sua cugina Vesna. Joško faceva parte del commando che aveva teso l’agguato all’unità corazzata jugoslava. Si trascinò fino a lui e lui lo riconobbe immediatamente in mezzo a tutta la gente che stava sul piazzale e, a sua volta, gli si fece incontro. Udo avrebbe voluto abbracciarlo, un po’ anche per scaricare la grande tensione accumulata e dall’affetto della persona cara ricevere un’implicita conferma del fatto che tutto fosse veramente finito. Ma Joško non usò mezzi termini e lo rimproverò. A suo avviso Udo aveva davvero oltrepassato il limite: «Che cazzo ci fai qui! – gli gridò in faccia – Ma diamine.. tu, proprio il cervello te lo sei bevuto tutto. Tu e quella maledetta macchina che ha centomila anni! Guarda Udo, guardati intorno: lo hai capito anche tu che qui c’è la guerra, oppure no!?! Ecco… allora, filatene immediatamente di là in Italia e vedi pure di sbrigarti finché il confine resta aperto, perché se i federali tornano e ci bombardano con gli aerei qui succede un casino che tu manco te lo immagini!»
GORIZIA GORIZA GURIZA
Quello di Joško era stato un rimprovero severo, ma a Udo in ogni caso non fece male. Egli era certo che presto, con il calmarsi della situazione, avrebbe potuto fare ritorno a Solkan, dove sarebbe stato riaccolto con lo stesso affetto di sempre. In fondo i Mihalek gli volevano bene. Adesso però voleva soltanto passare quel maledetto confine con l’Italia e restarsene finalmente in un luogo tranquillo. In un caffè per esempio, in un locale dove ci fosse gente a conversare e ridere, con la televisione accesa che trasmettesse qualcosa che non fosse guerra o ammazzamenti. Insomma, un luogo famigliare dove tutto apparisse normale, malgrado il fatto che una guerra fosse divampata a soli cinquecento metri di distanza da lì.
Varcò il confine con la Repubblica italiana senza alcuna difficoltà. Aggirò la sbarra abbassata senza che al suo passaggio gli agenti della Guardia di Finanza ritornati alle loro postazioni dopo i combattimenti gli controllassero il passaporto. Soltanto uno di loro diede una rapida occhiata a distanza alla copertina per sincerarsi se quel documento fosse di un cittadino italiano. Ma gli occhi dei finanzieri erano fissi sul versante jugoslavo. «Sono italiano! Sono italiano!» Esclamò Udo, ma la guardia non si curò minimamente della sua presenza, era troppo preso da ciò che avveniva trenta metri più avanti. Alla vista dei primi combattenti della Difesa territoriale slovena i finanzieri si sbracciarono per salutarli urlandogli: «Amici! Amici!».
Ancora molto spaventato, Udo si lasciò finalmente il confine alle spalle e si trovò a vagare stralunato nel deserto di asfalto del grande piazzale della Casa Rossa. Era agitato e cercava un luogo dove riposarsi e prendere fiato. Sentiva di dover appagare il suo bisogno di sicurezza trovando ristoro nella gente. Immergendosi tra le persone affaccendate nelle normali attività quotidiane. Ormai il sole era quasi del tutto tramontato.
Ma sentì che gli mancavano le forze. Sono vecchio – pensò – e anche se è sera fa ancora molto caldo. Lo soffriva il caldo dell’estate. Tuttavia volle proseguire egualmente il suo cammino percorrendo la strada che conduceva in centro città. La sua meta era via Roma. Da lì avrebbe raggiunto Piazza della Vittoria. Luoghi dove avrebbe sicuramente trovato molta gente. Alla fine del piazzale, al momento di iniziare la salita, si sentì venire giù e allora si appoggiò a un muro. I vigili urbani del Comune di Gorizia avevano predisposto la cinturazione dell’area per evitare che i civili potessero raggiungere il piazzale. Era ancora pericoloso. Uno di questi lo vide accasciarsi e gli corse incontro per prestargli aiuto: «Signore che ha – gli disse -, si sente male? Vuole che chiami un’ambulanza?» Udo fece cenno di no con la mano, poi replicò al vigile: «Non è nulla non si preoccupi, grazie. Sono solo un po’ stanco, sa, sono appena rimasto coinvolto nella battaglia qui oltre il confine…». Il vigile insistette, ma alla fine Udo gli fece capire che non aveva bisogno di un medico e che ce l’avrebbe fatta da solo. Lo salutò ringraziandolo per l’interessamento e riprese a camminare.
Più avanti notò degli anomali e molto discreti movimenti di uomini dell’Esercito italiano. Qualche camionetta era uscita dalle caserme, i militari erano in stato di preallarme. La battaglia di Rožna Dolina aveva elevato il livello di all’erta, ma le difese alla Casa rossa sarebbero state approntate soltanto in serata con l’arrivo da Gradisca delle squadre di fanteria armate di missili controcarro. Uno schieramento preventivo nell’eventualità che gli jugoslavi sconfinassero con i loro mezzi corazzati in territorio italiano.
Udo si lascò alle spalle anche i soldati italiani e giunse finalmente nei pressi di piazza della Vittoria. Entrò in un caffè elegante. Tutti gli avventori stavano commentando i fatti avvenuti poco prima. Alcuni di loro vi avevano addirittura direttamente assistito affacciati dagli spalti del Castello che domina anche Rožna dolina. Oggi ai goriziani erano giunti nitidi i rumori dei colpi sparati in Slovenia, la guerra aveva lambito anche la loro città. Udo si sedette su uno sgabello appoggiandosi al bancone con un braccio.
Riprese fiato e si rivolse alla barista: «Mi scusi signorina, potrei avere una grappa e una fetta di gubana alla slivovica per piacere». La ragazza chiese come la voleva: «La grappa la gradisce “prime uve” oppure un’altra …mi dica lei?» Udo sospirando con voce flebile le rispose che sarebbe andata bene qualsiasi cosa purché alcolica. Lasciò lo sgabello per sedersi su una sedia più comoda che trovò accanto a uno dei tavolini liberi, quindi attese che la cameriera gli portasse il bicchierino di grappa. Si guardò intorno e notò che il bar pasticceria era pieno di gente. Da un lato c’erano anche un paio di belle signore eleganti che consumavano gli ultimi aperitivi freschi prima della cena.
Quello fu l’attimo nel quale, allontanata la solitudine, riuscì a provare dentro di sé un’immensa felicità per il solo fatto di essere ancora vivo. Sentì salire un groppo su per la gola, avrebbe voluto piangere. Non riuscì a trattenere l’emozione ed esplose in una strana risata sardonica, un riso amaro che si trasformò velocemente in un singhiozzo. Gorizia, Gorica, Guriza – pensò – in quanti modi posso chiamarti …casa mia.
Sopraggiunse la cameriera a portargli la grappa. Ora poteva bere, affogando le sue tensioni nell’alcole cercando di spegnerle un po’. Una grappa eppoi un’altra. Ordinò anche una fetta di gubana alla slivovica, ma purtroppo in quel caffè al momento non ne avevano. Avrebbero potuto offrirgli soltanto una gubana normale, quella che si compera negli scatoloni al supermercato. Bene, fa lo stesso. Disse di sì alla cameriera e quando questa gli portò il dolce di cui era ghiotto, lo mangiò con avidità.
Non guardava più l’orologio, adesso il tempo non aveva più importanza per lui. Non era più assillato da nulla. Erano le nove e mezza e lui era completamente rilassato. In quella maledetta calda serata d’estate, a casa, giù a Štandrež, non ci voleva proprio tornare. Se avesse potuto, sarebbe rimasto seduto al tavolino del bar tutta la notte. Fino all’alba, quando sarebbe sorto il sole. Desiderava che lì, in mezzo alla gente, il tempo si fermasse. Anche se non parlava con loro, l’importante era che attorno a lui gli altri ci fossero. In allegria. Stava per finire di mangiare la sua fetta di gubana quando nel locale calò il silenzio.
Era sempre la televisione che si imponeva su tutti, ora stavano per trasmettere il notiziario di mezza sera. Tutti tacquero per ascoltare le ultime notizie sulla guerra: buonasera, mentre nel corso dei combattimenti della giornata di oggi l’esercito jugoslavo avrebbe riconquistato diciassette dei circa trenta valichi di confine presenti in Slovenia, lasciando i restanti nelle mani di Lubiana, poco fa si è appreso che alle ventuno e trenta sarebbe stato diramato ufficialmente l’annuncio del cessate il fuoco. Si tratterebbe anche del risultato della forte pressione esercitata dalla Comunità economica europea, infatti la troika europea, formata dai ministri degli esteri italiano De Michelis, lussemburghese Poos e olandese Van der Broek, nel corso di convulse trattative condotte dapprima nella capitale federale Belgrado e successivamente a Zagabria, ha ribadito alle parti in conflitto la decisione europea di sospendere gli aiuti destinati al governo jugoslavo avviando in questo modo il meccanismo di crisi previsto della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. La ferma richiesta di Bruxelles è quella di una moratoria di tre mesi, con il rientro nelle caserme di tutte le forze attualmente in campo… Letta la prima notizia sul conflitto in Slovenia, la voce della giornalista sfumò gradualmente e fu coperta dal crescente brusio degli astanti. Ben presto prevalse su tutto il normale vociare che c’era nel locale prima che la televisione trasmettesse il notiziario.
Udo, stanco e obnubilato dalla grappa, dei lanci di agenzia letti dalla giornalista era riuscito a recepire soltanto alcune parole. Mah …sarà pure una buona notizia – pensò – ma la tregua reggerà veramente? Dal crocchio di persone che discutevano sedute in fondo della sala si udirono alcune voci più animate delle altre. Udo non ci badò, non comprese neppure di cosa stessero discutendo con quei toni animati. Se ne disinteressò. Pensò che probabilmente stessero litigando per dei fatti loro. A un tratto però, una voce sguaiata e resa roca dall’alcol riuscì a sovrastare tutte le altre: «Bastaaa ti ghapio! Han rotto i cojon! Che i sc’avi se copasero tutti tra łor …e fine!»