Un’operazione anfibia di portata strategica.
I luoghi della battaglia.
L’apertura di un secondo fronte in Europa.
Le difficoltà degli Alleati.
Le pressioni di Stalin e il disastro di Dieppe
E quando la guerra nella quinta primavera non offriva nessuna prospettiva di pace, il soldato trasse la sua conclusione, morì la morte dell’eroe. Ma la guerra non era ancora a punto e perciò dispiacque all’imperatore che il suo soldato fosse morto: non era ancora tempo.
L’estate passava sopra i sepolcri e il soldato già dormiva quando venne di notte la commissione medica militare. E il dottore esaminò accuratamente il soldato o quel che rimaneva ancora di lui e trovò che il soldato era idoneo a tutti i servizi e che scansava il pericolo.
E subito portarono seco il soldato. La notte era azzurra e bella. Chi non portava l’elmo poteva vedere le stelle della patria. E perché il soldato puzza di putrefazione, gli zoppica davanti un prete che agita sopra di esso il turibolo perché non abbia a puzzare.
Davanti, la musica col trullalà suona spedita una marcia e il soldato appena l’apprese, lancia le gambe dal culo. Sul suo sudario essi dipinsero i colori bianco-rosso-nero e lo portarono davanti a lui; con i colori non si vedeva più il fango. Col trullalà e arrivederci, con moglie e cane e prete e nel bel mezzo il soldato crepato come una scimmia ubriaca.
Tanti gli ballavano e gli strillavano intorno che nessuno lo vedeva, solo dall’alto lo si poteva scorgere ancora e là non ci sono che le stelle. Le stelle non ci sono sempre: un’alba viene. Ma il soldato, così come ha imparato, procede nella morte eroica.
Bertold Brecht, Ballata del soldato morto
Un’operazione anfibia di portata strategica
Le forze di impiego anfibio hanno rappresentato da sempre uno dei più efficaci strumenti di proiezione di potenza. Nel corso dei secoli la guerra anfibia, con le sue relative tattiche d’impiego sia di uomini sia di mezzi, sono state oggetto di continue revisioni e perfezionamenti. Questo fino alla Seconda guerra mondiale, il momento che ne ha rappresentato l’apice dell’evoluzione, infatti, nel corso di tale conflitto, (in modo particolare nel teatro del Pacifico, che vide gli americani opposti ai giapponesi in una campagna caratterizzata dal salto delle isole), la marina degli Stati Uniti produsse appositamente navi e altre apparecchiature da impiegare negli sbarchi, strumenti concepiti allo specifico scopo che vennero realizzati mediante un processo progettuale continuamente aggiornato. I risultati ottenuti in guerra avrebbero poi dimostrato la validità delle operazioni anfibie di portata strategica, come quella effettuata in Normandia nel 1944. Tra il giugno e l’agosto di quell’anno, a seguito del massiccio sbarco alleato sulle coste della Francia settentrionale, in Europa fu aperto un secondo fronte di guerra. La penetrazione angloamericana, iniziata con il consolidamento della testa di ponte nella parte occidentale del paese e proseguita quindi con la rottura del fronte tedesco, preluse alla liberazione di Parigi e, alcuni mesi dopo, all’occupazione della Germania. Quegli avvenimenti decisero le sorti del conflitto portando alla resa del III Reich. Quella nota in codice come “Overlord”, fu la più grande e rischiosa operazione anfibia della storia, che per essere realizzata impose agli Alleati il superamento di enormi difficoltà di natura tecnica e logistica, inoltre non mancarono le divergenze sul piano strategico fra i vari comandanti. Il varco aperto da nord nell’Europa continentale costrinse Hitler a sottrarre vitali risorse dal fronte orientale, dove la Wehrmacht era duramente impegnata contro l’Armata rossa sovietica. In quel momento i tedeschi, seppure in ritirata non erano però ancora sul punto di essere debellati e ciò veniva testimoniavano dalla loro situazione sui vari fronti dove erano impegnati, la sostanziale tenuta del fronte interno e la produzione industriale nazionale, il cui picco massimo in Germania venne raggiunto nel febbraio 1944, malgrado i bombardamenti a tappeto degli angloamericani, fatto che già allora evidenziò alcuni limiti dell’Air Power. (¹)
Ma Heer, Luftwaffe e Kriegsmarine, pur raschiando il barile, non poterono arrestare la pressione esercitata da occidente. L’esame del campo tedesco consente anche di soffermare l’attenzione sulle differenze di vedute che intercorsero fra i due maggiori comandanti responsabili della difesa del settore costiero francese, von Rundstedt e Rommel. La contrapposizione tra questi alti ufficiali, unita all’intervento diretto di Hitler, si riflesse negativamente sulle operazioni dell’esercito tedesco, che furono non del tutto adeguate alla situazione. La riuscita di Overlord va ascritta anche alle complesse attività di intelligence poste in essere dai servizi segreti militari dei principali paesi alleati che parteciparono alla fase preparatoria dello sbarco e alla battaglia in Normandia. All’inizio del 1944 la partita non era ancora definitivamente decisa, almeno non nei termini voluti da Roosevelt, Churchill e Stalin. Seppure intuissero la debolezza del nemico, gli angloamericani temettero comunque il possibile fallimento di un’operazione del genere. In quella particolare fase della guerra, non riuscire ad aprire un secondo fronte in Europa avrebbe potuto comportare conseguenze imprevedibili persino sul piano della tenuta dell’alleanza stessa. Il presidente degli Stati Uniti pretendeva di ottenere dai tedeschi una resa incondizionata, ma per giungere a questo risultato, probabilmente, avrebbe dovuto cedere il passo a una trattativa di pace più accondiscendente con Hitler; ma non solo. Chi avrebbe potuto garantire che l’Unione sovietica non si sarebbe “sganciata” per siglare una pace separata con i nazisti? In fondo nei rapporti tra la diplomazia di Mosca e Berlino era rinvenibile un inquietante precedente nell’accordo Molotov-Ribbentropp del 1939 che portò alla spartizione della Polonia. Stalin in quel momento si trovava di fronte a una Russia stremata e nulla gli avrebbe impedito di svincolarsi dal conflitto, consentendo così al Führer di concentrare gli sforzi bellici sulla Gran Bretagna.
L’invasione alleata della Francia settentrionale terminò con l’attraversamento della Senna da parte delle truppe angloamericane il 19 agosto 1944. La battaglia di Normandia, cioè il complesso dei combattimenti seguiti allo sbarco anfibio del 6 giugno, noto anche come D-Day, si sarebbe esaurita poco più tardi, alla fine dello stesso mese, con la liberazione di Parigi e la successiva ritirata in direzione della Germania delle truppe tedesche che erano riuscite a sganciarsi dalla “sacca di Falaise”.
Note
(¹) Quando, nel 1944, il sistema industriale tedesco raggiunse il suo picco massimo di produzione, le fabbriche lavoravano ventiquattro ore al giorno su turni di dodici ore; in precedenza, il 13 gennaio del 1943, a causa della carenza di maestranze addette alla produzione, il cancelliere del Reich Adolf Hitler aveva promulgato un decreto mediante il quale ordinava a tutto il personale in condizioni di lavorare, sia di sesso maschile che femminile, di apportare il proprio contributo allo sforzo bellico della nazione. In forza di tale dispositivo tre milioni di donne tedesche, fino allora in massima parte impegnate in mansioni domestiche, furono immesse nel sistema industriale, incrementando in questo modo le quantità di materiali d’armamento prodotti mensilmente.
I luoghi della battaglia
La costa orientale della penisola del Cotentin e il dipartimento del Calvados, entrambi situati nella Bassa Normandia, furono i luoghi prescelti per l’operazione Overlord, dopo l’approfondita analisi del completo spettro delle possibili opzioni al tempo offerte da una linea costiera che si estendeva dalla Piccardia alla Bretagna. La Normandia (Normandie in lingua francese, Nuormandie in normanno) è la regione del nordovest della Francia che occupa la bassa vallata del fiume Senna (Alta Normandia), per giungere fino alla penisola del Cotentin (Bassa Normandia). Considerata una delle province storiche del Paese, nel 1790 fu suddivisa in cinque dipartimenti: Calvados, Manica, Orne, Eure e Senna, che, solo nel secondo dopoguerra, vennero raggruppati in regioni amministrative dello Stato francese (i primi tre nell’ambito della Bassa Normandia, gli altri due in quello dell’Alta Normandia). Dal punto di vista geografico, la regione non presenta una vera e propria unità, poiché divisa tra le due grandi regioni naturali del nord della Francia costituite dal bacino parigino e dal massiccio armoricano. Tuttavia, la differenza paesistica è poco accentuata, dato che entrambe le regioni si caratterizzano per i medesimi aspetti naturali, sia climatici che faunistici o agricoli. Sono le coste, invece, a marcare evidenti differenze da zona a zona, infatti, nella regione di Caux (la cosiddetta Costa d’Alabastro) esistono alte scogliere, mentre nel Calvados ci sono vaste spiagge di sabbia fine, nella penisola del Cotentin promontori elevati e nei paraggi di Saint-Vaast e del Mont-Saint-Michel si rinvengono litorali bassi e sabbiosi. Sulla costa atlantica normanna sfociano numerosi corsi d’acqua. Non soltanto la Senna e i gli affluenti del suo bacino (Epte, Andelle, Eure, Risle), ma anche alcuni fiumi costieri (Bresle, Touques, Dives, Orne, Vire, Sée, Sélune, Couesnon). Infine, nella penisola del Cotentin sono presenti anche delle aree paludose. La costa orientale del Cotentin e le spiagge del Calvados erano zone impervie per uno sbarco di massa, però dovettero essere egualmente scelte per la presa di terra delle truppe. La Normandia non rappresentava certamente il punto migliore, dove effettuare operazioni del genere, ma offriva comunque alcuni vantaggi non indifferenti. Intanto, proprio in quel punto originava la linea di faglia risultante dalla saldatura delle divisioni tedesche poste a difesa della Francia settentrionale, inoltre, la costa era protetta dai fortunali atlantici dalla penisola del Cotentin, aspetto che avrebbe consentito alla flotta di sbarco una traversata relativamente tranquilla nel canale della Manica; infatti, oltreché dalle tempeste, il Cotentin era fonte di riparo anche nei confronti delle impetuose correnti oceaniche. Un fattore, quest’ultimo, di primaria importanza soprattutto in ragione della particolare tipologia di unità navali che si sarebbero dovute utilizzare: gli LST e gli LCT. I primi erano mezzi da trasporto e da sbarco che si potevano impiegare anche sulle spiagge dai fondali molto bassi, navi dal fondo piatto in grado di attraversare il mare su lunghe distanze ma difficili da governare ed estremamente lente; i secondi, invece, di dimensioni ridotte rispetto ai primi, vennero realizzati per le incursioni anfibie e, qualora necessario, per il sostegno di fuoco mediante lanciarazzi multipli installati a bordo, nell’ultimo tratto di navigazione verso la spiaggia. (¹)
L’esatta determinazione dei tempi necessari alle varie fasi dell’operazione di sbarco risultò di fondamentale importanza all’atto della pianificazione e, ovviamente, incise sulla determinazione della data di inizio: il famoso D-Day. Vennero presi in considerazione diversi e complessi aspetti quali, ad esempio, il grado di visibilità (notturna e alle prime ore dell’alba), un fattore che andava commisurato alle previste attività di bombardamento “preparatorio” sia aereo che navale, agli aviolanci di paracadutisti (per i quali era indispensabile la luce lunare), nonché per la stessa navigazione nei pressi della costa normanna e la presa di terra della fanteria e dei corazzati in appoggio. Nell’approntare le difese del Vallo Atlantico, i tedeschi avevano disseminato di ostacoli le spiagge e le acque marine a ridosso della costa, impedimenti che gli Alleati avrebbero potuto superare solo se fossero sbarcati tre o quattro ore prima dell’alta marea, ma con una luce lunare sufficientemente intensa. Condizioni difficili che potevano essere soddisfatte esclusivamente nel corso dei rari periodi di luce possibili tra l’alba e l’arrivo della marea, che però si verificavano soltanto in un arco temporale di tre giorni per ciascun mese lunare. Inoltre permanevano i grossi problemi del flusso logistico dalle isole britanniche al continente (da avviare a partire dall’immediatezza dello sbarco) e della costituzione di una testa di ponte. La città di Caen, principale centro urbano della regione che era anche capoluogo del Calvados e punto nevralgico dell’intera operazione, pur essendo collegata a un piccolo porto, non era certo sufficiente alle necessità di una forza delle dimensioni di quella prevista. Per quanto protetta, la costa della Bassa Normandia non era in condizioni di permettere il pieno funzionamento della logistica di aderenza qualora si fosse fatto esclusivo affidamento sul rifornimento diretto dal mare alle spiagge. Ci si aspettava che gli sbarchi di materiali, veicoli e aliquote di personale in rinforzo, avrebbero subito il condizionamento negativo dal mutare del tempo e delle fluttuazioni della marea, col il conseguente rischio di un’interruzione dei rifornimenti alle unità impegnate sul terreno. In questo senso gli Alleati avevano adeguatamente metabolizzato gli insegnamenti tratti dal precedente disastro di Dieppe del 1942, ovvero che era praticamente impossibile conquistare un porto ben difeso dal nemico nel corso delle fasi iniziali di un’operazione di sbarco. Questo assunto li aveva quindi orientati verso la progettazione di porti artificiali che potessero venire assemblati direttamente in zona di operazioni, mastodontiche infrastrutture che in seguito avrebbero assunto la denominazione di Porti Mulberry. Per recapitare in tempo i circa complessivi quaranta chili di materiali necessari a un combattente della fanteria impegnato sul campo di battaglia francese, la Normandia avrebbe dovuto, improvvisamente, assorbire un flusso logistico di dimensioni spropositate. Per avere un’idea di questo sforzo basterà riflettere sui dati relativi all’assorbimento iniziale in termini di tonnellaggio previsto degli approdi sulla costa normanna: nella fase di pianificazione si previde lo sbarco iniziale di tre divisioni, aumentate successivamente a dieci (il D+3), per giungere infine, a regime, allo sbarco di una divisione al giorno; un piano che implicava una capacità di scarico di 10.000 tonnellate al giorno (sempre il D+3, quindi settantadue ore dopo il primo giorno di sbarco), di 15.000 al giorno il D+15 e di 18.000 il D+18. Le modifiche apportate in seguito al piano, che prevedevano per il 6 giugno la presa di terra due ulteriori divisioni, portarono a un sensibile incremento dei bisogni e allora i porti Mulberry si configurarono come l’unica soluzione concretamente praticabile (seppure estremamente ardita) in quella fase. Lo SHAEF fu quindi costretto a rinviare a un momento successivo l’utilizzazione dei porti della Bretagna e di quello di Cherbourg. (²)
Note
(¹) LST (Landing Ship, Tank); LCT (Landing Craft, Tank), LHC (Landing Craft, Headquarters).
(²) Durante la prima settimana di operazioni in territorio francese la media giornaliera di approdi di navi alleate fu la seguente: 25 Liberty, 38 navi da cabotaggio, 9 unità per il trasporto di truppe, 40 LST, 75 LCT, 20 LCI.
L’apertura di un secondo fronte in Europa
Le difficoltà degli Alleati
Gli Alleati maturarono interessanti esperienze nel settore delle operazioni anfibie nel corso della guerra in Africa settentrionale. All’alba dell’8 novembre 1942, forze angloamericane effettuarono una serie di sbarchi lungo le coste del Marocco francese e dell’Algeria allo scopo di aprire un nuovo fronte alle spalle dello schieramento dell’Asse che, in quel momento, si trovava in gravi difficoltà. Infatti, le divisioni del Regio Esercito italiano e dell’Afrika Korps tedesca furono costrette alla ritirata sotto il pressante incalzare dell’VIII Armata britannica di Montgomery. Gli sbarchi permisero di realizzare quella seconda branca della tenaglia che avrebbe presto chiuso in una morsa gli italo-tedeschi. Si trattò di un successo totale sul piano militare, che pose le basi del successivo assalto alla “fortezza Europa” portato da sud. Il tutto accadde in una fase cruciale all’interno della quale si verificarono mutamenti radicali ma non decisivi ai fini dell’esito del conflitto: fino ad allora, nonostante le vittoriose battaglie di el-Alamein, Stalingrado e delle Midway, gli Alleati non erano però riusciti ancora a ottenere il controllo dell’oceano Atlantico. Soltanto nel 1942 gli angloamericani persero ben 1.664 unità mercantili, pari a una stazza lorda complessiva di 7.790.697 tonnellate, questo mentre il ritmo delle nuove costruzioni nei cantieri navali, seppure fosse stato spinto al massimo delle possibilità, non fu in grado di colmare i vuoti aperti da perdite talmente ingenti e risultò dunque inferiore di almeno 700.000 tonnellate rispetto alle necessità delle marine militari. I tedeschi ottennero questi vistosi successi impiegando una componente sottomarina che, all’inizio di quello stesso anno, annoverava in servizio 91 unità operative, ma che dopo dodici mesi, malgrado le perdite subite, aveva in linea ben 212 U-Boote. Mentre era in atto l’avanzata britannica su Tripoli, dal 14 al 24 gennaio del 1943 si tenne la Conferenza interalleata di Anfa (Casablanca), che si caratterizzò per l’assenza del maresciallo Josif Stalin. La critica situazione in atto sul fronte russo lo aveva indotto a non allontanarsi dal suo paese, anche se la risposta della guida dell’Unione sovietica al telegramma d’invito al vertice inviatogli dal presidente statunitense Roosevelt era stata piccata e dura. Stalin rimproverava agli americani di non aver ancora aperto quel secondo fronte in Europa, realizzando così come in precedenza lo stesso Roosevelt aveva assicurato al ministro degli esteri di Mosca Molotov. Stalin insistette affinché a Casablanca finalmente si pervenisse alla decisione di aprire un secondo fronte sulle coste francesi della Manica prima dell’estate 1943. (¹)
Fu proprio sul tema dell’eventualità e dell’opportunità dell’apertura di un secondo fronte in Europa settentrionale si consumò lo scontro concettuale fra Washington e Londra, che vide protagonisti (e portatori di differenti interessi) i generali George Marshall e Alan Brooke. Il primo, che rivestiva la carica di capo di stato maggiore statunitense ed era noto per essere un convinto discepolo di von Clausewitz, asseriva con convinzione la cosiddetta teoria della concentrazione delle forze, che prevedeva il concentramento di tutte le unità disponibili per sferrare un attacco nel punto ritenuto più favorevole (e quindi anche decisivo ai fini dell’esito finale della battaglia) e attraverso la via più breve. Gli americani avrebbero voluto aprire al più presto un altro fronte nel nord della Francia, sulle coste del canale della Manica, ma i britannici manifestarono contrarietà, mostrandosi più propensi ad adottare una strategia periferica o diversiva che portasse al logoramento delle forze nemiche nei teatri bellici dove risultavano più deboli. In questo modo si sarebbe rinviato lo scontro decisivo solo alla fase in cui fosse stata raggiunta una situazione di preponderanza sul campo e nelle retrovie. Una posizione che rispecchiava con evidenza il secolare retaggio derivante dall’approccio strategico che la Gran Bretagna aveva collaudato nel corso dei molteplici conflitti (almeno fino ai primi anni della Seconda guerra mondiale) cui era stata impegnata nelle vesti di maggiore potenza marittima mondiale. In questa strategia periferica venivano concepiti attacchi al nemico principalmente in teatri operativi lontani, laddove mediante la proiezione dello strumento militare inglese la potenza espressa dall’avversario avrebbe subito una forzata riduzione. L’incontrastato dominio dei mari da parte della Royal Navy aveva sempre consentito di applicare con successo questi principî, unitamente a quelli del blocco navale. Si trattava di una strategia flessibile che aveva sempre permesso ai britannici un razionale impiego delle forze di volta in volta disponibili, evitando lo scontro frontale con avversari notevolmente più forti di loro. Con l’entrata in guerra dell’Italia fascista al fianco della Reich hitleriano Londra si vide direttamente minacciata in Egitto, in particolare nella zona del canale di Suez, di risulta, per lei il deserto libico divenne giocoforza il principale teatro di operazioni terrestre. E sarebbe stato così anche nei successivi tre anni, un impegno destinato a divenire ancora più gravoso a seguito dell’arrivo in Africa delle truppe di Rommel. (²)
Gli americani erano invece portatori di una visione strategica opposta, il generale Marshall considerava ogni diversione dall’obiettivo principale come una fonte di sottrazione di energie, dirottate con effetti deleteri verso obiettivi secondari a discapito dell’economia generale dell’azione. In ogni caso a Casablanca prevalsero le tesi dei britannici, che dimostrarono la concreta impossibilità di un impiego in tempi relativamente brevi di forze di proporzioni tali come quelle che si sarebbero dovute mettere in campo per un’invasione della Francia da nord. Gli inglesi erano stati ineccepibili, subordinando la possibilità di uno sbarco in Europa settentrionale esclusivamente alla definitiva sconfitta dell’Asse in Africa settentrionale, in ogni ritenuta ormai imminente. Per gli Alleati permaneva sempre il serio problema della mancanza di navi, giacché la penuria di unità mercantili registrata in quel preciso momento non avrebbe certo consentito uno spostamento di masse di uomini e di materiali in direzione dell’Atlantico. Tutto dovette quindi essere rinviato. Inoltre, i britannici avevano adeguatamente metabolizzato la loro disastrosa esperienza di Dieppe dell’agosto 1942, fatto che li aveva resi refrattari a imbarcarsi in avventure del genere. Insomma, Londra considerava uno sbarco oltre la Manica ancora prematuro, anche se era perfettamente consapevole che, pur non potendo essere spostate a nord, le truppe alleate presenti in Africa settentrionale non andavano comunque lasciate inoperanti.
Note
(¹) Lo scopo principale della conferenza interalleata di Casablanca del gennaio 1943 fu quello di adottare un’unica strategia globale, dato che fino a quel momento Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione sovietica avevano condotto una loro propria guerra facendosi assorbire dalle specifiche impellenze emerse sui vari fronti nei quali i rispettivi eserciti si erano trovati impegnati.
(²) In quella fase del Secondo conflitto mondiale il teatro operativo dell’Africa settentrionale assorbì il grosso delle forze terrestri britanniche, essendo Londra, in quella stessa fase, contemporaneamente impegnata su altri tre fronti: quello marittimo dell’Atlantico, quello aereo della campagna di bombardamento strategico sulla Germania e quello del Sudest asiatico contro il Giappone.
Le pressioni di Stalin e il disastro di Dieppe
Il raid anfibio a Dieppe del 19 agosto 1942, denominato in codice operazione Jubilee, fu un fallimento totale. Non a torto viene considerato come uno dei più gravi disastri militari della Seconda guerra mondiale, un evento che in termini percentuali cagionò ai britannici un numero di perdite paragonabili solo a quelle subite nel corso dei primi giorni della battaglia della Somme durante la Prima guerra mondiale. L’operazione sulle coste settentrionali francesi era stata concepita allo scopo di alleggerire la pressione esercitata in quel momento sul fronte orientale dalle armate tedesche sull’Armata rossa. Fu il risultato dell’insistenza di Stalin, che al vertice del luglio 1942 con Churchill aveva reiterato le sue richieste di un intervento militare alleato in Europa occidentale. Infatti, già nel luglio del 1942, nel corso della visita a Mosca del primo ministro di Londra – che in quel periodo si trovava in gravi difficoltà politiche nel suo paese a causa dei rovesci militari subiti dai britannici nel Pacifico e in Africa – Stalin richiese a gran forza per il mese di settembre di quell’anno, e non oltre, l’apertura di un secondo fronte a opera degli Alleati che potesse alleggerire la pressione tedesca sul fronte russo. Secondo il capo dell’Unione sovietica, in quella fase del conflitto soltanto l’Armata rossa si stava facendo carico del contrasto delle forze dell’Asse, questo mentre britannici e americani si stavano impegnando esclusivamente in campagne periferiche di importanza secondaria. Durante quel vertice bilaterale Churchill si vide però costretto a comunicare ufficialmente a Stalin che questo non sarebbe stato possibile, almeno per il 1942. Gli Alleati non erano nelle condizioni di aprire un altro fronte e il fondato pericolo di perdere un alleato importante come l’Unione sovietica li terrorizzava: se Stalin avesse negoziato un armistizio separato con Hitler ripetendo quello che aveva fatto Lenin nel 1917 a Brest-Litovsk? In fin dei conti anche Italia e Giappone avrebbero tratto beneficio da un rivolgimento delle alleanze di tale portata, poiché la cessazione delle operazioni militari in Russia avrebbe permesso al Patto Tripartito di concentrare tutte le forze contro Gran Bretagna e Stati Uniti. (¹)
Le continue richieste fatte a Churchill da Stalin risalivano all’estate del 1941, nell’immediatezza dello scatenamento da parte di Hitler dell’operazione Barbarossa, l’offensiva tedesca in Unione Sovietica. Il 18 luglio di quell’anno, a meno di un mese dall’attacco, Stalin così si esprimeva al premier britannico in una missiva fattagli pervenire per mezzo dell’ambasciatore sovietico a Londra Maisky, la prima di una schermaglia verbale che avrebbe opposto Mosca agli Alleati nei successivi tre anni:
«Un fronte nella Francia settentrionale non solo potrebbe richiamare le forze tedesche dall’Est, ma renderebbe anche impossibile l’invasione dell’Inghilterra. Mi rendo conto delle difficoltà di creare un fronte di questo tipo, mi sembra tuttavia che, nonostante le difficoltà, lo si dovrebbe fare non soltanto per la nostra causa comune, ma anche nell’interesse stesso dell’Inghilterra. Il momento più propizio è proprio ora che le forze di Hitler sono dislocate a Est e Hitler non è ancora riuscito a consolidare le posizioni occupate a Oriente».
Nella risposta di Churchill inviata tre giorni dopo emerse il primo temporeggiamento inglese, unito alla aperta ammissione dell’impossibilità di condurre azioni del genere.
«Sin dal primo giorno dell’attacco tedesco alla Russia noi abbiamo esaminato la possibilità di lanciare un’offensiva nella Francia occupata e nei Paesi Bassi. I capi di stato maggiore non vedono però la possibilità di fare qualcosa in misura tale che possa portarvi il più piccolo giovamento. Nella Francia i tedeschi hanno dislocato quaranta divisioni: tutta la costa è fortificata da più di un anno con la tipica meticolosità tedesca ed è letteralmente coperta di armi, di filo spinato, di piazzeforti, di mine».
Stalin aveva premuto fin da subito per l’apertura di un secondo fronte in Europa occidentale, lo avrebbe voluto entro la fine del 1941, e per ottenerlo non aveva esitato a paventare (e probabilmente anche a minacciare) una sconfitta o, nella migliore delle ipotesi, un indebolimento dell’Unione Sovietica tale da impedire la prosecuzione dell’appoggio agli angloamericani nella guerra contro Hitler: nelle cancellerie alleate aleggiò dunque lo spettro di Brest-Litovsk. Il leader sovietico era persuaso che Londra e Washington agissero in malafede, ma la realtà era ben diversa: le ragioni del rinvio dell’Invasione sulle coste settentrionali dell’Europa occidentale risiedevano esclusivamente nella condizione di impreparazione degli Alleati. Come se non bastasse, si era poi venuto a instaurare un clima di sfiducia persino fra statunitensi e britannici, con i primi che presero a diffidare delle obiezioni sollevate di volta in volta da Churchill, ritenendo che con i suoi approcci alla strategia complessiva del conflitto egli mirasse quasi esclusivamente agli interessi del Regno Unito nel teatro del Mediterraneo, area invece di secondaria importanza per gli Stati Uniti, soprattutto dopo che, il 7 dicembre del 1941, i giapponesi li avevano attaccati a Perl Harbour. Su proposta del presidente americano Roosevelt, nel maggio del 1942 Stalin inviò il suo ministro degli Esteri in missione diplomatica a Londra e Washington al fine di consultarsi in merito all’assunzione di una definitiva decisione sulle direttive strategiche del comune sforzo bellico. Roosevelt intervenne con l’intento di alleviare la critica situazione in atto sul fronte russo, laddove Mosca, attraverso le sue insistenti richieste, mirava alla distrazione di almeno quaranta divisioni tedesche. Nel loro primo incontro, che ebbe luogo il 20 maggio, Churchill ribadì però a Molotov che una operazione del genere entro l’anno sarebbe stata molto improbabile, visto che le forze britanniche in quel momento si trovavano a fronteggiare quarantaquattro divisioni nemiche. Nel successivo incontro con Roosevelt, avvenuto il 24 maggio, Molotov ricevette assicurazioni sul fatto che i preparativi per l’apertura di una secondo fronte in Europa erano in corso, il ministro degli Esteri sovietico venne quindi autorizzato dal presidente statunitense a informare il maresciallo Stalin che siffatta operazione avrebbe avuto luogo entro la fine dell’anno. Una promessa rinnovata da Roosevelt anche nella conversazione avuta con Molotov prima della partenza di quest’ultimo dall’America il primo giugno. Al riguardo scrisse in seguito Winston Churchill:
«Al suo rientro a Londra dopo la visita in America, Molotov aveva naturalmente la testa tutta piena di piani per la creazione di un secondo fronte mediante uno sbarco oltre Manica nel 1942. Quanto a noi, stavamo ancora attentamente studiando il problema assieme allo stato maggiore americano; da tali studi erano però emerse solo difficoltà. Comunque, una dichiarazione ufficiale in proposito non avrebbe potuto minimamente danneggiarci, avrebbe anzi potuto preoccupare i tedeschi, inducendoli a trattenere in Occidente il maggior numero possibile di truppe. Approvammo perciò con Molotov la diramazione di un comunicato reso pubblico l’undici giugno, in cui si leggeva: “Nel corso delle conversazioni si è raggiunta una perfetta identità di vedute circa l’urgente necessità di creare un secondo fronte in Europa nel 1942”. Un comunicato che avrebbe dato adito a numerose polemiche spesso strumentali fra Mosca e Londra, anche perché privato del pro-memoria segreto nel quale veniva precisata l’impossibilità di una definizione anticipata dell’operazione oltreché, ancora più importante, della sua concreta fattibilità».
Infatti, il piano Sledgehammer, che prevedeva lo sbarco di otto-dieci divisioni nella zona della penisola di Cherbourg, nel settembre di quello stesso anno venne accantonato. I britannici convinsero gli americani del fatto che i mezzi da sbarco allora disponibili fossero assolutamente insufficienti a uno sbarco di quella portata, riuscendo essi a malapena a trasportare non più di una divisione. All’accantonamento di Sledgehammer seguì comunque uno sforzo progettuale e un conseguente incremento della produzione industriale nello specifico settore dei mezzi e dei materiali per le forze anfibie. Per il momento sarebbe stata Dieppe l’operazione di sbarco successiva.
Un raid di notevoli dimensioni in quella zona avrebbe distolto le attenzioni dei tedeschi dalla Russia evitando in questo modo la definitiva sconfitta militare dei sovietici, evenienza che non pochi analisti inglesi e americani ritenevano probabile. E in effetti, dopo l’azione sulle coste francesi da Berlino giunse l’ordine di spostare sul fronte occidentale parte delle forze in quel momento impegnate contro l’Armata rossa. Tuttavia, lo sbarco anfibio di Dieppe nacque affetto da un grosso handicap: la contrarietà della quasi totalità del comitato dei capi di stato maggiore britannico, che si espresse così come aveva fatto in precedenza quando aveva dovuto decidere in merito al già citato progetto relativo all’operazione Sledgehammer, elaborato dagli americani, che prevedeva uno sbarco sulla penisola di Cherbourg. La ritrosia manifestata in quell’occasione dagli inglesi frustrò lo slancio che aveva fino allora animato il generale Marshall, intenzionato a occupare la zona con sei-otto divisioni non più tardi dell’estate 1942. Si sarebbe trattato di un attacco rischioso, che però avrebbe portato sollievo ai sovietici, che in quello stesso momento si trovavano in serie difficoltà subendo tutti gli effetti della pesante offensiva sferrata dai tedeschi. Sia Churchill che il suo capo di stato maggiore, sir Alan Brooke, non avevano certo intenzione di attaccare la Wehrmacht dove questa era più forte. A un immediato attacco frontale, a Londra venne preferito il perseguimento dell’alternativa, più sicura, consistente nella classica guerra di attrito, che alla fine avrebbe consentito di prevalere sull’esercito di Hitler. In questo senso le sensibili differenze tra le esperienze maturate nel corso dei conflitti precedenti da britannici e statunitensi ebbero il loro peso, condizionando di risulta profondamente le visioni strategiche dei due alleati. I britannici, da secoli forgiati alla dimensione di potenza marittima quale era l’Inghilterra, che attraverso la sua flotta aveva proiettato le forze e controllato i propri vasti domini coloniali nel mondo, avevano fatto tesoro degli insegnamenti loro malgrado appresi durante la carneficina della Prima guerra mondiale, dove nelle trincee fangose avevano lasciato 750.000 dei loro; al contrario, gli americani nella Grande guerra c’erano entrati quasi alla fine, combattendo “soltanto” per un anno e mezzo e perdendo meno di 60.000 uomini, quindi meno di un decimo dei caduti britannici. Inoltre, la recente Battaglia d’Inghilterra (1940), aveva esposto il territorio metropolitano britannico alla furia devastatrice della Luftwaffe di Göring, con milioni di civili colpiti per mesi dai bombardamenti sulle città. Dal canto suo, il primo ministro britannico si trovava in particolari difficoltà sia sul piano interno che su quello internazionale. Nel primo caso a causa delle forti pressioni esercitate dalla Camera dei Comuni e dalla stampa nazionale per via degli insuccessi registrai negli ultimi mesi di guerra, mentre all’estero gli americani, ma soprattutto Stalin, lo sollecitavano continuamente affinché ponesse in essere un’azione risoluta in Francia e, nel luglio del 1942, si era dovuto recare in visita a Mosca.
Fu in questo turbolento quadro che furono concepite le operazioni Rutter e Jubilee, con la seconda delle due che in pratica costituiva una rielaborazione della prima, un progetto questo che era stato accantonato a causa delle non favorevoli condizioni meteorologiche, entrambe pensate con l’intento di tacitare Stalin (e anche gli americani) in seguito al definitivo accantonamento di Sledgehammer.
I piani prevedevano uno sbarco su larga scala sulla costa presso la città portuale di Dieppe, una zona ottimamente difesa dai tedeschi. Fu lord Louis Mountbatten, responsabile britannico delle Operazioni Combinate, a presentarli allo stato maggiore. Mountbatten, cugino del sovrano e amico personale del presidente americano Roosevelt, era divenuto membro del Comitato dei capi di stato maggiore (organo responsabile della condotta della guerra) grazie al sostegno di Churchill, che era ardentemente desideroso di trasformare il territorio insulare in una base per l’attacco al continente militarmente occupato dalle truppe di Hitler.
Il Combined Operations Command (Comando Operazioni Combinate, COC) era stato istituito dallo stesso primo ministro britannico nel 1940, all’indomani della disfatta di Dunquerque, che ne affidò il comando inizialmente all’Ammiraglio della Flotta sir Roger Keyes, ufficiale che venne poi sostituito nel mese di ottobre dello stesso anno da Mountbatten, fino a quel momento al comando della portaerei HMS Illustrious. Nelle intenzioni di Churchill il COC avrebbe dovuto proseguire l’opera di organizzazione di raid anfibi allo scopo di mantenere vivo lo spirito offensivo e acquisire le necessarie esperienze nello specifico settore degli sbarchi sulle coste occupate dal nemico. Insomma, subito dopo la débâcle di Dunquerque, a Londra già si pensava ai preparativi per una futura invasione dell’Europa continentale, elaborandone, al momento, se non i piani operativi almeno la filosofia di base. (²)
Nel COC vennero fatti confluire ufficiali pianificatori dalle tre forze armate e, sempre nell’ambito della medesima struttura, si avviarono gli studi per la realizzazione di nuovi mezzi da sbarco. Questo quartier generale venne dedicato esclusivamente all’offesa, una vera particolarità in quella critica fase per il Regno Unito che vedeva invece gli altri organismi similari (della Royal navy, della Royal Air Force e del Royal Arms) impegnati nella difesa del territorio britannico, insulare e coloniale. La filosofia d’impiego della forza che venne elaborata in seno al COC trasse ispirazione dai concetti dell’azione comune finalizzata a operazioni combinate. È a Mountbatten, dunque, che va ascritto il merito di aver ideato e approntato le strutture di base della mastodontica operazione che avrebbe avuto esecuzione nel giugno del 1944, nonché dell’indicazione delle coste della Normandia come zona ideale per gli sbarchi. L’uomo ricevette anche molte critiche e, in un primo tempo, anche ostacolato nel corso della realizzazione dei suoi piani, a onore del vero non sempre riusciti con successo, ma a lui vanno comunque riconosciute alcune importanti intuizioni che in seguito avrebbero riflesso effetti positivi sullo svolgimento delle operazioni. Due esempi per tutti: quella relativa alla pre-fabbricazione di elementi (cassoni in cemento armato rimorchiabili in mare) che si sarebbero rivelati di fondamentale importanza al momento del loro utilizzo per la istantanea realizzazione di porti sulle coste francesi, laddove non ne esistevano e la forza di sbarco però ne aveva disperato bisogno; inoltre l’intuizione dell’importanza del comando multinazionale e interforze formato da ufficiali di stato maggiore britannici e statunitensi, sostanziale prototipo degli Inter Allied Inter-Service Head Quarter, che in seguito sarebbero stati estesi ai vari fronti di guerra. (³)
Veniamo adesso all’operazione Jubilee. Come accennato in precedenza, i piani per le due operazioni (Rutter e Jubilee) una volta giunti nella loro fase esecutiva avrebbero comportato l’assorbimento di notevoli risorse, aspetto che accentuò la contrarietà degli altri tre capi di stato maggiore componenti il Comitato, seppure alla fine essi non cassarono i progetti limitandosi a ostacolarli in vario modo. Ad esempio, unità di élite come i Royal Marines e i Commandos vennero sostituite con reparti della II Divisione di fanteria canadese, che inquadravano soldati non perfettamente addestrati per lo svolgimento di un’operazione di sbarco anfibio; inoltre, a Dieppe venne a mancare l’indispensabile supporto aereo alle truppe da sbarco, che presero terra senza che le posizioni nemiche fossero state preventivamente investite da un massiccio bombardamento. L’invio di formazioni di bombardieri della RAF, inizialmente previsto, venne improvvisamente negato con la motivazione della sopravvenuta indisponibilità di velivoli, una decisione che si rivelò drammaticamente deleteria sugli effetti dell’attacco frontale portato ai tedeschi dal mare; infine neppure l’Ammiragliato (e tantomeno il Primo lord del Mare, sir Dudley Pound, tenace avversario di Mountbatten) si mostrò favorevole all’operazione Jubilee, negando il necessario supporto di un paio di navi da battaglia della Royal Navy. Insomma, fatta eccezione per il comandante delle Operazioni Combinate, quasi nessuno a Londra credette in quell’impresa, contribuendo così al suo fallimento. Quello di Dieppe fu un raid molto rischioso e dagli obiettivi non pienamente apprezzabili, però, malgrado ciò, alla fine i vertici dello stato maggiore britannico non espressero riserve, con ogni probabilità allo scopo di proteggere le proprie posizioni personali nei confronti del primo ministro Winston Churchill, personaggio noto anche per la velocità con la quale si disfaceva delle persone che non si allineavano alle sue decisioni.
Sulla base dei piani elaborati, l’operazione Jubilee sarebbe dovuta durare in tutto dodici ore. Mediante degli attacchi preventivi condotti da unità di commando prima dell’alba era previsto che venissero neutralizzate le batterie della difesa costiera tedesca di Vesterval, presso Varengeville-sur-Mer, e di Barneval, situate rispettivamente a ovest e a est di Dieppe. A seguito degli sbarchi effettuati a Pourville e Puys, località situate immediatamente a occidente e a oriente di Dieppe, che avrebbero dovuto consentire la messa fuori uso delle difese dominanti la spiaggia della città portuale, sarebbe scattato l’attacco principale, con un fronte dello sbarco esteso per complessivi sedici chilometri. Obiettivo ufficiale dell’operazione fu la distruzione delle difese costiere nemiche, delle strutture portuali di Dieppe e di tutti i siti di rilevanza strategica presenti nell’area (depositi di petrolio, stazioni radio e radar, quartier generale tedesco e aeroporto), dopodiché, la forza si sarebbe reimbarcata sulle navi per fare ritorno in Gran Bretagna. La flotta che venne approntata per il trasporto dei circa 6.100 militari del contingente d’attacco, comprensiva di 50 carri armati Churchill, era costituita da 250 imbarcazioni di vario tipo, mentre la copertura aerea sarebbe stata fornita da 74 squadron, 68 della Royal Air Force e 6 della Royal Canadian Air Force, per un totale di circa mille velivoli.
I britannici, sulla base delle informazioni ricavate dalla loro intelligence, ritenevano che l’area di Dieppe fosse presidiata da truppe nemiche di second’ordine: un battaglione di fanteria statica che riceveva il supporto di qualche altra unità minore per complessivi 1.400 uomini circa. In realtà, il comando tedesco, considerando a rischio quello specifico settore costiero, in precedenza aveva deciso di rinforzare le misure difensive presenti e, di risulta, speciali precauzioni erano state predisposte proprio per il particolare periodo intercorrente fra il 10 e il 19 agosto, allorché era previsto che la luna e la marea divenissero favorevoli a operazioni di sbarco nemiche. Nel settore erano stati dunque dislocati la 302ª Divisione di fanteria della Wehrmacht, che inquadrava 2.500 soldati ben addestrati e ottimamente equipaggiati, il 571° Reggimento granatieri oltre ad alcune unità di artiglieria campale e di artiglieria contraerea. Le fortificazioni difensive, dotate di armi automatiche, mortai, pezzi di artiglieria medi e pesanti e di batterie costiere, erano state disposte in modo da consentire al personale di controllare tutta la costa eventualmente oggetto di uno sbarco. Inoltre, le unità della Luftwaffe dislocate nelle basi in quella zona della Francia, pur disponendo di un limitato numero di velivoli da combattimento, avevano però il vantaggio di trovarsi molto vicine al potenziale teatro di operazioni.
La sera del 18 agosto 1942 la flotta da sbarco britannica salpò dai porti dell’Inghilterra meridionale e le varie unità navali si avvicinarono alla Francia a gruppi indipendenti. Le condizioni del mare consentirono una traversata del canale della manica priva di problemi, ma alle tre e quarantacinque del mattino del 19, mentre navigava ad alcune miglia dalla costa francese, la flottiglia che trasportava la 3ª unità commandos, destinata a sbarcare all’estrema sinistra dello schieramento britannico, si imbatté all’improvviso in un piccolo convoglio tedesco in navigazione da Boulogne a Dieppe. Ne seguì un violento scontro navale che sconvolse i piani d’attacco in quel settore, mettendo ovviamente all’erta le difese costiere tedesche di cerneva e Puys. Alle cinque meno dieci, all’estremità opposta della zona di operazioni, la 4ª unità di commandos, alla quale erano stati aggregati cinquanta rangers dell’US Army, sbarcò con successo in due punti con l’obiettivo della neutralizzazione della batteria costiera di Vesterval. (⁴)
Sei minuti dopo le cinque, in ritardo rispetto ai tempi previsti nel piano e quando ormai si era fatto giorno, il Royal Regiment of Canada sbarcò a Puys. Il successo dell’azione dipendeva dal favore dell’oscurità e dal fattore sorpresa, entrambi venuti a mancare in quanto che i tedeschi, allertati dalle esplosioni dei colpi dello scontro navale verificatosi a largo di Barneval, si trovarono nelle condizioni di prontezza per poter respingere l’attacco. La spiaggia era molto stretta e dominata per altro da alte colline sulle quali si trovavano diverse postazioni di mitragliatrici. In meno di un’ora dei 600 uomini sbarcati 211 erano stati uccisi, altri venti morirono in seguito per le ferite riportate in combattimento, mentre il rimanente veniva ferito o fatto prigioniero. A Dieppe i canadesi ebbero il numero più elevato di perdite registrate in un solo giorno da un loro reparto militare in tutta la Seconda guerra mondiale. L’impossibilità di impadronirsi delle colline che a oriente dominavano la costa di Dieppe, consentì successivamente ai tedeschi di prendere d’infilata la spiaggia respingendo l’attacco principale, quello portato in modo frontale. Nel settore occidentale, invece, i canadesi riuscirono a sfruttare l’effetto sorpresa e, sbarcati alle ore quattro e cinquanta a Pourville, conquistarono con facilità il piccolo centro abitato. Tuttavia la resistenza opposta dai soldati della Wehrmacht si fece più consistente quando gli attaccanti si avvicinarono alla città di Dieppe, comunque, malgrado gli sforzi dei tedeschi, gli uomini del 1° Reggimento canadese riuscirono a raggiungere e a mettere fuori uso la stazione radar situata presso il fiume Scie, smontando alcune importanti componenti dell’apparato Wurzburg-Freya, che portarono successivamente in gran Bretagna, dove i tecnici, dopo averle studiate, sarebbero riusciti a sviluppare nuove ed efficaci tecniche di disturbo elettronico (jamming). Diverso invece fu il destino dell’unità diretta verso l’aeroporto, situato a poco distante dalla cittadina portuale, nei pressi della località di Hautot-sur-Mer, che dopo tre chilometri di marcia nell’entroterra venne costretta a fermarsi e a ritirarsi da un intenso fuoco di sbarramento nemico.
L’attacco principale avrebbe dovuto essere sferrato sulla spiaggia sassosa di Dieppe mezzora dopo gli sbarchi sui fianchi del fronte, ma i tedeschi, appostatisi sulle colline e in alcune costruzioni sul lungomare, erano in allerta e aspettarono la prima ondata di soldati canadesi. A questo punto, a bordo dell’unità comando, il cacciatorpediniere “Calpe”, venne ricevuto un messaggio che fu interpretato come l’avvenuto sfondamento della linea difensiva costiera nemica, ma non avendo una chiara visione di quanto stesse accadendo sulla terraferma a causa del denso fumo , il generale Roberts decise di inviare in supporto delle truppe già sbarcate due battaglioni fino a quel momento tenuti in riserva, che però appena giunti sulla spiaggia vennero inchiodati al bagnasciuga dall’intenso fuoco incrociato dei tedeschi. I carri armati Churchill del 14° Reggimento corazzato Calgary, che avrebbero dovuto appoggiare l’attacco, arrivarono a terra quindici minuti dopo e con grandi difficoltà, quindi non furono in grado di fornire un valido supporto alle truppe d’assalto nei primi critici minuti della fase dell’attacco.
Contemporaneamente ai sanguinosi scontri in atto sulla spiaggia, si sviluppò anche una furiosa battaglia aerea : gli Alleati riuscirono a fornire una completa copertura dal cielo alla flotta da sbarco, però a caro prezzo, dato che la Luftwaffe abbatté 106 velivoli della RAF (anche in questo caso si trattò di un valore non più superato in una singola giornata per tutto il resto del conflitto) uccidendo 62 uomini, mentre la RCAF perse 13 velivoli e 5 uomini, contro i 48 velivoli perduti dai tedeschi, che in quell’occasione schierarono per la prima volta il loro nuovo caccia Focke-Wulf 190 e nello scontro venne affondato anche il cacciatorpediniere Berkeley. La battaglia si protrasse fino alle undici del mattino, quando Roberts impartì ai sopravvissuti l’ordine di reimbarco sui mezzi inviati a recuperarli. All’una del pomeriggio i combattimenti cessarono del tutto e su Dieppe tornò la calma.
Qual è il bilancio del disastro di Dieppe? Sicuramente, come accennato in precedenza, troppi fattori esterni andarono a interferire con il processo di pianificazione dell’operazione, ma tutti i responsabili militari di allora si trovarono perfettamente a conoscenza di quanto si stava preparando, ergo, su di essi ricadono gravi responsabilità. Da quel sanguinoso assalto anfibio andato male gli Alleati trassero comunque delle importanti lezioni che per loro si sarebbero rivelate di estrema utilità per il successivo sbarco in Normandia di due anni dopo, proviamo a esaminarle.
Intanto, alla base dell’insuccesso dell’operazione risiedettero macroscopiche carenze, quali il mancato appoggio dei bombardieri della RAF (negati da Sir Bomber Harris), l’insufficienza delle truppe sul terreno (ritenute quantitativamente almeno la metà del necessario) e il cattivo livello delle comunicazioni radio fra le truppe sbarcate e le unità in mare;
poi a Dieppe si evidenziò l’assunto che le difese del Vallo Atlantico erano particolarmente robuste ed efficienti nei settori costieri dove i tedeschi si attendevano eventuali sbarchi nemici, in particolare in corrispondenza dei porti;
infine, il fallimento del raid dimostrò quanto inadeguati fossero all’epoca i mezzi posseduti dagli alleati per un’azione anfibia in grande stile e quali catastrofiche conseguenze avrebbe potuto avere un prematuro tentativo di apertura di un secondo fronte nella Francia settentrionale. Nei fatti Dieppe costituì un severo monito soprattutto agli americani, spesso eccessivamente ottimisti riguardo alla positiva riuscita di operazioni del genere.
In seguito sono stati in molti ad affermare che senza il catastrofico di Dieppe in seguito non sarebbe stato possibile effettuare l’operazione Overlord e probabilmente è vero, perché quella drammatica esperienza spinse alla progettazione e alla costruzione di nuovi mezzi da sbarco, sottolineò la fondamentale importanza dell’appoggio aereo e delle artiglierie di grosso calibro (come quelle imbarcate sulle navi da guerra) e, nel caso di uno sbarco contrastato dal nemico, fece anche comprendere che il valore e il coraggio dei singoli combattenti non bastavano per ottenere il successo, in quanto dovevano necessariamente venire associati a migliori standard addestrativi e a una perfetta organizzazione delle operazioni combinate. Insomma, oltre a rappresentare un cattivo esempio nel campo della condotta militare, Dieppe fornì anche lo spunto per l’elaborazione di nuovi concetti strategici che sarebbero stati applicati il D-Day.
Però, è parimenti vero che l’operazione Jubilee del 1942 incise comunque sull’andamento del secondo conflitto mondiale, infatti incrementò in Hitler la sua dose di scetticismo riguardo alla tenuta della “fortezza Europa”, inducendolo nei due anni successivi a consumare notevoli risorse nella realizzazione del Vallo Atlantico, risorse che al contrario i tedeschi avrebbero potuto destinare alla conduzione della guerra laddove i fronti erano aperti. Al riguardo va ricordato che dopo Dieppe il Führer ritirò anche alcune divisioni dell’esercito dalla Russia, decisione che provocò un sensibile squilibrio sul piano delle forze in quel teatro operativo, unità che avrebbero sicuramente avuto il loro peso al momento della decisiva battaglia di Stalingrado. In fin dei conti Churchill, perfettamente in linea con le radicate convinzioni del suo capo di stato maggiore, voleva proprio questo: premendo affinché si realizzasse un attacco di limitate proporzioni sulla costa settentrionale francese ottenne il risultato di distogliere forze nemiche da altri fronti alleggerendone così la pressione. Era quello che fino ad allora aveva fatto in Africa settentrionale tenendo impegnate quante più truppe tedesche poté, seppure non in quantità sufficiente per soddisfare le esigenze dell’Armata rossa di Stalin. (⁵)
Note
(¹) Nella città di Brest-Litovsk (in polacco Brześć nad Bugiem), attualmente in Bielorussia (Brest), il 15 dicembre 1917 venne firmato un armistizio fra la Russia e le potenze degli Imperi centrali. A seguito della vittoriosa Rivoluzione proletaria del 7 novembre precedente e della conseguente elezione di Lenin alla presidenza del Consiglio dei Commissari del Popolo, maturarono le condizioni per un armistizio e la successiva pace, che però, per Mosca comportò concessioni territoriali ai tedeschi fino ad allora inimmaginabili. Il trattato di pace (Trattato di Brest-Litovsk) fra la Russia sovietica e Germania, Austria-Ungheria, Bulgaria e Impero ottomano, venne firmato il 3 marzo 1918. Esso segnò il ritiro russo dal Primo conflitto mondiale, unica via d’uscita per il neonato Stato bolscevico da una critica situazione interna che minacciava di crollare da un momento all’altro. Sulla base del trattato Lettonia, Estonia e Polonia passarono alla Germania, mentre l’Ucraina venne trasformata in un paese dipendente da Berlino, i sovietici dovettero inoltre pagare alla Germania notevoli danni di guerra.
(²) Sotto il comando di sir Roger Keyes, il Combined Operations Command organizzò una serie di incursioni di commandos sulle isole Lofoten, a Guernesey e nelle Spitzberg.
(³) Sotto il comando di lord Mountbatten i raid di commandos di maggiore importanza che vennero effettuati furono quelli di Saint-Nazaire, dove venne messo fuori uso per due anni il più grande bacino di carenaggio dell’Europa continentale, di Vagsoy in Norvegia, di Boulogne, di Cap Barfleuer e di Dieppe.
(⁴) Il tenente Edwin V. Loustalot, appartenente al 1° Battaglione Ranger dell’US Army, ucciso nella zona di Varengeville-sur-mer il 19 agosto 1942 nel corso del raid anfibio di Dieppe, fu il primo caduto di nazionalità statunitense in Francia durante la Seconda guerra mondiale.
(⁵) Il premier britannico non era nuovo a soluzioni del genere, poiché in passato, durante la Prima guerra mondiale, si era imbarcato in un’operazione disastrosa come quella di Dieppe. Tuttavia, nonostante l’esperienza negativa ripeté l’azzardo ventisette anni dopo. Nel 1915 Churchill sostenne la necessità di attaccare i turchi a Gallipoli perché, allora, il controllo dei Dardanelli rappresentava la chiave di volta per l’invio dei rifornimenti alla Russia zarista, affinché quest’ultima potesse attaccare la Germania da oriente alleggerendo così la pressione militare tedesca sul fronte occidentale. Il completo fallimento gli costò l’incarico di Primo Lord del Mare.
Un altro precedente: lo sbarco in Sicilia
Alla conferenza di Casablanca del gennaio 1943 gli Alleati giunsero alla decisione che le forze in quel momento schierate in Africa settentrionale avrebbero dovuto essere impiegate nel minor tempo possibile contro obiettivi situati nel Mediterraneo. I potenziali scenari operativi che si presentarono furono diversi e ciascuno di essi presentava sia vantaggi che svantaggi. Ad esempio, una ipotesi di lavoro concernette la Penisola balcanica, dove un’azione militare angloamericana, oltre a indurre probabilmente la neutrale Turchia a schierarsi contro l’Asse, avrebbe permesso una tranquilla navigazione attraverso lo stretto dei Dardanelli, rendendo così meno lungo e rischioso l’invio di aiuti in Unione Sovietica. (¹)
Le difficoltà di un attacco nella regione balcanica risiedevano principalmente nella natura del terreno, con gli aspri rilievi montagnosi che avrebbero ostacolato l’avanzata alleata, difficoltà che però sarebbero state compensate in seguito dai molteplici vantaggi offerti da quella particolare opzione. Infatti, una volta superate le catene montane, le ampie pianure (quella ungherese in primo luogo) avrebbero permesso una rapida avanzata in direzione dell’Europa centrale, interrompendo ne contempo il flusso del petrolio rumeno verso il Reich, mettendo inoltre gli angloamericani nelle condizioni di precedere l’avanzata delle truppe sovietiche in Europa centrale rosicchiandogli in questo modo porzioni di territorio sul quale Mosca avrebbe sicuramente esercitato la propria influenza dopo la liberazione dai nazisti. Per gli Alleati si rese necessario anemizzare le fonti di approvvigionamento dell’economia di guerra tedesca, che, va ricordato, nonostante i sanguinosi bombardamenti a tappeto angloamericani, avrebbe raggiunto il picco di massima produzione nel febbraio del 1944, dunque un intervento nei Balcani, facilitato dal previsto sostegno delle popolazioni locali, avrebbe privato Speer e il suo efficiente sistema industriale di una considerevole fonte di materie prime essenziali come il legname e i minerali, in particolare del rame. (²)
Non si sarebbe trattato di una passeggiata, perché l’attraversamento via mare dei convogli sarebbe stato contrastato duramente dalle forze aeree e navali dell’Asse basate in Sicilia e in Sardegna.
Per quanto concernette l’ipotesi residuale, quella relativa a un’azione nelle isole del Dodecanneso, a Casablanca gli Alleati convennero sul fatto che si sarebbe trattato di un obiettivo di modesta entità viste le forze disponibili. Sempre nel corso dei lavori del vertice interalleato vennero cassate anche altre ipotesi di intervento e la Sardegna fu una di queste. L’isola del Tirreno rappresentava un importante obiettivo potenziale degli angloamericani, sull’isola esistevano degli aeroporti dai quali sarebbe stato possibile far decollare i bombardieri per missioni di ampio spettro sull’intera penisola, ma non solo, dato che dall’isola per gli apparecchi della RAF e dell’USAAF (United States Army Air Force) divenivano alla portata anche gli obiettivi situati nel sud della Francia e, in alcuni casi, persino della stessa Germania. Inoltre, la sua distanza dalle coste italiane avrebbe reso molto più difficile per italiani e tedeschi l’invio di rinforzi e di rifornimenti al dispositivo militare di presidio trovatosi sotto attacco a seguito di uno sbarco. Infine, un intervento in Sardegna avrebbe preluso a una successiva azione in Corsica, ideale base di partenza per una futura invasione dal mare del territorio continentale francese mediante uno sbarco anfibio in Provenza (quello che poi concretamente accadrà, ma soltanto nell’agosto del 1944, con l’operazione Dragoon). Venne presa in considerazione anche la Spagna, un’ipotesi attentamente ponderata in ragione delle possibili, incerte, reazioni del generalissimo Franco una volta posto di fronte all’invasione del proprio territorio nazionale. Infatti, se Madrid, che fino ad allora era abilmente riuscita a evitare un coinvolgimento nel conflitto a fianco dell’Asse, si fosse schierata militarmente con Hitler e Mussolini, per gli Alleati la situazione sul campo si sarebbe complicata non poco. (³)
Restava quindi la Sicilia, un obiettivo difficile data la prossimità della penisola italiana, che però, una volta conseguito avrebbe consentito la riapertura della rotta marittima attraverso il Mediterraneo, rimasta praticamente preclusa a partire dal giugno 1940. Sul piano tecnico, un’operazione di sbarco in Sicilia offriva inoltre il vantaggio dello sfruttamento della copertura aerea fornita dall’ombrello protettivo dei caccia decollati dalle basi dell’Africa settentrionale e di Malta. Quindi, sull’invasione della Sicilia conversero le conclusioni delle analisi elaborate dagli Alleati, una decisione sulla cui assunzione ebbe un peso l’orientamento di Churchill, convinto che l’occupazione dell’isola potesse ingenerare dei sostanziali mutamenti nel regime fascista al potere in Italia. Il premier britannico non escludeva la possibilità che, pressato anche dalla drammatica situazione vissuta nel Paese, il Governo di Roma uscisse dalla guerra, uno sviluppo politico che avrebbe inciso in maniera notevole sulle capacità belliche degli alleati di Mussolini, infatti la Wehrmacht si sarebbe trovata di fronte a seri problemi quali l’immediato rimpiazzo delle truppe italiane schierate nei territori precedentemente occupati, nonché, a un intervento diretto in territorio italiano. Churchill si dimostrò un fine stratega, visto che le sue previsioni si sarebbero avverate con l’armistizio dell’8 settembre 1943, che sul piano militare impose ai tedeschi l’esigenza dell’impiego di 38 divisioni che, necessariamente trasferite da altri teatri operativi, avrebbe sguarnito questi ultimi. (⁴)
Con l’invasione della Sicilia gli Alleati, pur non aprendo ancora quel secondo fronte nella Francia settentrionale insistentemente reclamato da Stalin, avrebbero comunque contribuito a un indebolimento indiretto ma sensibile delle capacità tedesche sul fronte russo. Al successo dell’operazione Husky (così venne denominato lo sbraco in Sicilia) contribuì anche il lavoro dei servizi segreti britannici allo scopo di sviare le attenzioni di Berlino dalla principale isola italiana. (⁵)
L’undici giugno 1943 gli Alleati occuparono l’isola di Pantelleria e, nei giorni immediatamente successivi, anche Lampedusa, Linosa e Lampione. Nel frattempo, nella notte sul 10 luglio, preceduto da un intenso bombardamento della città di Siracusa, ebbe inizio l’attacco angloamericano. Per primi presero terra dal cielo i paracadutisti dell’82ª Divisione statunitense e della 1ª Divisione aerotrasportata britannica, mentre dal mare venivano sbarcate delle aliquote di commandos. Tra le due e le quattro del mattino venne sbarcato il grosso della forza, la VII Armata americana comandata dal generale Patton nella zona del Golfo di Gela (località di Gela, Licata e Scoglitti) e l’VIII Armata britannica di Montgomery in quella di Siracusa (Pozzalla, Pachino, Avola e Cassibile). (⁶)
Gli speciali mezzi da sbarco tipo LST ed LSI, a fondo piatto e prua ribaltabile, permisero di ovviare al forte vento che spirava e al mare forza sei consentendo lo stesso la presa di terra nonostante le condizioni meteorologiche proibitive. In questo modo venne evitato che le unità delle marine impegnate nell’operazione rimanessero esposte di fianco sotto costa, fatto che avrebbe comportato il grosso rischio del loro ribaltamento. Oltreché un irresistibile dispositivo navale, gli Alleati godettero anche di una schiacciante superiorità aerea, dato che soltanto negli aeroporti della piccola isola di Malta erano stati concentrati 600 velivoli. (⁷)
Si trattò di uno spiegamento di forze irresistibile che, in termini quantitativi, nella sua prima ondata sulle coste sicule superò persino quella che ci sarebbe stata durante l’operazione Overlord in Normandia il 6 giugno 1944.
Consolidata la testa di sbarco sulla terraferma, le due armate alleate presero direzioni diverse: Patton puntò su Palermo e Trapani dividendo in due la Sicilia per tagliarne fuori la parte occidentale; Montgomery diresse invece le sue truppe su Catania e Messina. Una volta conquistato il capoluogo ne venne immediatamente utilizzato il porto, dove poté così sbarcare la 9a. Divisione dell’US Army, fino ad allora tenuta in riserva in Africa settentrionale, dopodiché Patton, attraverso uno sbarco anfibio nella zona di Sant’Agata, proseguì la sua avanzata in direzione di Messina per poi ricongiungersi con l’VIII Armata britannica. La notizia della caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio, ingenerò nei tedeschi un sentimento di crescente sfiducia nei confronti del loro alleato italiano, che non a torto ritennero in procinto di disimpegnarsi dal conflitto. Il giorno seguente il maresciallo Kesserling, comandante in capo tedesco per il fronte sud, ricevette dalla Germania l’ordine di non inviare ulteriori rinforzi in Sicilia e di tenersi addirittura pronto a far evacuare le sue truppe dall’isola oltreché dalla Sardegna e dalla Corsica. Berlino dava dunque ormai per persa la Sicilia. Il 5 agosto l’VIII Armata britannica occupò Catania, tre giorni dopo la cittadina di Bronte, che si trovava sulla direttrice per Messina. Il 17 agosto alle ore sei e trenta la prima pattuglia di soldati americani entrava nella città peloritana.
Il consuntivo della campagna di Sicilia andò a tutto vantaggio degli Alleati, seppure i tedeschi riuscirono comunque a mettere in salvo in continente buona parte delle loro forze. Nei 38 giorni di combattimenti le perdite complessive subite dall’Asse ammontarono a 164.000 uomini, la maggior parte dei quali fatti prigionieri dagli angloamericani, mentre questi ultimi, invece, persero 22.000 uomini. Medesime furono le proporzioni registrate dai due schieramenti belligeranti nel settore aereo, con poco meno di 400 velivoli perduti dagli Alleati contro i 1.850 degli italo-tedeschi, 1.100 dei quali distrutti o gravemente danneggiati al suolo dai raid dei bombardieri nemici. Ma, aspetto assai rilevante, la campagna di Sicilia fu per gli Alleati un’ulteriore fonte di importanti insegnamenti nel campo delle operazioni anfibie, nel quale nonostante le esperienze maturate precedentemente nel Pacifico contro i giapponesi erano però ancora inesperti. Dal canto loro, i tedeschi dimostrarono una notevole abilità nel pieno sfruttamento del terreno secondo la sua configurazione al fine di trarne la migliore utilizzazione possibile. In meno di una settimana Kesserling riuscì a evacuare dall’isola 40.000 uomini, 10.000 automezzi, 47 panzer, 94 cannoni e quasi 20.000 tonnellate tra rifornimenti ed equipaggiamenti, tutti materiali che in seguito avrebbero utilizzato nella successiva campagna d’Italia. I militari del Regio Esercito che riuscirono ad attraversare lo Stretto furono invece 60.000. (⁸)
Infine, come già osservato, lo sbarco e la conquista della Sicilia si rivelarono inoltre determinanti sul piano politico per l’uscita dell’Italia dalla guerra. Lo stesso giorno che gli Alleati varcarono lo Stretto, a Cassibile venne firmato l’armistizio, reso poi noto il giorno 8 settembre.
Note
(¹) I flussi di rifornimenti diretti all’Unione Sovietica transitavano infatti sulle rotte artiche, dove erano presenti e attivi gli U-Boote di Dönitz, oppure attraverso la ferrovia dall’Iran.
(²) Albert Speer, personaggio molto potente e nella fiducia di Hitler, nel III Reich ricoprì l’incarico di ministro per la Produzione e gli Armamenti.
(³) A differenza della Royal Air Force Britannica e della Luftwaffe tedesca, la United States Army Air Force, evoluzione diretta dell’Army Air Corps, non era una forza aerea autonoma, bensì (al pari dell’Army Ground Forces e del Services of Supply) costituiva una componente dell’esercito americano. Essa avrebbe acquisito il rango di forza armata autonoma soltanto dopo la fine della guerra, quando il 18 settembre 1947, con l’approvazione del National Security Act, negli stati Uniti venne istituito il Department of Defense (dipartimento della difesa) dal quale, oltre all’U.S. Army e alla U.S. Navy, dipese anche la neo istituita United States Air Force (USAF).
(⁴) Al momento dell’invasione alleata della Sicilia il Regio Esercito schierava 31 divisioni nella Penisola balcanica, 5 divisioni nel sud della Francia e 2 in Corsica; per la difesa del territorio metropolitano (escluse le divisioni costiere e quelle in fase di ricostituzione) soltanto 15 divisioni, delle quali 7 sul territorio peninsulare, 4 in Sardegna e 4 in Sicilia.
(⁵) Si trattò dell’operazione Mincemeat (carne tritata), macabra ma efficace messinscena alla quale fece ricorso il Servizio Segreto Navale britannico finalizzata al mascheramento del reale obiettivo dell’operazione Husky, cioè l’invasione della Sicilia dal mare. Vennero fatti pervenire nelle mani dei tedeschi alcuni documenti artatamente redatti dagli uomini dell’intelligence di Londra dove si indicava inequivocabilmente un imminente sbarco alleato nei Balcani, depistando così il nemico, che reagì sguarnendo militarmente l’isola italiana.
(⁶) Le due armate alleate costituivano il XV Gruppo di Armate posto sotto il comando del generale Harold Alexander.
(⁷) La componente navale alleata schierata nel corso dell’operazione Husky comprese 1.614 unità della Royal Navy, 945 dell’US Navy e 31 appartenenti a marine di altri paesi.
(⁸) Impegnarsi in combattimento e farsi distruggere oppure evitare il nemicoper rischierarsi più a nord per contrastare meglio l’avversario? Questo fu il dilemma della Regia Aeronautica italiana durante l’invasione angloamericana della Sicilia (e più in generale anche nel più ampio periodo fino all’armistizio dell’8 settembre). Le missioni degli ultimi reparti aerei che difesero la zona occidentale dell’isola, condotte anche con i poco armati Macchi MC 202, allora costituenti la spina dorsale della linea caccia italiana, ottennero buoni successi, a volte abbattendo persino i temibili P-38 Lightning americani e gli altri bene armati velivoli nemici; tra il 9 luglio e il 31 agosto 1943, invece, i bombardieri e gli aerosiluranti (pochi e vetusti) ottennero risultati proporzionalmente comparabili a quelli della Luftflotte 2 tedesca, affondando il 32% delle unità navali nemiche colpite e danneggiandone il 28% (la quota restante è da attribuirsi agli aerei tedeschi). In ogni caso, il sacrificio e l’abnegazione dei piloti italiani e tedeschi non valse a mutare minimamente il risultato l’esito finale dell’operazione Husky.
Struttura di comando e piani: il COSSAC e le sue carenze
Il “cambiamento della marea”, in questo modo Churchill definì la situazione determinatasi a seguito degli importanti successi conseguiti dagli Alleati nelle battaglie delle Midway (4 – 8 giugno 1942), dove gli americani inflissero gravi danni alla flotta giapponese, di el-Alamein (23 ottobre – 4 novembre 1942), dove i britannici sconfissero gli italo-tedeschi in Africa settentrionale e di Stalingrado (16 settembre 1942 – 2 febbraio 1943), dove l’Armata rossa sovietica annientò la VI Armata tedesca del generale von Paulus. Come visto in precedenza, la successiva operazione Torch, cioè lo sbarco angloamericano nell’Africa settentrionale francese per gli Alleati aveva rappresentato anche un test sull’affidabilità delle nuove tecniche di sbarco adottate e degli appositi mezzi anfibi che allo specifico scopo erano stati approntati. In seguito, alla conferenza di Casablanca, gli Alleati avevano preso l’importante decisione di costituire un organo di comando, uno stato maggiore da preporre alla realizzazione della fase preliminare di uno sbarco in forze nell’Europa continentale entro il 1944. Vedeva così la luce il COSSAC (Chief of Staff to the Supreme Allied Commander), nuovo organismo che ebbe sede alla Norfolk House di Londra e al cui vertice venne posto il generale britannico Frederick Morgan.
Stalin, in aperta polemica con britannici e americani, disertò la conferenza. Egli voleva che al più presto venisse aperto il secondo fronte in Europa e, anche quella volta, non mancò di sottolinearlo. Ciò che emerge dal carteggio intercorso fra il maresciallo dell’Unione Sovietica e i suoi alleati dell’Occidente è eloquente. Nella sua caustica lettera inviata al presidente degli Stati Uniti Roosevelt così si espresse per comunicare la sua impossibilità a partecipare al vertice fissato per il mese di gennaio del 1943:
«Permettetemi di esprimere la speranza che non si perda tempo e che le promesse circa l’apertura di un secondo fronte fattemi da lei, Signor Presidente, per il 1942 e, in ogni caso, per la primavera del 1943, saranno mantenute e che un secondo fronte in Europa sarà effettivamente aperto dalle forze riunite della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d’America nella primavera del 1943». (¹)
Un inciso, quello di Stalin, sicuramente fondato, visto che ancora all’epoca della conferenza di Teheran, che si sarebbe svolta nell’inverno del 1943, gli inglesi premettero ancora per uno sforzo militare nel Mediterraneo e nei Balcani, dato che Churchill, sfruttando la spinta nella penisola italiana, riteneva di poter sfondare il fronte dilagando in seguito nella regione danubiana attraverso la sella di Lubiana e giungere quindi a occupare Vienna, anticipando così l’avanzata da oriente dell’Armata rossa sovietica. Comunque, seppure tra enormi difficoltà sui piani tecnico e logistico e non poche divergenze strategiche e diffidenze su quello politico, il passo successivo all’istituzione del COSSAC fu quello dell’elaborazione dei piani di massima relativi a un futuro sbarco sulle coste settentrionali francesi. Il generale Morgan ricevette l’incarico della preparazione di tre differenti piani di attacco: Starkey, concepito allo scopo di indurre i tedeschi a ritenere imminente uno sbarco nemico, costringendoli conseguentemente a trattenere forze consistenti nell’Europa nordorientale; Rankin, che previde l’eventualità di un veloce collasso e dell’immediato sfruttamento della favorevole situazione venutasi a creare al fine di organizzare lo sbarco; Overlord, che fu il vero e proprio piano d’invasione.
Il COSSAC venne inoltre investito dell’esame delle potenziali zone di sbarco in vista della loro scelta definitiva, uno studio che ebbe a oggetto l’intero tratto costiero dell’Europa settentrionale, esteso dall’estremo nord norvegese alla Spagna. Persino la costa atlantica del paese iberico venne presa in considerazione, seppure quasi subito scartata sia per ragioni di opportunità politica (le possibili reazioni negative di Franco a una invasione del territorio spagnolo) sia di natura geografica e infrastrutturale (insufficiente rete stradale ed eccessiva distanza del paese dalla Germania). Escluse le coste norvegesi e danesi, ai pianificatori alleati restavano la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi, ma anche in questi casi il ventaglio delle possibilità si restrinse, in quanto le zone di Calais e di Ostenda, meno distanti dai porti dell’Inghilterra, ovviamente erano state guarnite dai tedeschi di difese difficilmente penetrabili. La Normandia invece, in particolare la Bassa Normandia, cioè quel settore compreso tra la foce del fiume Orne e la penisola di Cotentin, meglio si prestava a quel tipo di operazione anfibia e, per questa ragione, la scelta degli Alleati cadde su di esso. Il piano venne successivamente approvato nel corso della Conferenza di Québec dell’agosto 1943 e da quel momento il COSSAC cessò di svolgere funzioni di pianificazione e assunse una veste operativa, sebbene non fosse stato ancora conferito l’incarico di comandante supremo alleato delle forze d’invasione, designazione che in seguito sarebbe caduta sulla persona del generale Dwight David Eisenhower. (²)(³)
Intanto però i tedeschi non rimasero con le mani in mano e, soprattutto a partire dal novembre del 1943, cioè da quando il feldmaresciallo Erwin Rommel aveva assunto l’incarico di ispettore del Vallo Atlantico, procedettero con sempre maggiore intensità nell’approntamento delle difese lungo le coste della Normandia e della Bretagna. In quegli specifici settori costieri le difese erano affidate ai corpi d’armata LXXXI e LXXXIV, entrambi appartenenti al Gruppo di Armate B comandato dallo stesso Rommel, un incarico assunto per volere di Hitler praticamente nello stesso periodo in cui Heisenhower venne posto a capo dello SHAEF. (⁴)
Sta di fatto però, che nel 1944 molte di queste fortificazioni erano ancora incomplete oppure eccessivamente distanti tra loro per opporre un’efficace resistenza. Inoltre, nello stesso periodo l’inversione di tendenza nella cosiddetta battaglia dell’Atlantico si rivelò decisiva per gli esiti del conflitto.
Note
(¹) È comunque assai probabile che Stalin non abbia preso parte alla Conferenza di Casablanca perché non si sentiva ancora in una posizione di forza tale da poterla far valere sui suoi alleati occidentali, cosa che invece immancabilmente farà a partire dalla resa tedesca a Stalingrado, quindi nelle conferenze di Teheran, Yalta e Potsdam, alle quali fu sempre presente.
(²) Alla prima conferenza di Québec, denominata in codice Quadrant, che si svolse dal 17 al 24 agosto 1943, oltre ad accordarsi sull’inizio della pianificazione dell’operazione Overlord, i leader Alleati dell’Occidente discussero anche dell’incremento dei bombardamenti aerei sulla Germania e sulla dislocazione delle truppe dell’US Army in Gran Bretagna. Washington e Londra siglarono inoltre degli accordi segreti per la condivisione dei progetti di sviluppo dell’arma atomica del loro impiego bellico. Sempre nel corso di Quadrant venne espressa una dichiarazione congiunta sulla Palestina occupata dai britannici. Ad essa, oltre a Churchill e Roosevelt, prese parte anche il premier canadese Mackenzie King.
(³) il COSSAC si vide attribuiti due sostanziali difetti: in primo luogo la scarsità di risorse a esso allocate rispetto alle necessità di una operazione della portata di Overlord (solo tre divisioni assegnate per la conquista di un grande porto nella Francia settentrionale da dove, successivamente, far procedere il voluminoso afflusso di uomini e materiali provenienti degli Usa); secondariamente la sua farraginosa procedura decisionale all’interno di una filiera di comando che imponeva l’approvazione (o il veto) da parte del comitato congiunto di stato maggiore riguardo ad ogni iniziativa da assumere.
(⁴) Dal luglio del 1942 il generale von Runstedt venne nominato comandante in capo del Fronte Ovest, organismo dal quale dipendevano le settanta divisioni costituenti i Gruppi di armate B e C, rispettivamente al comando di Rommel e di von Baskowitz.
Inversione di tendenza nella battaglia per l’Atlantico
Taluni ritengono che i combattimenti avvenuti sopra e sotto la superficie dell’oceano Atlantico che ebbe inizio il primo giorno di guerra sia stata decisiva ai fini dell’esito del Secondo conflitto mondiale. Da essa dipesero i rifornimenti delle isole britanniche, compresi quelli dei generi di prima necessità destinati alla popolazione civile e, soprattutto, i materiali bellici prodotti dall’industria statunitense, estremamente necessari alle truppe di Londra impegnate sui fronti europeo e africani. L’inversione di tendenza nella battaglia dell’Atlantico, verificatasi alla metà del 1943, rappresentò un punto di svolta fondamentale nell’intero conflitto, in quanto permise l’indispensabile presupposto per l’apertura di un secondo fronte in Europa settentrionale, quello del transito in Gran Bretagna delle quantità di uomini e mezzi necessarie a un’operazione delle dimensioni di Overlord. Questa svolta coincise praticamente con quella del superamento in termini di tonnellaggio della quota di naviglio mercantile alleato prodotto nei cantieri navali rispetto a quello affondato dai tedeschi, registrata alla fine del 1943. Tant’è vero che Eisenhower stabilì la data del D-Day soltanto quando ebbe la certezza di una riduzione della minaccia portata dagli U-Boote ai convogli di rifornimento alleati in Atlantico. (¹)
Qui è interessante fare un passo indietro per comprendere meglio le dinamiche di quel prolungato scontro nelle acque dell’oceano. Al momento del suo riarmo, la Germania hitleriana non contemplò una strategia navale che prevedesse una battaglia in pieno Atlantico o il blocco delle coste dei paesi nemici, bensì l’attacco la traffico degli avversari mediante l’impiego di unità corsare e di sommergibili. La Kriegsmarine si fece inoltre carico del mantenimento in sicurezza dei movimenti tedeschi nel mar Baltico, dove si attendevano possibili attacchi nemici. Ciò rispecchiava il complesso teorico elaborato dall’ammiraglio Rëder, che escludeva aprioristicamente un nuovo confronto con la Gran Bretagna, indicando nel 1935 agli alti comandi militari di Berlino quali possibili avversari Francia, Polonia e Unione Sovietica. (²)
Un orientamento avvalorato anche alla luce dell’Accordo navale anglo-tedesco siglato il 18 giugno di quello stesso anno, proprio poche settimane dopo la denuncia da parte di Adolf Hitler del Trattato di Versailles. L’accordo con Londra sancì il principio in base al quale la flotta tedesca, ribattezzata Kriegsmarine, non avrebbe dovuto superare il 35% di quella del Commonwealth. Uno dei più importanti settori di sviluppo nel settore fu quello dei sommergibili, infatti, sulla scorta della drammatica esperienza maturata nel 1914-18, i britannici nelle clausole del Trattato di Versailles avevano tassativamente vietato la ricostituzione della micidiale flotta subacquea tedesca, ma il successivo Accordo del 1935 riconobbe comunque al Reich un incremento della propria quota di sommergibili portandola al 45 percento. Sarà poi il famoso Z Plan del 1937, fortemente voluto da Hitler, a mutare radicalmente il quadro della situazione strategica, reintroducendo il tema di un possibile confronto bellico con la Gran Bretagna come eventuale conseguenza di un espansione tedesca a Oriente. Nelle discussioni con il Führer, Rëder ricevette assicurazioni riguardo ai tempi disponibili per la pianificazione e la realizzazione dello strumento militare marittimo in vista di un ipotetico conflitto, la Germania non sarebbe entrata in guerra prima del biennio 1942-44. Come è noto non andò così, comunque le nubi nere di un prossimo conflitto con gli inglesi non sfuggirono agli alti comandi di Berlino e le esperienze negative del guerra precedente influirono sulla loro condotta. In quel momento i tedeschi non erano riusciti a realizzare i presupposti strategici indicati in precedenza dagli ammiragli Wegener, Fuchs ed Haye, che avrebbero comportato l’acquisizione di basi oltremare e l’alleanza con altre potenze oceaniche. In seno alla Kriegsmarine si creò quindi una spaccatura a livello teorico, che condusse alla formulazione di due diversi e alternativi piani, definiti “Y” e, appunto, “Z”. Il primo, espressione del gruppo di ufficiali che sosteneva la necessità per la Germania di dotarsi di grandi navi e di una flotta di notevoli dimensioni (in sostanza i seguaci delle teorie di Mahan sulla proiezione di potenza sui mari), il secondo, invece, di coloro che erano convinti dell’efficacia della guerriglia navale insidiosa, dottrina navale teorizzata in Francia che vide il suo massimo sviluppo nel XIX secolo anche per opera dell’ammiraglio Aube, che fu ministro della Marina di Parigi, fra i quali figurava anche il comandante Karl Dönitz. Si trattava di una dottrina basata su concetti maggiormente adatti all’imminenza di un conflitto, che prevedevano l’impiego di incrociatori corsari (navi mercantili armate e truccate), sommergibili e unità corsare motorizzate con propulsori diesel concepite per l’azione di dispersione delle forze principali del nemico. Nel 1939, con l’esplosione prematura del conflitto, per i vertici della Kriegsmarine non fu però più possibile mutare l’impostazione precedentemente assunta, ma in ogni caso le unità tedesche avrebbero dovuto colpire egualmente la Gran Bretagna attaccando il suo traffico navale. Venne applicata la strategia della dispersione: il naviglio leggero avrebbe colpito nel mare del Nord, mentre sommergibili e unità corsare avrebbero attaccato l’avversario in tutti i mari raggiungibili con navi propulse da motori diesel, che sarebbero state coadiuvate da speciali unità da rifornimento. In questo modo si sarebbe gettato lo scompiglio nelle linee di traffico del nemico: attaccando con i sommergibili la Royal Navy si sarebbe vista obbligata a formare delle scorte ai mercantili con del naviglio specializzato nella lotta antisom, però, poi le navi corsare tedesche li avrebbero attaccati dalla superficie con artiglierie più potenti delle loro, precipitando nel caos i convogli. Per la Germania impedire agli inglesi l’uso del mare equivaleva al domino, in quanto i tedeschi, potenza continentale, potevano fare a meno del commercio, mentre le isole britanniche dipendevano dai rifornimenti dalle colonie e dagli Usa. All’Ammiragliato di Londra si trovarono di fronte a un’alternativa cruciale: concentrare le navi da battaglia in un determinato punto oppure disperderle per scortare i convogli? Controllare solo le rotte di vitale importanza oppure esporre le vulnerabili unità sparse nell’oceano alla potenza di forze nemiche concentrate localmente?
Ma, come affermato, la Kriegsmarine entrò in guerra con tre anni di anticipo sul previsto, quindi senza aver potuto completare, se non per una minima parte, il suo programma di costruzioni finalizzato allo schieramento di una flotta bilanciata. Di risulta Dönitz dovette fare affidamento su uno strumento sbilanciato in favore delle unità corsare e dei sommergibili, disponendo di poche grandi navi e di scarsa copertura aerea. Questo a differenza della Gran Bretagna, la cui flotta poteva contare su una catena di basi disseminate su tutti i mari e gli oceani del mondo, di arsenali di prim’ordine, di ottime capacità cantieristiche ed enormi flotte mercantili, nonché del sostegno fornito della potente macchina industriale americana. (³)
Inoltre, va anche considerato che, mentre a Londra erano convinti che la battaglia decisiva della guerra sarebbe stata combattuta nell’Atlantico, al contrario, a Berlino all’alto comando tedesco, forse prigionieri di una mentalità continentale, non si resero pienamente conto delle fondamentali potenzialità insite nell’arma subacquea, che invece cominciò a destare interesse soltanto quando l’esito del conflitto era ormai definitivamente compromesso. Nel drammatico confronto con la potenza navale inglese, gli U-Boote rappresentarono in ogni caso un’importante strumento. Tuttavia, la forza numerica dell’arma sommergibilistica tedesca, per quanto incrementata, non fu sufficiente a garantire il conseguimento di successi decisivi nell’attacco alle vie di rifornimento nemiche, persino quando la protezione offerta dalla Royal Navy ai convogli mercantili era ancora debole. Quando nel 1942 la Kriegsmarine raggiunse una notevole quota di battelli operativi da impiegare in “branchi” Londra aveva ormai migliorato sensibilmente le sue capacità di resistenza, per giungere nell’anno successivo a vantare una netta superiorità. (⁴)
A questo punto due parole vanno spese sulla “neutralità” di Washington. In realtà, il III Reich e gli Stati Uniti si trovarono in uno stato di sostanziale confronto già molto prima della dichiarazione ufficiale di guerra tedesca dell’undici dicembre 1941, quattro giorni dopo attacco giapponese di Perl Harbour. Infatti, il comportamento americano (non soltanto sui mari) fu ben distante da ciò che potrebbe definirsi come una politica di neutralità, cioè di quello che invece era stato ufficialmente stabilito dal Congresso degli Stati Uniti. A partire dall’autunno del 1939 Roosevelt decise una serie di misure di sostegno alla Gran Bretagna. In seguito, dall’aprile 1941, Washington estese la zona di sicurezza panamericana fino al 30° grado di latitudine Ovest (quindi nel mezzo dell’oceano) facendo pedinare dalle unità della propria marina militare le navi tedesche che si trovavano nella zona. Si trattava di una zona all’interno della quale le operazioni belliche erano vietate, ma dove le unità tedesche, alla fine, venivano poste nella condizione di essere catturate dai britannici o costrette all’autoaffondamento. A quello stesso periodo risalì la collaborazione nei termini militari e della pianificazione fra l’US Navy e la Royal Navy, quando nell’Atlantico settentrionale le unità americane iniziarono a scortare i convogli diretti in Gran Bretagna e a sorvegliare quei tratti di mare dai corsari tedeschi. (⁵)
Quella di Roosevelt verrà definita dagli storici come una politica Short of War, cioè al limite della guerra. Il 7 luglio 1941 truppe statunitensi vennero schierate in Islanda, isola strategicamente importante che sin dal 1940 era stata occupata militarmente dai britannici. Washington estese quindi la propria zona di sicurezza alle acque circostanti, di conseguenza per il comando operazioni navali tedesco divenne oltremodo difficile evitare incidenti con gli americani, dato che l’US Navy iniziò a proteggere il traffico diretto dalla madrepatria all’Islanda includendo nei convogli anche le navi che avevano altre mete e, fra queste, quelle dirette nei porti del Regno Unito, che divenivano indistinguibili dalle altre almeno nel lungo tratto parallelo della rotta. Questa strana neutralità di Washington ebbe anche altri effetti decisivi sull’esito del conflitto, infatti, da quando nella tarda estate del 1941 l’US Navy iniziò a sorvegliare in funzione antitedesca lo Stretto di Danimarca, tra l’Islanda e la Groenlandia, il passaggio praticato per la penetrazione in Atlantico dalle unità corsare di superficie della Kriegsmarine divenne sempre più insicuro, con rilevanti effetti negativi sulle capacità tedesche di attaccare le vie di rifornimento britanniche.
La battaglia dei convogli raggiunse il suo apice nel 1942, quando nei mesi di settembre e ottobre gli attacchi portati ai convogli dai branchi di sommergibili tedeschi si susseguirono in rapida successione e senza soluzione di continuità. Nel mese di novembre venne registrato uno dei picchi negativi maggiori per il traffico marittimo alleato, 800.000 tonnellate lorde di naviglio affondato. Fino a quando il numero della navi alleate affondate continuò a superare quello delle navi di nuova costruzione all’Oberkommando der Marine nutrirono ancora possibilità di vittoria, ma si trattò di una speranza fugace, dato che dalla metà del 1943 i termini della questione si invertirono e i cantieri navali americani raggiunsero pieni ritmi produttivi, portando in quello stesso anno le costruzioni alla quota di 12 milioni di tonnellate.
La supremazia tecnologica degli Alleati contribuì in maniera determinante al successo nella protezione dei convogli conseguito nella primavera del 1943. Sia l’introduzione del radar, installato anche sui velivoli, che delle apparecchiature di rilevamento Huff-Duff, limitarono in misura sempre maggiore le possibilità operative degli U-Boote, consentendone la distruzione di numerose unità. Il distacco tecnico tedesco nello specifico settore non venne mai colmato, nonostante il perfezionamento dei sistemi d’arma e delle apparecchiature installate in seguito a bordo dei sommergibili. (⁶)
Il canto del cigno della Kriegsmarine nella battaglia per l’Atlantico arrivò nel marzo del 1943, quando l’ammiraglio Dönitz, nel corso del più grande scontro della guerra contro un convoglio (100 navi salpate da New York), malgrado gli affondamenti di mercantili effettuati si vide costretto a ritirare i suoi sommergibili perché ormai allo stremo delle loro forze e sotto continuo attacco da parte dei velivoli nemici decollati dalle basi dell’Irlanda del Nord. In quell’occasione gli angloamericani persero 21 navi per complessive 141.000 tonnellate a fronte di un solo U-Boote distrutto. Ma in Atlantico ormai la marina tedesca aveva i giorni contati e, dopo che la Royal Navy ebbe potenziato ulteriormente le scorte, nel maggio seguente l’arma subacquea del Reich visse il suo periodo più nero, perdendo in combattimento ben 41 battelli. Il giorno 24 dello stesso mese Dönitz diramò l’ordine ai sommergibili superstiti ancora in navigazione nell’Atlantico settentrionale di fare rientro alle proprie basi: la battaglia per il dominio dell’oceano era stata perduta.
Note
(¹) Nei primi mesi del 1944 anche le navi da crociera Queen Elizabeth e Queen Mary saranno nelle condizioni di effettuare il trasporto di un intera divisione dell’esercito statunitense e a effettuare due traversate oceaniche al mese.
(²) Admiral Erich Johann Albert Rëder, dal 1928 fu Oberbefehlshaber der Marine, cioè comandante in capo della Marina da guerra tedesca.
(³) Il Governo di Londra pose sotto il comando dell’Ammiragliato la propria flotta mercantile, 4.000 unità con circa 160.000 uomini di equipaggio. Alcune di queste navi, che solcavano l’oceano in gruppo e, ove possibile, oscurate, imbarcarono piccoli sistemi d’arma a scopo difensivo.
(⁴) In questo periodo la protezione dei convogli, oltreché dalle unità di scorta della Royal Navy, venne assicurata anche dai velivoli antisom a grande autonomia che decollavano da Terranova, dall’Islanda e dall’Irlanda settentrionale. Si trattava di aerei che raggiungevano un raggio d’azione di oltre 1.000 chilometri, quindi in grado di ridurre il “buco” al centro dell’Atlantico dove gli altri velivoli della RAF inviati in protezione ai convogli non potevano rimanere più di tanto in perlustrazione.
(⁵) Il primo attacco diretto da parte di un’unità dell’US Navy a una nave tedesca si verificò il 10 aprile 1941 presso le coste islandesi, quando il cacciatorpediniere Niblack lanciò delle cariche di profondità contro un bersaglio ritenuto essere un U-Boote.
(⁶) Le apparecchiature di rilevamento Huff-Duff (H/F D/F, High Frequency Direction Finder, radiolocalizzatore ad alta frequenza), erano in grado di stabilire la posizione dei battelli nemici sulle base della captazione delle loro emissioni radio.
Le fasi prodromiche: costituzione dello SHAEF e Operazione Fortitude
Tra il 28 novembre e il primo dicembre 1943 ebbe luogo la Conferenza di Teheran, un passaggio importante verso una compiuta definizione di Overlord. Infatti, le decisioni di natura militare assunte in quella sede determinarono gli aspetti strategici delle future operazioni belliche degli Alleati per tutto il corso del 1944. Nel co0rso della serie di colloqui che ebbero luogo nella capitale persiana Stalin non esitò a fare leva sul presidente americano Roosevelt per isolare e mettere in difficoltà il combattivo premier britannico Churchill. Il maresciallo sovietico approfittò astutamente della situazione per creare i presupposti che, in seguito, avrebbero trovato sanzione nella conferenza alleata in Crimea del febbraio 1945. (¹)
Ovviamente, fra gli argomenti posti all’ordine del giorno a Teheran al primo posto figurò quello dell’apertura del secondo fronte in Europa, un tema sul quale i britannici, per bocca del generale Brooke, non mancarono di soffermarsi in modo analitico sulle non indifferenti difficoltà insite in uno sbarco anfibio di quelle dimensioni. A questo riguardo Stalin, che non era certamente un pivello, manifestò immediatamente scetticismo, e a ragione. Infatti, fino a quel momento non era stato ancora designato neppure il comandante supremo di quell’operazione, cosa che ingenerò dei dubbi sulla possibile non condivisione di quest’ultimo dei piani di battaglia elaborati dal COSSAC che gli sarebbero stati sottoposti. Come si sarebbe potuto conciliare il tutto? Il capo sovietico cassò energicamente sul nascere le reiterate insistenze di Churchill per uno sforzo militare nel Mediterraneo e nei Balcani, un evergreen del primo ministro inglese da sempre risultato sgradito ai sovietici. (²)
E qui si inserì il tema dell’operazione Anvil, che era stata concepita dagli americani e avrebbe dovuto consistere in uno sbarco anfibio in forze nella regione meridionale francese della Provenza in concomitanza con l’avvio di Overlord in Normandia, una iniziativa che, giocoforza, avrebbe però comportato la rinuncia a ogni altro impegno militare di rilievo nel teatro del Mediterraneo, con la frustrazione delle aspettative di Churchill e del suo stato maggiore. Attraverso l’operazione Anvil si sarebbe cercato di costituire un’azione collaterale di sostegno a Overlord nella critica fase iniziale del consolidamento della testa di ponte di quest’ultima, però, quando apparve evidente che per ragioni contingenti Anvil non avrebbe potuto avere luogo prima della metà del mese di agosto, quando cioè sarebbe ormai venuto meno lo scopo per la quale era stata ideata, Churchill intervenne presso Roosevelt nell’intento di farla annullare, ma il presidente americano non fu d’accordo e sette divisioni alleate vennero quindi trasferite dal fronte italiano per essere impiegate in Provenza, provocando così un ristagno delle operazioni nella penisola. A Teheran un risultato venne comunque raggiunto: i leader delle potenze alleate concordarono sulla data di inizio dell’operazione Overlord, che venne stabilita per i primi giorni di maggio del 1944.
Il passo successivo, cioè la designazione di un comandante supremo, venne poi condizionato dagli orientamenti al vertice dello stato maggiore statunitense. Sul fatto che tale carica apicale andasse conferita a un ufficiale generale americano non c’erano dubbi, gli Alleati lo avevano già concordato nella Conferenza di Québec sulla base dell’assunto che, nella successiva fase operativa, le forze di Washington impiegate sul campo sarebbero state quantitativamente prevalenti su quelle di Londra e di Ottawa. In verità, in quella stessa occasione, pur non ufficialmente, sia Roosevelt che Churchill espressero le loro preferenze per il generale George C. Marshall, allora capo di stato maggiore delle forze armate Usa, un ufficiale competente che godeva della stima degli inglesi. Marshall venne persino informato riguardo a questa prevista nomina, che però non ci sarebbe mai stata a causa dell’opposizione espressa dagli altri capi di stato maggiore statunitensi, quello dell’aeronautica generale Arnold e quello della marina ammiraglio King, che in questo modo innescarono un acceso dibattito sulla stampa americana. A Marshall essi preferirono Eisenhower, ritenendo quest’ultimo un elemento di vertice in grado di favorire un clima di maggiore coesione all’interno di quella squadra di comandanti supremi ormai collaudata dal tempo delle operazioni in Tunisia. L’annuncio ufficiale della nomina di Eisenhower a capo dello SHAEF (Supreme Headquarter Allied Expeditionary Forces) venne diramato soltanto più tardi, il giorno di natale del 1943.
A quella di “Ike” seguirono le nomine degli altri componenti la complessa struttura di comando. Il maggior generale Walter Bedell Smith venne designato alla carica di capo di stato maggiore dello SHAEF. Bedell Smith, che nel passato aveva prestato servizio presso l’ufficio informazioni dell’US Army, prima del suo trasferimento in Europa svolse per alcuni mesi l’incarico di Segretario per gli Stati Uniti all’interno della commissione mista dei capi di stato maggiore alleati riunita a Washington. Dal settembre del 1942 fu al fianco di Eisenhower durante l’operazione Torch in Marocco e Algeria, infine aveva partecipato alla campagna d’Italia. Il generale britannico Frederick Morgan, già capo del COSSAC e fra gli ideatori del pi ano di sbarco in Normandia, assunse invece l’incarico di capo di stato maggiore aggiunto, mentre quale suo sostituto, Eisenhower designò il maresciallo dell’aria britannico Sir Arthur Tedder. Anche il comando delle forze navali d’invasione andò a un’ufficiale britannico, l’ammiraglio Bertram Ramsay, che nel giugno 1940 era riuscito a rimpatriare nel Regno Unito il corpo di spedizione britannico che era in rotta a Dunquerque sotto l’incalzare della Wehrmacht. Infine, a capo delle forze aeree venne posto il generale Leigh Mallory, un veterano della battaglia d’Inghilterra. Eisenhower mantenne nelle proprie mani il coordinamento operativo di tutte le forze terrestri, delegandolo però temporaneamente al maresciallo Montgomery fino all’esaurimento delle delicate fasi dello sbarco anfibio e del successivo consolidamento delle teste di ponte sul terreno.
L’operazione Overlord subì però un rinvio della durata di circa un mese a causa di un problema di cui in realtà i vertici politici e militari alleati erano ben consci: l’insufficienza dei mezzi da sbarco disponibili. Una situazione resa maggiormente complicata dalla comune pretesa di Eisenhower e Montgomery riguardo a un allargamento del fronte di sbarco rispetto a quanto era invece stato precedentemente previsto nella pianificazione elaborata dal COSSAC. In quei piani erano stati ravvisati degli evidenti limiti sia nell’ampiezza del fronte di attacco che nel numero di divisioni da impiegarvi, che si sarebbero dovute incrementare da tre a cinque. Un altro problema di non semplice soluzione che si pose ai pianificatori e agli organizzatori alleati in vista dello sbarco fu quello connesso con il rifornimento di carburante per i mezzi terrestri e per gli aerei che avrebbero dovuto decollare dalle piste francesi una mano a mano che il territorio continentale fosse stato liberato dal nemico. Se in un primo momento le navi cisterna sarebbero state fatte ormeggiare al largo e il carburante fatto affluire mediante un oleodotto galleggiante a dei serbatoi situati sulla terraferma, in seguito però si sarebbe fatto ricorso a un oleodotto subacqueo appositamente allestito per porre direttamente in relazione l’Inghilterra con la costa francese, PLUTO (Pipe Line Under the Ocean). Esso si rivelò una brillante soluzione in gardo di permettere in modo efficace il rifornimento delle forze armate alleate impegnate nei combattimenti, sopperendo così al cruciale problema del flusso di enormi quantità di carburante destinate a soddisfare i bisogni di mastodontiche armate motocorazzate e, soprattutto, dei velivoli da combattimento. La storia avrebbe di lì a poco dimostrato che, in mancanza di questo elemento vitale, qualsiasi operazione può venire bruscamente interrotta, ed è quanto si verificò alcuni mesi dopo lo sbarco alle stesse divisioni alleate, che si arenarono a secco di carburante nel corso dell’offensiva nei Vosgi dell’inverno 1944-45. (³)
Alla base di un’operazione complessa come Overlord risiedettero alcuni fattori di essenziale importanza: la predisposizione di porti prefabbricati da trainare in mare fino alla costa francese (che avrebbero consentito il rapido sbarco di uomini, mezzi e rifornimenti senza che i tedeschi potessero rinforzare il settore trovatosi sotto attacco), la superiorità aerea e il mascheramento stesso dell’invasione nel settore costiero della Normandia. A tale ultima esigenza venne data risposta mediante la più estesa operazione d’intelligence condotta nel corso della Seconda guerra mondiale, Fortitude, concepita nel quadro del maggiormente complesso piano di depistaggio nonto come operazione Bodyguard. L’obiettivo dell’alto comando alleato era ingannare il nemico riguardo al vero luogo di presa di terra delle proprie truppe per indurlo a concentrare gli sforzi difensivi altrove, soprattutto nella zona del Passo di Calais, inoltre, con l’azione di disinformazione si convinsero i tedeschi del fatto che lo SHAEF disponesse di forze militari pari al doppio della loro reale consistenza. Allo scopo venne accreditata l’esistenza di una forza fittizia, il FUSAG (Firsth US Army Group), possente armata basata su trentasette divisioni stanziate in Gran Bretagna pronte all’invasione dell’Europa continentale, un complesso gigantesco in realtà quasi completamente inesistente, fatta eccezione per il suo comandante supremo (il generale Patton), per alcuni simulacri di velivoli di mezzi da sbarco e di carri armati messi a bella posta nelle campagne inglesi a uso della (ormai scarsa) ricognizione aerea nemica e per il suo reparto trasmissioni, che durante tutto il periodo precedente allo sbarco e fino al luglio successivo continuò a trasmettere saturando l’etere di false informazioni. (⁴)
A partire dal gennaio 1944, periodo nel quale l’Oberkommando della Wehrmacht non era riuscito a stabilire con chiarezza dove potesse avere luogo l’attesa invasione dal mare alleata, iniziò l’elaborazione nei dettagli dell’operazione Bodyguard, articolata in una serie di sotto-operazioni tra le quali Fortitude Nord e Fortitude Sud. La prima, facendo leva sulla presenza di una fittizia IV Armata britannica basata a Edimburgo, in Scozia, servì ad avvalorare nei tedeschi (che erano costretti a difendere l’intera fascia costiera nordeuropea a quel tempo sotto il loro controllo) l’ipotesi di uno sbarco britannico in Norvegia. (⁵)
Obiettivo di Fortitude Sud fu invece quello di convincere il nemico che le trentasette divisioni del FUSAG di Patton costituissero la forza da impiegare nell’invasione al Passo di Calais e che l’attacco in Normandia altro non fosse che un diversivo per alleggerire quella principale zona di sbarco dalla presenza militare tedesca. Qualora riuscito, l’inganno avrebbe bloccato un notevole numero di unità tedesche lontano dalla Normandia per alcuni giorni, permettendo in questo modo il consolidamento della testa di ponte dopo lo sbarco e l’inizio della penetrazione nell’interno della Francia. E infatti, gli Alleati avrebbero proseguito nell’operazione Bodyguard anche il 6 giugno (quindi sbarco durante) simulando la presenza d’una flotta d’invasione in procinto di attaccare non lontano dalle zone di Passo Di Calais, Capo d’Antifer e a occidente dell’area di sbarco vera e propria. L’Abwher e il comando supremo dell’esercito perseverarono dunque nell’errore di escludere dal novero delle possibilità il Calvados come possibile zona di sbarco del nemico, considerandola eccessivamente impervia allo scopo, ritenendo invece maggiormente logico un attacco a Calais, cioè un luogo non troppo distante dalle basi aeree inglesi da dove sarebbero decollati gli aerei destinati a garantire l’appoggio tattico alle forze terrestri e, inoltre, sulla direttrice di penetrazione più breve verso il bacino minerario della Ruhr.
Passo dopo passo, l’intelligence alleata riuscì a monitorare gli effetti provocati nel pensiero e nell’azione degli alti comandi tedeschi dalle operazioni di disinformazione e mascheramento previste nel piano Bodyguard grazie a ULTRA, un sistema di decifrazione dei messaggi crittografati del nemico. Questo vantaggio gli consentì di mantenere la finzione del FUSAG e delle altre messinscene per un considerevole periodo di tempo anche dopo il D-Day, fino quasi alla fine dell’estate del 1944, con l’importante risultato di continuare a ingenerare insicurezza nei tedeschi costringendoli a mantenere bloccate altrove buona parte delle loro forze di riserva in attesa di un attacco dal mare che non ci sarebbe mai stato. ULTRA, macchina sviluppata sulla base di un primitivo calcolatore elettronico realizzato in Gran Bretagna, mise l’intelligence degli Alleati nelle condizioni di ricavare preziosissime informazioni dalle trasmissioni effettuate dal nemico. Essa poteva decrittare i messaggi che i tedeschi inviavano tramite ENIGMA, un loro sistema meccanico utilizzato per l’invio e la ricezione di dispacci segreti. A essere intercettate e decrittate furono le trasmissioni della Luftwaffe, di tutte le divisioni della Wehrmacht schierate in zona di combattimento e quelle degli ufficiali di collegamento distaccati presso i comandi delle grandi unità, però non era in grado di farlo su tutta la massa di trasmissioni che avvenivano per mezzo di linee terrestri, una modalità estremamente frequente sui fronti di guerra dove era impegnata la Wehmacht, caratterizzati da spiccata staticità. ULTRA permise agli Alleati di venire in possesso di importanti informazioni riguardo alla consistenza e allo stato delle forze tedesche schierate nella Francia settentrionale, ricavando, ad esempio nel corso delle fasi cruciali della battaglia di Normandia, particolari sulla precaria situazione nella quale si trovavano le divisioni corazzate nemiche che si apprestavano a ingaggiare in combattimento. Una condizione di grande vantaggio che conoscerà un ampliamento nel prosieguo della battaglia, quando, con i cedimento del fronte tedesco, in ragione della mutata situazione che si andrà determinando sul campo di battaglia lo scontro acquisirà una maggiore dinamicità. Infatti, il conseguente aumento della mobilità sul terreno delle varie unità della Wehrmacht, precedentemente concentrate nel bocage normanno a tendere imboscate ai carri armati nemici, imporrà un più frequente utilizzo degli apparati radio in dotazione per le comunicazioni con i vari livelli di comando, consentendo di risulta all’intelligence alleata la captazione di una ragguardevole mole di informazioni. (⁶) (⁷)
L’operazione Bodyguard sarà un successo. Lo sbarco sulle coste della Normandia coglierà di sorpresa i tedeschi, che non invieranno tempestivamente i rinforzi nella zona dell’attacco mantenendoli invece in difesa del Passo di Calais ancora per giorni.
Tornando ai preparativi, nel mese di marzo del 1944 lo SHAEF giunse a inquadrare 750 ufficiali e 6.000 tra militari di altri gradi e tecnici. Al momento previsto tutto fu pronto per l’invasione, senonché, alla vigilia dell’avvio dell’operazione, un’improvvisa tempesta di eccezionale violenza si scatenò sul canale della Manica sconvolgendo i piani degli Alleati, che furono così costretti a rinviare Overlord. I convogli che nel frattempo erano già salpati dai porti d’imbarco in Inghilterra vennero richiamati indietro in attesa di una miglioramento delle condizioni meteorologiche. Le previsioni indicarono una finestra utile delle durata di un solo giorno tra il 5 e il 6 di giugno, poi il maltempo sarebbe ripreso, con i fortunali a spazzare quel braccio di mare tra le isole britanniche e la Francia. Di conseguenza il D-Day venne fissato per martedì 6 giugno. (⁸)
Note
(¹) Non pochi storici collegano le decisioni prese dai capi alleati nell’inverno 1943 a Teheran al futuro dominio politico di Stalin su parte dell’Europa liberata dall’occupazione nazista, considerando la successiva Conferenza di Yalta, che avrebbe avuto luogo quattordici mesi dopo quella di Teheran, come una logica conseguenza di quest’ultima.
(²) Come al solito Stalin non si nascose dietro a un dito e replicò seccamente a Churchill che se erano venuti a Teheran per discutere di questioni militari, Mosca avrebbe considerato fra tutte l’operazione Overlord come la più importante e decisiva.
(³) È interessante rilevare come nel secondo dopoguerra anche la NATO abbia fatto ricorso a una soluzione del genere, realizzando un oleodotto militare (in questo caso sulla terraferma) destinato a rifornire le sue principali basi aeree in Francia orientale, Belgio, Olanda e Germania Ovest ponendole in collegamento diretto con le grandi raffinerie e i porti di Marsiglia, Le Havre, Dunquerque, Anversa e Rotterdam. Il CEPS (Central Europe Pipeline System), realizzato a partire dai primi anni Cinquanta, coordinato in seguito dalla CEOA (Central Europe Operating Agency), svolse questa fondamentale funzione, predisponendo (anche per le forze terrestri) grandi depositi per soddisfare le forti richieste di carburanti nei primissimi giorni di combattimento in un’eventuale conflitto col Patto di Varsavia.
(⁴) In particolare, si fece credere ai tedeschi che il FUSAG fosse stato concentrato in una zona presso i porti d’imbarco sulla costa inglese più vicina a quella francese, dunque nel punto più adatto e prevedibile per uno sbarco al Passo di Calais, questo mentre non lontano (nell’Inghilterra orientale) furono approntate false piste di decollo dove furono sistemati dei simulacri di velivoli militari.
(⁵) Allo scopo di avvalorare in termini di credibilità questa ipotesi, all’operazione Fortitude Nord venne parallelamente associata un’attività di negoziato politico con la neutrale Svezia finalizzata al ricevimento da parte di Londra di concessioni utili a una sua eventuale invasione del territorio norvegese sotto occupazione tedesca. Si trattò dell’operazione Graffham, pianificata ed eseguita dall’intelligence di Londra senza il coinvolgimento di Washington, che però non ebbe un impatto rilevante sugli sviluppi della strategia tedesca in Scandinavia.
(⁶) Un esempio di questo venne fornito nel corso dei combattimento per il possesso della cittadina di Saint-Lô, quando i tedeschi del II Corpo paracadutisti e del LXXXIV Corpo d’armata sottolinearono ripetutamente al comando della VII Armata dal quale dipendevano, l’impossibilità di sostenere e arrestare un’ulteriore offensiva americana in quello strategico settore del fronte.
(⁷) Nella loro attività di raccolta di informazioni nella Francia occupata dai tedeschi, i servizi segreti alleati si avvalsero anche della preziosa collaborazione della Resistenza francese (maquis), che, oltre a coordinare alcuni sabotaggi e azioni utili al successo dello sbarco in Normandia, in particolare fornì informazioni sulle difese del Vallo Atlantico. Alcuni gruppi della Resistenza presero direttamente ordini dallo Special Operation Executive britannico, che paracadutò in Francia il suo primo ufficiale di collegamento coi partigiani nel maggio del 1941.
(⁸) Due giorni prima, il 4 giugno 1944, a seguito del ritiro delle truppe tedesche da Roma, gli Alleati avevano fatto ingresso nella capitale italiana liberandola da un’occupazione che durava dal settembre dell’anno precedente.
Le difese tedesche e i piani degli Alleati
Con l’apertura di un nuovo fronte nella Francia settentrionale per gli Alleati si sarebbe profilata una vittoria scontata? Non del tutto. Nei mesi che precedettero lo sbarco la Wehrmacht era ancora una forza di tutto rispetto che poteva fare affidamento su 314 divisioni tedesche (delle quali 47 corazzate) e su altre 66 divisioni fornite dai paesi che in quel momento erano alleati del III Reich. È vero, il grosso delle armate di Hitler erano impegnate sul fronte orientale nella guerra contro l’Armata rossa sovietica, ma in ogni caso Berlino riusciva a schierare a difesa della Francia 61 divisioni, un possente dispositivo che, se ben coordinato e condotto sul campo da comandanti validi, avrebbe potuto respingere l’attesa invasione angloamericana. In più, da qualche tempo il Führer aveva incaricato il feldmaresciallo Rommel, la celebre volpe del deserto, di supervisionare ed eventualmente modificare nel senso del potenziamento le difese del Vallo Atlantico nel settore costiero settentrionale francese. Rommel non perse tempo e, tra il mese di gennaio e quello di giugno del 1944, fece realizzare delle ulteriori difese improvvisate che conferirono una maggiore efficacia alle schiere di quelle già esistenti.
Rommel, ma anche von Rundstedt, due alti ufficiali tedeschi che ricorreranno spesso nelle ricostruzioni degli storici che in seguito avrebbero scritto sulla battaglia di Normandia. Rommel e von Rundstedt, due valenti generali, comandante del Gruppo Armate B il primo e dell’OB West il secondo, due figure diverse in possesso di temperamenti, formazione e visioni strategiche diverse. Rommel e von Rundstedt, che con le loro contrastanti strategie difensive in parte influirono negativamente sugli sviluppi della situazione sul terreno. Ma in cosa divergevano i loro piani?
Intanto, va rilevato che l’alto comando tedesco non aveva elaborato un unico piano strategico destinato alla difesa della costa settentrionale francese da uno sbarco anfibio nemico, inoltre, nella pianificazione militare della Wehrmacht l’ultima parola spesso era quella di Hitler, comandante in capo di tutte le forze tedesche. Ma Hitler (a onore del vero indotto a ciò anche dalle analisi e dalle valutazioni dell’Abwehr formate anche sulla base delle attività di depistaggio poste in essere dagli Alleati) temeva un attacco nemico nella zona del Passo di Calais, ritenendolo il punto di penetrazione nel continente che avrebbe offerto agli angloamericani il percorso più breve per la penetrazione in territorio tedesco. (¹)
In questo quadro di incertezze e disinformazione si andò a inserire la profonda differenza di vedute dei due comandanti militari in Francia, ai quali molti storici oggi attribuiscono i deleteri effetti riflessi sui tempi di reazione all’attacco nemico delle difese tedesche, che, in effetti, almeno nelle prime ore dell’offensiva allaeta, manifestarono una certa lentezza.
Rommel, a ragione, dava per scontato il dominio dei cieli degli angloamericani e, a differenza del vecchio feldmaresciallo (nominalmente) suo superiore in quel teatro operativo, riteneva che le panzerdivisionen disponibili avrebbero dovuto essere schierate in prossimità della costa, mentre von Runstedt era invece convinto del fatto che le unità corazzate tedesche dovessero essere mantenute in riserva per un impiego seguito esclusivamente a seguito di un’attenta analisi della situazione maturata sul campo. Un orientamento che ispirò anche il generale von Schweppenburg, comandante del Panzergruppe West, in questo quindi sostenuto da von Rundstedt, che proponeva come soluzione migliore l’arretramento delle unità corazzate da lui dipendenti dalle zone costiere all’entroterra. Raggruppando i battaglioni carri – sosteneva – si sarebbe potuto contrastare con maggiore efficacia il nemico in avanzata e, quindi, respingerlo con un poderoso contrattacco. Egli, al pari di molti altri comandanti dell’arma corazzata tedesca, aveva tratto preziosi insegnamenti dalle esperienze di combattimento maturate in contesti analoghi dall’esercito tedesco, dove le unità corazzate erano riuscite a rallentare e a bloccare l’iniziativa dell’avversario. Era accaduto in Nordafrica e sul fonte italiano, dove dopo lo sbarco anfibio ad Anzio gli Alleati erano stati inchiodati per mesi prima di riuscire a entrare a Roma, città dalla quale, per altro, le truppe della Wehrmacht e delle SS si erano ritirate in buon ordine. (²)
Come è noto, di opposto avviso fu invece Rommel, anch’egli convinto di un probabile sbarco nemico nella zona del Passo di Calais, però fermamente contrario a una difesa mobile, che non riteneva fattibile a causa della preponderanza nemica in campo aereo. A suo avviso, l’unica maniera per respingere un’invasione dal mare sarebbe stata quella di bloccare lo sbarco sul nascere, sulle spiagge, impedendo in sostanza che l’invasione stessa si concretizzasse. A tale scopo esercitò ripetute pressioni su Berlino per ottenere che le divisioni corazzate tedesche venissero schierate a ridosso della costa e poste sotto il suo diretto comando. Egli avrebbe voluto concentrare nei pressi della linea costiera persino buona parte dei pezzi dell’artiglieria contraerea presenti inquel momento nel nord della Francia, in particolare i micidiali cannoni da 88 millimetri, che avevano dimostrato superlative capacità anche in funzione anticarro, ma in questo caso incontrò il deciso rifiuto del comandante in capo della Luftwaffe Göring, che gli negò il suo II Corpo Flak.
La disputa venne risolta d’autorità dal Führer, che “salomonicamente”, assegnò tre divisioni corazzate a ciascuno dei due feldmarescialli, imponendo però al solo von Rundstedt di consultarsi personalmente con lui per riceverne l’approvazione prima del loro impiego in battaglia. Ma dopo l’attacco nemico l’anziano feldmaresciallo non esiterà un istante a spostare le unità corazzate poste alle sue dipendenze nella direzione delle zone di sbarco alleate per far sì che esse si ricongiungessero con la 21ª Divisione corazzata del generale Feuchtinger, un ordine che però verrà successivamente annullato dal capo delle operazioni dell’Oberkommando der Wehrmacht, Generaloberst Alfred Jodl, ancora convinto che l’operazione alleata in Normandia altro non fosse che un diversivo. Quella riserva corazzata sarebbe stata poi spostata in direzione della costa soltanto a seguito di un’autorizzazione di Hitler, concessa dopo le insistenti richieste stavolta di Rommel.
Adesso è utile un breve esame dell’ordine di battaglia tedesco in Francia settentrionale nel 1944.
Dall’ObersterBefehlshaberder Wehrmacht (comandante in capo delle forze armate) Adolf Hitler si articolava l’intera filiera di comando militare tedesca, quindi il già citato Oberkommando der Wehrmacht (OKW – comando supremo delle forze armate), che al tempo vedeva ricoperta la carica di capo di stato maggiore dal feldmaresciallo Wilhelm Keitel e quella di responsabile delle operazioni dal Generaloberst Jodl. L’OKW aveva competenza su tutte le forze tedesche impegnate sui vari fronti di guerra a esclusione di quello orientale, dal dicembre del 1941 avocato a sé dallo stesso Hitler. Dall’OKW dipendeva quindi anche l’Oberbefelshaber West (noto anche come OB West), comando superiore competente sulle forze tedesche schierate in Francia, Olanda e Belgio. Comandante in capo dell’OB West dal maggio 1942 al 2 luglio 1944 fu von Rundstedt, sostituito poi dal feldmaresciallo von Kluge, che a sua volta avrebbe mantenuto l’incarico di comando fino al 18 agosto dello stesso anno, data nella quale lo cedette al parigrado Walther Model. Nel 1944, l’OB West risultava articolato su una forza arretrata e su due gruppi di armate formati da due armate ciascuno, con una riserva corazzata preposta alla difesa di Parigi. (³)
Il Gruppo Armate G si articolava a sua volta sulla I Armata (dislocata nei dipartimenti sudoccidentali) e sulla XIX Armata (dislocata nei dipartimenti costieri meridionali); dal Gruppo Armate B, invece, dipendevano la VII Armata (dislocata sulle coste della Bretagna e della Normandia) e la XIV Armata (dislocata sul resto della costa settentrionale francese fino alla città di Anversa, maggiore centro portuale del Belgio); infine c’era il Gruppo panzer occidentale, posto a difesa della zona della capitale francese. La Luftflotte 3, componente aerea schierata a difesa dello spazio aero della Francia occupata, che al 30 maggio del 1944 possedeva 497 velivoli da trasporto e combattimento, comprendente anche il III Corpo d’armata contraereo tedesco, dipendeva direttamente dall’Oberkommando der Luftwaffe di Berlino, cioè da Göring, che assegnò il comando delle forze aeree nell’area di competenza dell’OB West al feldmaresciallo Hugo Sperrle. Göring mantenne dirette competenze anche sul flusso di rifornimenti e sugli avvicendamenti di tutte le truppe della Luftwaffe schierate in Francia, comprese le unità Fallschirmjäger (paracadutisti), quelle aviotrasportate e quelle impiegate con varie funzioni a terra.
Dato il suo rapporto diretto con Hitler, risalente negli anni, Rommel, una volta ricevuta la nomina a capo del Gruppo Armate B (novembre 1943), si trovò nelle condizioni di scavalcare nella scala gerarchica il suo diretto superiore von Rundstedt, fatto che generò non pochi attriti, nonché riflessi negativi sulla linea di comando e la condotta delle operazioni sul campo, dato che alla fine per ragioni di praticità fu Rommel a guidare le manovre difensive. Lo stesso Rommel, nel marzo del 1944 riuscì a far trasferire sotto il suo comando anche tre delle sei divisioni corazzate che formavano il Panzergruppe West di von Schweppenburg, precedentemente poste sotto il comando di von Rundstedt, mentre le unità rimanenti, compreso il I Gruppo di armate panzer delle SS agli ordini dell’Obergruppenführer Sepp Dietrich, vennero destinate alla riserva dell’OKW e, quindi, non poterono essere spostate senza l’autorizzazione di Hitler se no per l’effettuazione di attività addestrative.
Per quanto concerne le numerose Divisioni statiche della Wehrmacht poste a difesa della fascia costiera della Francia settentrionale, va ricordato che si articolavano (oltre ai reparti di supporto e ai servizi) su due reggimenti a loro volta formati da quattro battaglioni di fanteria, due di soldati tedeschi e due di soldati di altre nazionalità provenienti dall’Est Europa, i cosiddetti Battaglioni Ost, che a tali divisioni risultavano aggregati.
A questo punto è doveroso fare brevemente cenno ai volontari dell’Est Europa, noti come Osttruppen. Fra tutti i volontari stranieri che durante la Seconda guerra mondiale presero le armi per combattere con il III Reich, i russi furono tra le etnie maggiormente avversate dai tedeschi. La causa di questo pregiudizio andava ricondotto ai precedenti storici, al conflitto fra il mondo germanico e quello slavo e ai conseguenti atavici timori che, in parte, contribuirono ad alimentare quelle teorie razziali che, nel tempo, si sarebbero poi andate radicando nelle coscienze popolari. Eppure, nel giugno del 1941, quando Hitler dette avvio all’operazione Barbarossa, nell’Unione Sovietica le famiglie russe e ucraine che avevano sofferto a causa delle sanguinose purghe staliniane, o dei drammatici anni seguiti alla Rivoluzione del 1917, erano moltissime. Si trattava dunque di un potenziale bacino di nemici dello Stato sovietico, tutti soggetti disposti a ingrossare le schiere della Wehrmacht o almeno a fiancheggiarle. Le terribili perdite inflitte ai tedeschi dall’Armata rossa durante la battaglia di Mosca, indussero i responsabili militari di Berlino ad accelerare l’arruolamento di volontari dell’Est europeo, tra questi anche quelli di origine russa. Tra il 1942 e il 1943, il generale Andrej Vlassov (eroe dell’Unione Sovietica che defezionò passando ai tedeschi dopo la sua cattura avvenuta presso le paludi del Volkov), unitamente ad altri fuoriusciti russi come Sergej Ivanov, venne impegnato in una campagna di propaganda nei vari campi di concentramento allo scopo di indurre i prigionieri russi ad arruolarsi nelle unità di collaborazionisti inquadrate nella Wehrmacht. Attraverso tale sistema, Berlino fu in grado di costituire una cinquantina di battaglioni Osttruppen formati con personale di nazionalità russa, non pochi dei quali posti a disposizione dei comandanti tedeschi locali nelle varie zone di occupazione in Europa. (⁴)
Parte di questi battaglioni furono in seguito aggregati alle divisioni statiche schierate lungo il Vallo Atlantico sulla costa della Francia settentrionale. Tra queste unità (formata però non da russi ma da cosacchi) una merita menzione particolare, si tratta del I/82° Squadrone cosacco, reparto originariamente comandato dal capitano Zagorodnij che nel 1944 venne completamente distrutto dagli americani nel corso della battaglia di Saint-Lô e del quale è interessante ripercorrerne la drammatica esistenza. (⁵)
Quando in Russia, nell’estate del 1942, tra le linee del 40° Panzerkorps si pose con impellenza il problema della scorta nelle retrovie dei soldati dell’Armata rossa che erano stati catturati, il comando di quell’unità tedesca decise di costituire e organizzare un reparto formato da cosacchi cui affidare la massa semi-incontrollata dei russi fatti prigionieri che, in quei giorni, si aggiravano a ridosso della linea del fronte. Una volta conferito loro l’incarico, tra gli ufficiali della Wehrmacht nessuno si sarebbe mai aspettato di rivedere più quei cosacchi e, comunque, anche se poi si fossero dileguati, per loro in ogni caso sarebbe stato risolto il gravoso problema dell’allontanamento di quei russi da lì. Invece, con loro grande sorpresa, in settembre lo squadrone cosacco si ripresentò accresciuto negli effettivi al comando del corpo d’armata. I tedeschi sottoposero allora questa strana formazione paramilitare a un periodo di ulteriore addestramento, trasformandola da “banda” in vero e proprio squadrone, il I/82 cosacco, appunto, che presto iniziò a operare al fianco delle unità della Wehrmacht sul fronte orientale, dove rimase fino al maggio del 1944, data del suo trasferimento in Normandia, dove sarebbe stato impiegato nel contrasto dell’attacco alleato. È bene notare che non necessariamente fra i battaglioni “Ost”, quelli classificati come “russisch” erano nella realtà formati da personale russo, dato che frequentemente numerosi reparti del genere furono così definiti a causa dalla carenza di informazioni precise riguardo all’appartenenza etnica degli effettivi e anche per la consuetudine di definire russi tutti gli abitanti dell’Impero russo prima e dell’Unione Sovietica poi. Infatti, molti di questi battaglioni inquadrarono personale di origini ucraine, bielorusse e di altre etnie.
Veniamo adesso agli Alleati. Come accennato, questi ultimi nel corso della pianificazione di Overlord lavorarono molto sul luogo dello sbarco, sia nel quadro della definizione di una porzione della costa settentrionale francese che presentasse caratteristiche il più possibili ottimali per il buon fine di un’operazione anfibia di quella portata, sia in quello dell’approntamento di falsi obiettivi da propinare all’intelligence del nemico. In tal senso, il Passo di Calais (noto anche come stretto di Dover) rappresentava certamente il percorso più breve tra la costa inglese e quella francese, ma il problema in quel caso era costituito dall’ovvia predisposizione sulla sponda continentale dello stretto di imponenti difese da parte tedesca, un segmento del Vallo Atlantico presidiato dalle diciassette divisioni della XV Armata del generale von Solmuth. Al COSSAC si presentò allora l’alternativa della Normandia, una regione dove i tedeschi non si aspettavano uno sbarco in forze e che quindi non avevano munito di difese eccessivamente possenti, guarnendo la zona costiera e il suo immediato entroterra “soltanto” delle undici divisioni al comando del Generaloberst Friederich Dollmann. Inoltre, la superiorità aerea sia diurna che notturna sarebbe stata decisiva ed essa andava conseguita e mantenuta per tutto il corso dei combattimenti, perché l’interdizione dal cielo del campo di battaglia alle forze terrestri nemiche avrebbe costituito il fattore determinante del successo alleato. Cassata l’ipotesi inizialmente prevista nei piani di attacco redatti dal maresciallo dell’aria Leigh-Mallory, Eisenhower si vide costretto a mediare fra il capo della forza aerea alleata da una parte e il Comando bombardieri della RAF e l’VIII Flotta aerea statunitense dall’altra, ottenendo alla fine un effettivo controllo sui bombardieri pesanti, apparecchi che sarebbero quindi stati impiegati nei cieli francesi nel corso di Overlord. (⁶) (⁷)
Fu Montgomery, in qualità di comandante delle forze terrestri alleate, a elaborare i piani dell’offensiva, prevedendo lo sbarco dei soldati di Sua Maestà britannica nel settore orientale della Normandia e quello degli americani in quello occidentale. Le unità del Royal Arms sarebbero poi avanzate in profondità nel territorio francese puntando verso la piana di Caen-Falaise, un luogo nevralgico, dato che era in grado di offrire alle forze appena sbarcate un piccolo approdo per le loro imbarcazioni. Ma alla base della scelta di quella zona risiedevano anche altre considerazioni, espressione di fini menti di strateghi: un’avanzata delle truppe di Londra in direzione del capoluogo del Dipartimento del Calvados avrebbe potuto indurre i tedeschi a ritenere che intendessero penetrare nell’entroterra normanno per aprirsi da subito una direttrice per Parigi sfruttando ai fianchi e sulla retroguardia la copertura fornita dalle unità dell’US Army. A questo punto, se l’OB West di von Rundstedt fosse caduto nell’inganno, secondo logica avrebbe dovuto rinforzare quel settore del fronte, sguarnendo però gli altri a occidente, dove contestualmente, invece, gli americani avrebbero attaccato cercando di conquistare terreno allo scopo di assicurarsi nel più breve tempo possibile il controllo degli importanti porti della Bretagna. Ma, se alla fine così fosse veramente andata, di seguito l’intero complesso delle forze alleate avrebbe potuto formare un ampio fronte che avrebbe precluso alla Wehrmacht ogni possibilità di contrattaccare sul fianco e questo avrebbe significato puntare verso oriente, su Parigi e la Germania.
La struttura di comando alleata, che rinveniva il suo vertice nel Supreme Headquarters Allied Expeditionary Forces (SHAEF), si articolava sulle tre classiche componenti: navale, aerea e terrestre. La prima, posta sotto il comando dell’ammiraglio Bertrand Ramsey, era formata dalla forza di spedizione navale della Royal Navy britannica, dalla US Navy statunitense e da altre unità delle marine alleate di Canada, Norvegia, Francia e Polonia. Le forze aeree al comando di Leigh-Mallory erano formate da due componenti tattiche annoveranti principalmente velivoli per la caccia e il bombardamento: la II Flotta aerea tattica della RAF comandata dal generale Conigham e la IX Flotta aerea dell’USAAF al comando del generale Brereton; erano inoltre disponibili ulteriori forze, che avrebbero potuto trovare eventuale impiego nel teatro bellico francese per l’intera durata dell’operazione Overlord. Per quanto concerneva la RAF, esse erano l’ex Comando caccia preposto alla difesa dello spazio aereo delle isole britanniche, i comandi costieri e di trasporto e il noto Comando bombardieri (o bombardieri strategici), mentre Washington schierava la sua VIII Flotta aerea. Per quanto riguardava invece lo strumento terrestre, nella sua fase iniziale, cioè durante lo scaglionamento boots on ground delle varie aliquote della forza da sbarco, denominata XXI Gruppo di armate, il comando di tutte le operazioni in Normandia venne assegnato al generale Montgomery e questo, come si avrà modo di vedere, genererà alcuni problemi di collegamento indebolendo di conseguenza la funzionalità della catena di comando. (⁸)
Il XXI Gruppo di armate si articolava a sua volta sulla I Armata statunitense del generale Bradley e sulla II Armata britannica del generale Dempsey. La prima, una volta raggiunte dimensioni sufficienti grazie all’afflusso in territorio francese delle divisioni dell’US Army nel frattempo sbarcate, si sarebbe separata dalla grande unità di Montgomery per unirsi alla neo costituita III Armata statunitense di Patton, andando così a formare il XII Gruppo di armate, il cui comando sarebbe stato assunto dallo stesso Bradley, mentre, contestualmente a tale trasformazione, la I Armata canadese si sarebbe unita alla II britannica. Un passaggio cruciale questo, che avrebbe segnato il transito del comando dell’intero dispositivo terrestre alleato nelle mani del generale Eisenhower, che da quel momento avrebbe condotto in battaglia i due gruppi di armate dello SHAEF.
Allo SHAEF si prevedeva di raggiungere la Senna in tre mesi e di concludere vittoriosamente la guerra entro la primavera seguente. Ma il D-Day subì un ulteriore rinvio, stavolta di breve durata e non causato da questioni politiche o tecniche ma dalle avverse condizioni meteorologiche: l’operazione Overlord avrebbe avuto inizio il 6 di giugno. Quel giorno Rommel non si sarebbe trovato in Normandia, ma in Germania, nella sua villa di Herrlingen a festeggiare il compleanno della moglie; neppure gli ufficiali tedeschi di grado superiore che, al comando di von Runstedt, erano stati preposti alla difesa della Francia settentrionale si trovarono al loro posto. Depistati dall’intelligence alleata erano a Rennes per svolgere un’esercitazione “per quadri” avente a tema proprio l’eventuale, ma soltanto ipotetico, sbarco nel settore costiero della Normandia. Per gli Alleati la situazione non si sarebbe potuta presentare in maniera migliore.
Note
(¹) L’Abwehr era il servizio informazioni militare tedesco. L’organismo, che aveva sede a Berlino ed era diretto dall’ammiraglio Canaris, risultava organizzato su cinque sezioni: Sezione 1, competente per le informazioni e lo spionaggio (Geheimer Meldedienst), era formata dalle sottosezioni dell’esercito, della marina e dell’aeronautica oltreché da altri cinque gruppi d’intelligence; la Sezione 2 aveva competenza sulle attività di sabotaggio; la Sezione 3 sul controspionaggio; la Sezione 4 sulle informazioni dall’estero; la Sezione 5 sulle informazioni centrali. Nel 1939 il suo organico ammontava a circa 18.000 funzionari e a parecchie decine di migliaia di informatori, spesso occasionali, detti V-Mann (Vertrauen Mann).
(²) Nei fatti la presa di Roma, impresa che i comandi alleati ritenevano possibile per il mese di novembre del 1943, non fu possibile prima del 4 giugno del 1944.
(³) A seguito dell’occupazione militare tedesca nel 1940, parte del territorio metropolitano francese si trovò sotto il controllo dello stato collaborazionista di Vichy del maresciallo Pétain.
(⁴) La massa di prigionieri sovietici catturati sul fronte orientale fornì ai tedeschi un potenziale notevole di volontari, ma la miope politica di Hitler nei riguardi di queste persone, ispirata dal pregiudizio razziale, impedì alla Wehrmacht di sfruttare al meglio questa opportunità.
(⁵) Di soldati russi appartenenti ai battaglioni “Ost ” era formata anche l’eterogenea guarnigione dell’isola fortificata di Cezembre, posta a difesa del porto bretone di Saint-Malò, che resistette a oltranza all’assedio delle forze statunitense per molti giorni dopo l’avvenuta capitolazione delle forze tedesche sulla terraferma.
(⁶) Il piano di Leigh-Mallory prevedeva il massiccio attacco al sistema di trasporto ferroviario e stradale francese attraverso l’impiego di tutti i velivoli in quel momento disponibili, questo al fine di limitare la mobilità terrestre delle truppe nemiche impegnando al contempo la Luftflotte 3 in una battaglia di logoramento.
(⁷) Nel corso della fase prodromica allo sbarco anfibio, cioè nel periodo compreso tra il 9 febbraio e il 6 giugno del 1944, la forza aerea di spedizione alleata fu impegnata in quasi 22.000 missioni. I suoi velivoli sganciarono oltre 76.000 tonnellate di bombe su circa 800 obiettivi situati sul sul territorio francese occupato dai tedeschi, individuati in via principale nelle infrastrutture della rete dei trasporti.
(⁸) Alcuni storici attribuiscono al particolare modo di condurre la guerra di Montgomery, in particolare a come egli si interfacciò con lo SHAEF, la causa del relativo indebolimento della catena di comando alleata nel corso dell’operazione Overlord. Il gap nei collegamenti fra Eisenhower e il quartier generale della XXI Armata conobbe un picco al momento in cui il generale britannico poté operare autonomamente lontano dall’Inghilterra, concentrandosi sulle operazioni evitando di prestare eccessiva attenzione ai suoi superiori oltre Manica, comportamento che fu alla base di numerosi equivoci. Inoltre va aggiunto che Montgomery non stimava affatto Eisenhower come stratega, pur riconoscendo a quest’ultimo delle spiccate qualità in campo militare.
Operazione Overlord
D-Day: lo sbarco anfibio del 6 giugno 1944
Il 6 giugno del 1944 le condizioni meteorologiche indussero i tedeschi a escludere per quel giorno un tentativo nemico di attraversamento in forze del canale della Manica. Ma, alle prime luci dell’alba, i militari della Wehrmacht appostati lungo la costa del Calvados, nella regione della Bassa Normandia, videro avvicinarsi una moltitudine di navi di diverso tipo e dimensione. Era l’inizio dell’invasione alleata della Francia, l’apertura di quel tanto atteso secondo fronte in Europa occidentale.
Nel loro complesso, le operazioni di sbarco si sarebbero sviluppate in un’area suddivisa in cinque settori a ciascuno dei quali era stata assegnata una denominazione in codice; il più occidentale di questi fu la spiaggia Utah e, a seguire procedendo verso oriente le spiagge Omaha, Gold, Juno e Sword. Nei primi due settori presero terra le truppe statunitensi, gli altri tre furono invece di competenza delle forze britanniche e canadesi. Nella stessa serata del 6, le forze alleate al comando di Eisenhower conseguirono la quasi totalità degli obiettivi prefissati in sede di pianificazione, a eccezione delle città di Bayeux e Caen. A partire dalle primissime ore del mattino vennero sbarcati in territorio francese oltre 132.000 soldati, ai quali andavano aggiunti gli ulteriori 22.000 uomini paracadutati o aviotrasportati mediante alianti nelle due zone operative di Saint-Mère-Église (statunitensi) e Caen (britannici). Le perdite registrate nel primo giorno di guerra dopo lo sbarco ammonteranno a circa 2.500 caduti e 9.000 feriti, oltre a un migliaio di dispersi. A conti fatti, per gli Alleati si sarebbe trattato di un consuntivo accettabile, in quanto erano cifre ritenute sensibilmente inferiori a quelle stimate nel corso della pianificazione di Overlord.
Con gli aviolanci dei paracadutisti britannici e statunitensi presero dunque avvio le operazioni terrestri in Normandia. I ricognitori appartenenti alle forze speciali alleate, che in precedenza si erano infiltrati alle spalle della fascia costiera presidiata dai tedeschi, segnalarono le zone di lancio alle unità aviotrasportate amiche decollate dagli aeroporti dell’Inghilterra, queste ultime avrebbero poi coperto i fianchi al grosso della forza durante lo sbarco anfibio. Le Divisioni aviotrasportate americane 101ª (nota anche come Screaming Eagles, al comando del generale Maxwell D. Taylor) e l’82ª (al comando del generale Matthew Ridgway) presero terra nelle zone di Ste-Mère-Église e Ste-Mère-du Mont nella penisola del Cotentin con l’obiettivo primario di tagliare in due la strada costiera che collegava Cherbourg con Carentan, onde impedire ai tedeschi di portare rinforzi dalla città portuale alle unità della difesa costiera sotto attacco, minacciando così la riuscita dello sbarco alleato; successivamente, entrambe le divisioni avrebbero appoggiato la 4a. Divisione di fanteria nel frattempo sbarcata sulla spiaggia Utah, cioè nel settore compreso tra La Dune de Valleville La Madelaine, sulla costa orientale del Cotentin. (¹)
Ma, tra gli obiettivi delle divisioni aerotrasportate americane figurava anche quello dell’apertura e del mantenimento in condizioni di praticabilità di un corridoio da utilizzare nell’eventualità di un fallimento dell’operazione, cioè per il ritiro delle unità sbarcate qualora il nemico le avesse ricacciate in mare con un contrattacco.
Con un colpo di mano nella notte, poco prima dell’una i parà britannici della 6ª Divisione si impossessarono dei ponti sul fiume Orne e dei passaggi sul canale di Caen. Si trattava del noto ponte Pegasus, fondamentale per l’interdizione del movimento delle unità nemiche inviate in rincalzo alla prima linea costiera al momento dell’attacco.
Tra l’una e un quarto e le due meno dieci ebbero luogo i principali lanci di paracadutisti; dati gli elevati rischi di fallibilità di questo genere di attività in zone non perfettamente conosciute, quello effettuato nel corso dell’operazione Overlord sarebbe stato l’ultimo lancio di massa in notturna del conflitto. Infatti, numerosi militari che si erano perduti nella campagna francese impiegarono ore, se non addirittura giorni, per radunarsi e ritrovare la propria unità di appartenenza. In ogni caso, alle cinque gli uomini dell’82ª Airborne Division conquistarono il villaggio di Saint-Mère-Église, mentre nello stesso momento veniva messa fuori combattimento la batteria costiera di Merville.
Alle tre, quindi due ore dopo la presa di terra dei primi elementi delle forze speciali inviate in ricognizione, ebbe inizio il pesante bombardamento aereo preliminare sulle difese tedesche nella zona prevista per lo sbarco. Esso venne poi seguito da un fitto cannoneggiamento dal mare da parte delle unità navali che accompagnavano la flotta d’invasione. I massicci attacchi dal cielo sferrati dall’USAAF e dalla RAF sulle unità di rinforzo tedesche in movimento verso il fronte della Normandia si riveleranno determinanti, in quanto porteranno alla distruzione di una notevole quantità di sistemi d’arma e di materiali del nemico, infliggendo ai tedeschi perdite non indifferenti in termini umani sia fra la truppa che nei comandi, con l’effetto di rallentare le divisioni panzer schierate in posizione arretrata rispetto alla costa. Alle cinque e mezza gli americani sbarcarono sull’isola di Saint-Marcouf; alle sei il comando della VII Armata tedesca ricevette la notizia del massiccio bombardamento; alle sei e trenta iniziò lo sbarco sulle spiagge Utah e Omaha.
Le operazioni alleate furono sostanzialmente incontrastate, in quanto la Luftflotte 3 non era in grado di effettuare missioni in sostegno alle forze tedesche presenti nelle regioni settentrionali francesi; i piloti della Luftwaffe, pur motivati e bene addestrati, riuscirono a effettuare solo il 10% dei voli rispetto al nemico, quindi in pratica senza interferire sull’esito delle operazioni terrestri. Per quanto concerne la Kriegsmarine, va rilevato che essa non fu assolutamente nelle condizioni di opporsi a un dispositivo navale a tal punto poderoso come quello che gli Alleati inviarono nel canale della Manica. Alla luce di questa situazione le poche flottiglie tedesche disponibili in zona contrastarono il nemico come poterono e, animati da coraggio e spinti dalla forza della disperazione, gli equipaggi si sacrificarono fino alla fine. Le sproporzioni erano evidenti: nel suo complesso, l’invasione alleata della Normandia venne appoggiata da sette navi da battaglia, ventitré incrociatori, oltre cento cacciatorpediniere e più di mille unità da guerra di altro tipo. Vediamo come andarono i fatti.
La prima unità della Kriegsmarine a intervenire fu la 5ª Flottiglia torpediniere, che già nella notte fra il 5 e il 6 giugno lanciò contro il nemico le vecchie torpediniere Möve, Jaguar e Falke contro i bersagli precedentemente rilevati dal radiolocalizzatore nella Manica situato a largo di Le Havre, bersagli che solo con le prime luci dell’alba si rivelarono essere una parte della mastodontica flotta da sbarco angloamericana. Le torpediniere tedesche attaccarono la formazione avversaria, ma coi loro siluri riuscirono a colpire soltanto il cacciatorpediniere Svenner. A questo punto, costretta dal soverchiante volume di fuoco erogato dalle navi nemiche, la flottiglia ripiegò. Si sarebbe nuovamente battuta la notte seguente, dapprima con i siluri, poi, una volta esauriti questi, con i cannoni da 105 millimetri. Quelle due notti per attaccare la flotta nemica dai porti di Cherbourg e di Le Havre salparono anche le piccole unità della 4ª, 5ª e 9ª Flottiglia motosiluranti, che riuscirono ad affondare alcuni cacciatorpediniere e dei mezzi da sbarco. In seguito, a sbarco ormai avvenuto, quando le truppe alleate avevano ormai consolidato le loro posizioni sul terreno, nel corso della notte sul 15 giugno centinaia di quadrimotori bombardarono duramente la base navale di Le Havre, affondando agli ormeggi più di trenta unità tedesche. Di tutte quelle presenti soltanto una riuscì a riparare in Germania. Il tentativo effettuato dalle ultime cacciatorpediniere ancora operative a quell’epoca nel teatro bellico occidentale per avvicinarsi alla zona di sbarco fallì. Nella notte sul 9 giugno, la VIII Flottiglia prese il mare a Brest per cercare di spingersi almeno fino a Cherbourg, incappando però in otto cacciatorpediniere della Royal Navy e, nel combattimento notturno durato alcune ore, due unità della Kriegsmarine vennero distrutte dai britannici. Neppure i sommergibili registrarono successi, la capillare sorveglianza antisom alleata in quel ristretto braccio di mare impedì agli U-Boote di recare danni di rilievo alla flotta d’invasione nemica. La marina del III Reich alla fine fu costretta a gettare in battaglia le ultime forze residue: siluri e barchini esplosivi guidati da “uomini rana”. I successi conseguiti nella sorpresa generale dei loro iniziali assalti da questi ardimentosi marinai rappresentarono il canto del cigno della Kriegsmarine nelle acque francesi e olandesi: per l’arma dell’ammiraglio Doenitz l’epilogo si sarebbe consumato di lì a poco ma altrove, nel Baltico, ultimo mare dove i tedeschi avrebbero combattuto ancora una volta prima della disfatta.
Ora torniamo indietro al primo mattino di quel 6 giugno 1944, il D-Day. Come accennato in precedenza, alle sei e trenta circa iniziò lo sbarco del contingente americano sulle spiagge Utah e Omaha. Della prima si è detto, della seconda invece, estesa tra punta Hoc e Port-en Bessin nel Calvados occidentale, luogo dove prese terra la 1ª Divisione di fanteria, va rilevato che fu teatro di aspri combattimenti: mentre nello stesso momento le truppe sbarcate a Utah iniziarono a procedere vero l’entroterra senza incontrare eccessive resistenze, ad Omaha la prima ondata di sbarco venne inchiodata dai tedeschi sul bagnasciuga. I Ranger assaltarono la batteria costiera di Pont du Hoc e soltanto mezz’ora dopo lo sbarco i soldati americani riuscirono a cominciare la risalita della scarpata dominante la spiaggia. L’ordine d’attacco prevedeva lo sbarco della 50ª Divisione britannica sulla spiaggia Gold (settore tra Arromanches e il fiume Seulles), della 3ª Divisione di fanteria canadese sulla spiaggia Juno (area prospicente Courseulles-sur-Mer) e della 3ª Divisione di fanteria britannica sulla spiaggia Sword, settore intercorrente fra Lion-sur-Mer e il fiume Orne, da dove avrebbe ricevuto l’appoggio dei parà della 6a. Divisione aviotrasportata guidata dal generale Richard Nelson Gale.
Alle nove il comando del LXXXIV Corpo tedesco ricevette l’informazione che uno sbarco nemico era in corso; circa mezz’ora più tardi la stessa notizia veniva comunicata dallo SHAEF alla stampa: ormai la testa di ponte alleata era stata estesa per un miglio nell’entroterra francese e i britannici avevano occupato il villaggio di Hermanville. Nonostante gli sbarchi fossero una realtà, von Rundstedt continuò ancora a essere convinto che si trattasse di un’azione diversiva studiata dal nemico per coprire l’imminente invasione vera e propria che, riteneva il comandante tedesco, avrebbe avuto luogo altrove, nella zona del Passo di Calais. Dal canto suo Rommel il quel momento era molto distante dalla costa normanna, si trovava in Svevia dal giorno 4 giugno, in breve licenza a Herrlingen per festeggiare il compleanno della moglie. Non era la prima volta che la volpe del deserto risultava assente dalla linea del fronte in un momento cruciale, infatti questo era già successo nel dicembre del 1941 in Africa settentrionale, quando Montgomery sferrò l’operazione “Crusader”. Sulle divergenze emerse in seno agli alti comandi della Wehrmacht si è già parlato, qui basterà rilevare solo che la confusa e mal coordinata risposta tedesca all’operazione anfibia alleata fu causata anche da un difettoso sistema di comando. Un’idea dell’incidenza di questo deficit sulle dinamiche si rinviene nella contraddittorietà degli ordini impartiti in quei frangenti alle Grandi Unità presenti nel teatro di operazioni: subito dopo la presa di terra delle prime aliquote di militari angloamericani, il comandante dell’OB West von Rundstedt dispose che le unità corazzate in riserva si dirigessero immediatamente verso le zone dello sbarco per unirsi alla 21ª Panzerdivision e contrastare il nemico nella fase in cui era più vulnerabile, quella dell’inizio della costituzione della testa di ponte, ma i suoi ordini vennero annullati dal Capo delle Operazioni della Wehrmacht, il generaloberst Alfred Jodl. In quel momento cruciale a Berlino ritenevano ancora che l’attacco in Normandia altro non fosse che un’azione diversiva e, soltanto a seguito delle insistenti richieste del feldmaresciallo Rommel, figura nella quale Hitler riponeva fiducia, venne concessa l’autorizzazione allo spostamento di quelle fondamentali unità corazzate verso la costa.
Fino a quel momento lo sbarco di uomini e mezzi era stato reso difficoltoso dal mare mosso che ostacolava il mantenimento di una rotta lineare alle unità della marina, fatto che in parte vanificava la scelta degli americani di iniziare a sbarcare le loro truppe un’ora prima dei britannici proprio per evitare al massimo gli ostacoli sommersi avvantaggiandosi della bassa marea. Gli uomini della 1ª Armata statunitense che approdarono in Normandia ebbero destini differenti a seconda della zona in cui presero terra. I 23.000 soldati appartenenti alla 4ª e alla 90ª Divisione di fanteria, supportati da unità Ranger, che sbarcarono sulla spiaggia Utah incontrarono molte minori difficoltà rispetto a quelli della 1ª e della 29ª appartenenti al 5° Corpo sbarcati ad Omaha. Infatti, i primi per errore si inoltrarono in una zona diversa da quella prevista scontrandosi con delle difese nemiche incapaci di opporgli un eccessivo contrasto, col risultato che il dispositivo tedesco venne presto sbaragliato e le perdite americane furono ridotte nel numero. Utah, spiaggia più occidentale del fronte di sbarco situata sulla penisola del Cotentin, offriva un accesso diretto a una piana paludosa priva di ripari che era stata preventivamente allagata dai tedeschi per ostacolare il nemico nei suoi movimenti esponendo contestualmente al fuoco. La 4ª Divisione del 7° Corpo statunitense si sarebbe poi ricongiunta alle due divisioni aviotrasportate che nel frattempo stavano assumendo il controllo dei fianchi dello schieramento, inibendo ai tedeschi le vie di passaggio. Invece ad Omaha andò diversamente: il 2° e il 5° Battaglione Ranger assaltarono la batteria costiera di Point du Hoc, che però non era dotata di pezzi di artiglieria, ma le unità di fanteria appena sbarcate si trovarono sotto l’intenso fuoco erogato dalle postazioni tedesche che dominavano la spiaggia dall’alta scogliera. I pezzi da ottantotto millimetri delle batterie schierate sulla costa si rivelarono estremamente efficaci nei confronti dei tank americani che erano riusciti a sbarcare malgrado le avverse condimeteo e gli ostacoli sommersi. Gli americani persero in mare numerosi loro mezzi corazzati a causa del maltempo, quindi si trovarono privi del supporto dei carri armati e del genio già prima di prendere terra. Ma per loro non fu l’unico problema, dato che vennero ingaggiati da un numero di unità nemiche maggiore rispetto a quello previsto nei piani sulla base delle rilevazioni dell’intelligence. Oltre al 726° Reggimento granatieri tedesco si trovarono di fronte anche il 914° e il 916° Reggimento di fanteria, unità formate da veterani di altri fronti di guerra che erano sfuggite all’intelligence alleata. Il fuoco di sbarramento tedesco era impenetrabile e i soldati americani riuscirono a raggiungere la parte alta della scarpata soltanto alle dieci. La battaglia per Omaha durò fino alle prime ore del pomeriggio, quando a costo di rilevanti perdite e col sostegno del fuoco delle artiglierie navali la spiaggia venne conquistata. In ogni caso, alla fine di quella prima giornata di combattimenti in Normandia in quel settore gli americani riuscirono a penetrare nell’entroterra francese solo per due chilometri.
Sulle spiagge Gold e Juno, di competenza di britannici e canadesi, l’avanzata fu invece condotta più rapidamente e senza eccessivi contrattempi. Nel settore Gold, gli uomini della 50ª Divisione Northumberland, presa terra alle ore sette e venticinque, nonostante l’opposizione tedesca riuscirono a penetrare nell’entroterra per dieci chilometri; si trattava della testa del XXX Corpo d’armata britannico, un complesso formato dal 231° e dal 69° Gruppo brigate, da carri armati, unità d’artiglieria e commando. Nel settore Juno, preso possesso della zona di sbarco, i canadesi del 7° e 8° Gruppo brigate, supportati dai commandos della 4a. Brigata Special Services, si assicurarono il controllo dei villaggi costieri: dapprima di Corseulles e in seguito, alle undici e un quarto, anche di Saint-Aubin-sur-Mer. Nel settore Sword, quello più orientale, i britannici incontrarono invece seri problemi; i primi guai si manifestarono nelle forme del maltempo e dell’alta marea e provocarono rallentamenti nelle operazioni di sbarco e il ritardato intervento di parte dei corazzati che avrebbero dovuto fornire l’immediato supporto di fuoco alla fanteria e ai commandos. In seguito, dalle dieci e trenta, sulla direttrice per Caen dovettero fare i conti anche con la 21ª Panzerdivision del generale Edgar Feuchtinger, unità corazzata appartenente alla riserva del Gruppo Armate B inviata sul posto, che impedì loro l’immediata presa del capoluogo del Calvados. I sobborghi della cittadina di Bayeux sarebbero stati raggiunti solo verso la mezzanotte. Intorno a mezzogiorno i commandos britannici raggiunsero i ponti sul fiume Orne, rilevando i paracadutisti che li avevano presidiati fino a quel momento dopo averne preso il controllo nella notte; questo accadeva dopo che, all’incirca quindici minuti prima, nella zona di Caen si erano verificati i primi scontri fra carri armati. I britannici sbarcati nel settore Sword, seppure duramente contrastati, alla fine riuscirono comunque ad avanzare nell’entroterra.
Intorno alle tredici, anche nell’estremo settore occidentale della zona di operazioni avvenne il ricongiungimento tra forze aerotrasportate e fanteria. Fu presso il villaggio di Pouppeville, dove la 101ª Airborne Division prese contatto con la 4ª Divisione di fanteria precedentemente sbarcata a Utah. Mezz’ora dopo anche gli americani che avevano preso terra a Omaha riuscirono ad avanzare malgrado la strenua resistenza opposta dalla 352ª Divisione tedesca.
I combattimenti continuarono a infuriare per ore e dal pomeriggio l’attiva presenza in zona delle forze corazzate tedesche si fece sempre più consistente, in quanto la riserva del Gruppo Armate B rese disponibili la 12ª Panzerdivision SS Hitlerjugend e la Panzer-Lehr Division, unità che finalmente trovarono impiego sul campo di battaglia. Più o meno in quella fase della giornata, altri corazzati, ma stavolta americani, riuscivano a spostarsi dalla spiaggia Omaha e quindi a seguire la loro fanteria sostenendone la progressione.
Alle sedici e trenta la 21ª Panzerdivision ingaggiò la testa di ponte nemica nel settore Sword, provocando in un paio d’ore l’esaurimento dello slancio offensivo britannico in direzione di Caen. I tedeschi, però, non sfruttarono appieno i vantaggi offerti da quella manovra e di risulta non riuscirono a insinuarsi all’interno del varco rimasto aperto tra i settori Sword e Juno, colmato soltanto in seguito dagli Alleati, il giorno successivo, col ricongiungimento delle divisioni britanniche e canadesi. Il massiccio intervento delle forze corazzate tedesche in zona provocò comunque lo stallo del fronte, una situazione che sarebbe perdurata a lungo, infatti, attorno e dentro Caen si sarebbe continuato a combattere ancora per due mesi.
Per le prime ventiquattro ore dall’invasione gli Alleati prevedevano di occupare una striscia di terra in profondità nel territorio francese per dieci – quindici chilometri, cioè una testa di ponte che avrebbe dovuto comprendere a ovest la zona estesa dall’estuario del fiume Vire alla parte della penisola del Cotentin prospiciente Carentan, al centro dell’area di sbarco la città di Bayeux e a est quella di Caen, però nessuno di questi obiettivi venne conseguito. Ma quella sera un settore largo quindici chilometri separava ancora gli americani dai britannici, mentre un altro di cinque i britannici dai canadesi.
Nel 1944 Caen era l’unico centro urbano di rilievo che si trovava in prossimità della fascia costiera interessata dalle operazioni di sbarco; con le vicine acciaierie di Colombelles, distanti dalla città meno di tre chilometri, fu l’area dove Rommel concentrò le sue unità corazzate nel tentativo di fermare gli angloamericani. Ormai per la Wehrmacht non sarebbe stato più possibile ricacciare né intrappolare il nemico sulle spiagge da dove era arrivato, però bloccarlo sì: gli si poteva frapporre un’energica resistenza sulla direttrice per Parigi. Per questo il feldmaresciallo decise di impiegare le sue panzerdivisionen su quel terreno che così ben si prestava alla manovra e all’eventuale contrattacco. Egli si sarebbe confrontato per l’ennesima volta con lo stesso avversario che lo aveva sconfitto sulle infuocate sabbie africane: Montgomery. Ma per la volpe del deserto, purtroppo, quel cimento non sarebbe però durato a lungo.
Alla fine della giornata nella Francia settentrionale erano sbarcati quasi 133.000 militari, ai quali andavano aggiunti gli altri 22.000 aviotrasportati o lanciati per mezzo di 2.395 aerei e 867 alianti. Le perdite alleate ammontarono a circa 2.500 morti, 9.000 feriti e un migliaio di dispersi, mentre le stime relative alla parte tedesca oscillarono tra i 4.000 e i 9.000 militari caduti.
Note
(¹) Il controllo della base peninsulare e della cittadina di Carentan era stato affidato al 6° Fallschirmjäger Regiment, unità paracadutisti indipendente che, allo scopo specifico, era stata però aggregata alla 91ª Divisione aviotrasportata.
La difesa della testa di ponte
In questa seconda fase, quella cioè dei combattimenti intercorsi fra il 7 e il 17 giugno per la difesa alleata della testa di ponte stabilita in Normandia, si assistette al tentativo di arginamento da parte tedesca dell’avanzata delle forze angloamericane, che con diverse fortune a seconda dei settori del fronte, dopo lo sbarco erano penetrate nell’entroterra per alcuni chilometri.
Nel primo mattino del giorno 7, lo stizzoso e impermalito maresciallo Montgomery giunse in territorio francese per impiantare il quartier generale tattico del XXI Gruppo di Armate, questo mentre il vertice dello SHAEF, compreso il comandante Eisenhower, restava ancora in posizione arretrata nel sud dell’Inghilterra. Il vincitore della battaglia di el-Alamein dovette riscontrare il sostanziale fallimento del tentativo volto all’occupazione dell’importante nodo ferroviario e stradale di Caen, ma fu soltanto questo l’aspetto che lo turbò al momento del suo arrivo in continente, infatti dovette constatare sia lo stato psicologico certamente non ottimale delle sue truppe, sia la reale consistenza ed efficacia del dispositivo difensivo approntato dal nemico attorno alla città capoluogo del Calvados. Non va infatti dimenticato che, per il comando alleato, l’inesperienza dei soldati americani, unita all’inettitudine e allo scarso spirito combattivo manifestato, costituì una delle maggiori problematiche che gli si posero nel corso della battaglia di Normandia, al punto che, non infrequentemente, si dovette ricorrere alla sostituzione delle unità di fanteria con truppe tratte dalle due divisioni aerotrasportate presenti in teatro di operazioni. (¹)
Nonostante nella serata precedente le truppe americane e quelle britanniche si fossero ricongiunte e, nel frattempo, queste ultime nelle aree di operazione loro assegnate – cioè i settori Gold, Juno e Sword – avessero poi costituito un unico fronte, a Caen, seppure in maniera graduale a causa della lentezza dell’afflusso dei rinforzi, i tedeschi stavano però incrementando le loro forze. Alle due unità corazzate già presenti in zona, la 12a. Panzerdivision SS Hitlerjugend (al comando del Brigadeführer Kurt Meyer) e la Panzer-Lehr Division (al comando del generale Fritz Bayerlein), si aggiunse la 2a. Panzerdivision dell’esercito, questo mentre von Runstedt, autorizzato da Berlino, mosse altre due unità corazzate di punta delle Waffen SS, la 1a. Panzerdivision Leibstandarte Adolf Hitler (al comando del Brigadeführer Theodor Wisch), in quel momento tenuta in riserva nel Belgio, e la 2a. Panzerdivision Das Reich. Quest’ultima unità corazzata, precedentemente assegnata al Gruppo Armate G di stanza a Tolosa in previsione di uno sbarco nemico nel Sud della Francia, riuscì però a raggiungere la linea del fronte diciassette giorni dopo, quindi con un ritardo di una decina di giorni sul previsto a causa degli attacchi aerei degli angloamericani e dei sabotaggi effettuati dai partigiani del maquis. Fatto il punto della situazione, il giorno 8 di giugno Montgomery decise quindi di inviare una comunicazione al Ministero della Guerra di Londra nella quale sostenne l’opportunità di evitare uno scontro a “testa bassa” con un nemico che in quel momento stava facendo di tutto per mantenere il controllo di Caen. Meglio sarebbe stato – aggiunse in quella missiva il comandante britannico – mantenere in quel settore la pressione sui tedeschi attraverso l’azione della II Armata, ma dirigere al contempo lo sforzo principale verso Villers-Bocage ed Evrecy, per puntare quindi a sud-est in direzione di Falaise.
Il 7 giugno fu anche il giorno in cui nello specchio di mare prospiciente i settori di sbarco Omaha (spiaggia di Saint Laurent-sur-Mer) e Gold (spiaggia di Arromanches-les-Brains), con l’affondamento delle prime vecchie navi destinate a costituire delle barriere frangiflutti, presero avvio le operazioni di assemblaggio dei porti Mulberry. Le unità erano salpate la notte precedente nel mentre anche gli altri elementi delle infrastrutture prefabbricate erano in fase di predisposizione per l’attraversamento della Manica, effettuato successivamente per mezzo del traino di 132 rimorchiatori.
Il giorno 8, Montgomery completò la sistemazione del suo quartier generale nei terreni del castello di Creully, in quel momento la sola forza di sbarco che non era riuscita ancora a riunirsi in un fronte unico era il VII Corpo statunitense, sbarcato a Utah sotto il comando del generale Collins e arginato al costo di pesanti perdite dal LXXXIV Corpo della VII Armata tedesca. Soltanto due giorni dopo la contemporanea offensiva scatenata dai settori Utah e Omaha, le pattuglie della 101a. Airborne e della 29a. Divisione di fanteria riuscirono a prendere contatto saldando così il fronte alleato. (²)
Per i tedeschi la difesa della strategica area di Carentan era fondamentale, da lì risultava ancora possibile bloccare gli americani sulle spiagge e per questo Rommel spostò dalla Bretagna il II Corpo paracadutisti, che però venne rallentato nella sua marcia verso Oriente dalle azioni di sabotaggio del maquis e dai bombardamenti aerei alleati; il LXXXIV Corpo d’armata tedesco venne inoltre rinforzato dall’arrivo della 17a. SS Panzergrenadierdivision, unità di élite in quel momento in riserva dell’OKW. Il rischio della perdita di un’area strategica come quella risultò evidente ai comandanti supremi tedeschi, dato che poco a sudest c’era Saint-Lô, grosso centro agricolo e nodo stradale della regione di Avranches considerato dagli Alleati di vitale importanza per il controllo della rete viaria della Normandia occidentale. Nonostante gli sforzi dei tedeschi, Carentan sarebbe comunque caduta in mano americana all’alba del 12 giugno, mentre Saint-Lô avrebbe seguito la medesima sorte molti giorni più tardi, ma soltanto a costo di defatiganti combattimenti e notevoli perdite. (³)
Il giorno precedente a quello della saldatura definitiva del fronte alleato, cioè l’undici giugno, Rommel pensava ancora a un contrattacco da effettuare con le unità corazzate. Hitler era stato perentorio con lui, vietandogli assolutamente qualsiasi forma di ritirata, in una sua direttiva il Führer aveva indicato personalmente le modalità mediante le quali si sarebbero dovute impostare le operazioni di contrasto: egli riteneva di poter adeguatamente sfruttare la peculiare conformazione del terreno per respingere il nemico. In effetti non aveva tutti i torti, dato che sia le aree piatte e paludose degli estuari che sfociavano a mare su entrambi i fianchi della zona di sbarco (a Carentan nel Cotentin e a Cabourg nel Calvados), sia il bocage dell’immediato entroterra costituivano dei potenziali ostacoli naturali in grado di rendere difficoltoso l’impiego dei mezzi corazzati del nemico; i carri armati angloamericani si sarebbero trovati esposti al micidiale fuoco delle armi a carica cava della fanteria e dei cannoni da settantacinque e ottantotto millimetri dei Panther e dei Tigre in agguato, divenendo così estremamente vulnerabili.
Con il termine “bocage”, parola di origine normanna, ma oggi comunemente in uso sia nella lingua francese che in quella inglese, si indica un particolare paesaggio rurale dove sono presenti piccoli boschi, siepi naturali e paludi frammiste a terreni coltivati di forma irregolare e recintati, recinzioni che svolgono la funzione di protezione dai forti venti, capaci altrimenti di devastare le colture. Si tratta di un ambiente che caratterizza le regioni nord-occidentali della Francia, come la Normandia e la Bretagna, e quelle del Regno unito. La forma bocage ha trovato però diffusione con l’inglese durante il secondo conflitto mondiale, quando è stata riferita a un misto fra prato, terreno boscoso e terreno agricolo o da pascolo, ove sono presenti strade tortuose e altri sentieri sterrati, tutti delimitati da siepi e staccionate. Una regione dove i campi e i prati risultano racchiusi in un terreno che presenta barriere naturali o filari di alberi e dove le abitazioni sono rare, perlopiù inserite in poderi agricoli o piccoli villaggi. Anche a ovest di Caen, nel 1944 gli eserciti belligeranti si confrontarono all’interno di un mosaico di piccoli campi recintati o circondati da piccoli terrapieni e da alte siepi di rovi, ostacoli che spesso affiancavano delle stradine strette e incassate, costellate da villaggi e fattorie la cui edificazione a volte risaliva addirittura all’epoca medievale. Un paesaggio che nell’entroterra della Normandia si estendeva anche per ottanta chilometri dalla costa, limitando la visibilità ai combattenti e rendendo estremamente difficoltoso l’impiego dei mezzi corazzati. Su questo particolare tipo di terreno i carri armati divennero vulnerabili alle cariche cave dei proietti delle prime armi controcarro a spalleggiabili della fanteria come i bazooka, i panzerschrek e i panzerfaust, rivelatisi estremamente insidiosi alle brevi distanze. Ma per gli angloamericani non furono solo questi i pericoli celatisi nella boscaglia normanna, infatti a sparare a corto raggio erano anche i micidiali cannoni da settantacinque e da ottantotto millimetri dei carri Panther e Tigre, opportunamente verniciati con le caratteristiche livree mimetiche conformi all’ambiente circostante. Il bocage rese difficile il compito agli osservatori avanzati dell’artiglieria e dell’aeronautica, che furono ostacolati nell’osservazione spesso al punto da non poter essere in grado di determinare con esattezza neppure la propria posizione, con conseguenze deleterie sul coordinamento della potenza di fuoco che si sarebbe poi dovuta erogare. Infine del bocage ne fece le spese anche la fanteria, con un numero di caduti impressionante, una situazione che qualche soldato americano paragonò addirittura a quella vissuta nella jungla del Pacifico. Le peculiarità di quell’ambiente imposero agli Alleati una parziale ma celere rivisitazione delle tattiche che erano state previste prima dello sbarco, quando il quadro delle operazioni militari in campo aperto, da effettuare con unità mobiliera stato rappresentato diversamente.
Nei giorni precedenti l’undici giugno la riserva corazzata tedesca era riuscita a bloccare e a far retrocedere per tre chilometri le avanguardie della divisione del generale Keller (formata dalla 7a. e dalla 9a. Brigata canadese), infliggendole gravi perdite, ma non era comunque riuscita a sfondare la linea del fronte e a ricacciare il nemico nelle acque della Manica. La sera del 9, con l’arrivo in linea della Panzer-Lehr-Division, che si era schierata a sinistra della 12a. Panzerdivision SS Hitlerjugend presso Tilly-sur-Seulles, nell’area a sudest di Caen i tedeschi, forti anche della presenza della 21a. Panzerdivision, avevano cementato il loro dispositivo difensivo, bloccando per l’ennesima volta l’avanzata della 50a. Divisione di fanteria canadese. La situazione di stallo indusse Montgomery a impiegare le sue forze migliori in un’operazione “a tenaglia” che chiudesse sui due fianchi il concentramento di truppe tedesche nemico a Caen, un attacco che ebbe inizio nella stessa giornata dell’undici, che però, dopo due giorni di intensi combattimenti, non portò a significativi successi. Attorno al capoluogo del Calvados si consumarono intensi scontri fra corazzati: la formazione di testa della 7a. Divisione corazzata britannica, i famosi Desert Rats di Montgomery, incuneatasi nello schieramento tedesco fino a circa 25 chilometri a sudest della città, tra i villaggi di Caumont e Villers-Bocage, venne ingaggiata dai carri Tigre delle divisioni panzer SS, che fecero strame dei suoi Cromwell. Fu in quel contesto che si verificò l’episodio che rese celebre il giovane capitano Wittmann, ufficiale che assieme al suo equipaggio, a bordo del suo panzer riuscì a mettere in poco tempo fuori combattimento almeno dieci carri nemici. (⁴)
La tenace opposizione tedesca infranse le illusioni di Montgomery riguardo a una rapida penetrazione in territorio francese, confermando al contempo la validità della conduzione di forme di resistenza in un contesto ambientale caratterizzato dal bocage, soprattutto se l’attaccante commetteva l’errore di spingersi eccessivamente avanti coi suoi mezzi corazzati in un terreno non scoperto lasciandosi dietro la fanteria, che invece avrebbe dovuto fornirgli l’adeguato sostegno. Il 13 giugno si registrarono i primi lanci di V1 sul territorio britannico, fatto che per Londra rese ovviamente più pressante la necessità di condurre con successo e celermente l’avanzata in territorio francese, questo allo scopo di portare le rampe delle bombe razzo tedesche installate nella zona del Passo di Calais entro il raggio d’azione delle proprie armi. (⁵)
Il giorno 14 i britannici dovettero dunque ripiegare di circa otto chilometri e davanti a Caen, dunque, si arrestò l’avanzata alleata. Lo stesso giorno, però a ovest, gli americani del VII Corpo d’armata iniziarono la loro avanzata alla base del Cotentin per raggiungerne la costa occidentale, in modo da tagliare fuori anche le tre divisioni tedesche presenti nel settentrione, la 243a. e 709a. statiche e la 77a. di fanteria, unità che su diretto ordine di Hitler mantennero le proprie posizioni invece di ritirarsi a sud oppure verso Cherbourg, andando incontro all’annientamento da parte degli americani una volta che questi, consolidato le loro posizioni, risalirono la penisola.
Tra il 10 e il 13 giugno gli Alleati erano riusciti a chiudere tutte le brecce collegando in questo modo le loro teste di ponte, a questo punto, grazie al totale controllo del canale della Manica, i flussi delle aliquote di rinforzo e dei rifornimenti logistici acquistò maggiore regolarità. Nel settore Omaha, sotto controllo americano, una volta ultimati il posizionamento dei frangiflutti esterni e il collegamento del primo molo di attracco alla terraferma, si rese possibile l’avvio delle operazioni di sbarco degli autocarri trasportati dalle navi di cabotaggio approdate al porto Mulberry A.
Note
(¹) I casi di collasso psichico registrati fra i militari americani impegnati al fronte nel periodo 1941-45 (fenomeno noto anche come shock da battaglia o reazione al combattimento, cioè le reazioni di vario tipo e grado che spaziano dal semplice stress psicofisico alla vera e propria paralisi mentale) costituirono un serio problema; essi si attestarono al 26%, una percentuale notevolmente superiore al 2,6% sofferto dalla Wehrmacht nel corso dell’intero conflitto mondiale spesso in condizioni ben più difficili. Parte dei soggetti colpiti furono curati e in seguito rinviati alle loro unità di appartenenza; l’US Army riuscì a recuperare circa il 65% dei suoi militari, la Wehrmacht addirittura l’80%.
(²) Il LXXXIV Corpo della VII Divisione della Wehrmacht, competente territorialmente sulla penisola del Cotentin e su parte del dipartimento del Calvados, si articolava sulle seguenti unità: 91a., 319a. e 352a. Divisione di fanteria, 243a., 709a. e 716a. Divisione statica, 30a. Divisione (Osttruppen); 21a. Divisione corazzata e 91a. Divisione aviotrasportata.
(³) Il II Corpo paracadutisti tedesco comprendeva la 3a. Divisione paracadutisti, la 77a. Divisione e la 275a. Divisione.
(⁴) L’Hauptsturmführer Michael Wittmann, in forza al 101° SS Panzer-Schwehr-Battaillon del I Corpo corazzato, cadde in combattimento pochi giorni dopo, il 7 agosto, quando il suo carro Tigre, attaccato da ben cinque carri Sherman, venne distrutto.
(⁵) Il Fieseler Fi-103, meglio nota come V1, designata internamente con il nome in codice FZG-76 (Flakzielgerät, bersaglio per artiglieria contraerea), venne sviluppato dall’industria tedesca Gerhard-Fieseler-Werke nei primi anni Quaranta e in seguito utilizzato dalla Luftwaffe nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale con la sigla V1 (Vergeltungswaffenn-1, “arma di rappresaglia 1”). Unendo le caratteristiche di un aereo a quelle di una bomba volante viene considerato il primo esempio di missile da crociera (cruise missile). Solitamente, il lancio terrestre di questi ordigni avveniva grazie ad una rampa inclinata e, inoltre, tramite un apparato di generazione di vapore che usava perossido di idrogeno e permanganato di potassio, mentre oltre 170 esemplari vennero lanciati in volo da bombardieri Heinkel He-111 appositamente modificati allo scopo. Durante la guerra vennero prodotte circa trentamila V1, ordigni aventi un costo unitario notevolmente più basso rispetto a quello dell’altra arma di rappresaglia tedesca, il missile balistico V2. Il primo lancio operativo venne effettuato il 13 giugno 1944, quando una V1 raggiunse Londra provocando otto morti. Nel complesso, l’Inghilterra venne raggiunta da diecimila ordigni di questo tipo (la capitale del Regno 2.419 volte). Una minaccia che si interruppe temporaneamente a partire dal settembre 1944 a causa della perdita (cattura o distruzione) delle installazioni costiere francesi da cui venivano effettuati i lanci; per questa ragione, tra l’ottobre 1944 ed il marzo 1945 la V1 venne utilizzata principalmente per attaccare obiettivi strategici in Belgio, in particolare il porto di Anversa. L’ultima V1 cadde a Datchworth, nell’Hertfordshire, il 29 marzo 1945 e si trattò dell’ultima azione nemica sul suolo britannico nel corso della Seconda guerra mondiale.
Stallo a Caen
Nonostante al giorno 17 di giugno gli Alleati avessero sbarcato sul territorio francese oltre mezzo milione di uomini, non si trovarono però ancora nelle condizioni ottimali per sferrare un attacco della portata tale da travolgere il fronte nemico. In quel momento sia la I Armata statunitense (sul fianco occidentale dello schieramento) sia la II Armata britannica (sul fianco orientale presso Caen), si trovarono di fronte a un dispositivo difensivo che, malgrado fosse stato provato e rimaneggiato dai duri combattimenti e dagli intensi bombardamenti aerei delle giornate precedenti, permaneva pur sempre poderoso. I tedeschi si dimostrarono quello che erano: soldati coriacei difficili da sconfiggere. Il giorno precedente, dal suo quartier generale di Rastenburg, Hitler aveva finalmente autorizzato l’inizio del rafforzamento del Gruppo Armate B, sotto attacco in Normandia, che fino ad allora aveva perduto 26.000 uomini. (¹)
Il Führer evitò però di sguarnire la XV Armata, quella schierata a est del fiume Orne in attesa dell’arrivo dal passo di Calais di quella che i vertici militari del Reich ritenevano ancora essere la forza da sbarco nemica, cioè della First United States Army Group (FUSAG) che, in realtà, era una pura invenzione dell’intelligence alleata, creata fittiziamente nel quadro della più ampia operazione di depistaggio e inganno nota come Fortitude. I tedeschi incrementarono massicciamente la presenza dei loro reparti corazzati in Francia settentrionale, facendo affluire sul posto diverse divisioni. Ma un fattore di sostanziale importanza fece la differenza: al contrario degli angloamericani, né la Wehrmacht né le Waffen SS furono più in grado di bilanciare i vuoti creatisi nelle loro schiere nel corso della battaglia; infatti, mentre gli Alleati avevano ormai avviato quasi a regime la loro linea di alimentazione attraverso il canale della Manica, con gli americani che sbarcavano quotidianamente truppe e materiali sul continente, i tedeschi incontrarono invece sempre maggiori difficoltà, perché non erano in grado di sostituire i caduti e i feriti in quantità tali da ricomporre i propri organici. Gli Alleati erano sempre di più, i tedeschi sempre meno, una situazione che sarebbe divenuta presto insostenibile.
Dal canto suo, anche Eisenhower ebbe dei problemi, seppure meno incisivi di quelli che affliggevano von Rundstedt e Rommel dall’altro lato della linea del fronte. La II Armata di Montgomery era stata fermata dai tedeschi presso Caen, una situazione destinata prima o poi a sbloccarsi con una vittoria in Normandia e la conseguente avanzata verso Parigi. In ogni caso, il leggero vantaggio in termini quantitativi fino ad allora accumulato nei confronti dell’avversario veniva in parte compensato dalla qualità e dal concentramento delle forze corazzate dei tedeschi, che adesso schieravano ben sette divisioni panzer. Queste unità subirono la graduale falcidia causata dal continuo e costante fuoco delle artiglierie nemiche (sia terrestri che navali) e dai bombardamenti aerei; ai carri armati distrutti nel corso dei combattimenti al fronte si aggiunsero poi anche i danni e i rallentamenti provocati dalle bombe alleate e dalla guerriglia del maquis, che coi suoi attentati ai mezzi in marcia sulle strade e i sabotaggi ai treni si rivelò una fastidiosa spina nel fianco dell’occupante tedesco, al punto che ben presto la rete ferroviaria della Francia settentrionale subì una paralisi quasi totale. Problemi derivarono anche dalle gravi carenze evidenziate dal loro sistema di alimentazione logistica, non più in condizioni di funzionare in modo adeguato alle necessità. La carenza di carbolubrificanti si ripercosse sul movimento delle colonne motocorazzate dirette in Normandia, provocandone frequentemente delle soste forzate.
Sempre il 17 giugno, Hitler si recò in volo presso Soissons per incontrare personalmente von Rundstedt e Rommel e cassare così definitivamente le loro richieste finalizzate all’ottenimento di una maggiore autonomia di comando e della possibilità di effettuare delle ritirate qualora se ne fosse imposta la necessità. La deleteria interferenza del Führer nella condotta delle operazioni militari sul campo costituì sicuramente un fattore che pesò sul disastroso esito del conflitto per i tedeschi, quello del cancelliere del Reich (divenuto Comandante in capo della Wehrmacht) fu un approccio diametralmente opposto non soltanto a quello dei capi di stato occidentali alleati, ma persino a quello del Comandante supremo Eisenhower, che, a ragione, preferì non ingerirsi nelle attività di comando dei suoi immediati sottoposti, i generali Montgomery e Bradley.
Adesso gli Alleati avevano un solo imperativo: anticipare il nemico nel consolidamento delle posizioni sul terreno. Allo SHAEF erano consapevoli che il rallentamento dell’avanzata provocato dalla dura opposizione tedesca nella zona di Caen, unita ai ritardi precedentemente accumulati durante lo sbarco, avrebbero potuto generare una situazione rischiosa al punto da compromettere l’intera operazione. Non ebbero torto, infatti a complicare le cose ci si mise pure il maltempo. A partire dal 19 giugno una devastante tempesta si scatenò sul canale della Manica provocando effetti disastrosi sul sistema infrastrutturale realizzato dagli Alleati sulla costa normanna. Il porto Mulberry A, la cui costruzione non era ancora stata ultimata, venne distrutto dal fortunale e gli americani decisero di non ripristinarlo; furono così costretti a proseguire lo scarico delle loro navi cargo a ridosso del blocco di protezione formato dai “Gooseberries” servendosi dei mezzi da sbarco. Le violente mareggiate, durate fino al giorno 22, misero inoltre fuori uso almeno settecento tra navi e piccole imbarcazioni, portando a una riduzione del ritmo giornaliero degli sbarchi di circa due terzi. Quella che poi sarebbe stata chiamata “la grande mareggiata” provocò la sospensione della presa di terra di sei divisioni che avrebbero dovuto sbarcare, ritardando così la progressione della forza sul campo di circa una settimana. Si trattava dell’ennesimo rallentamento sul timing previsto per lo sfondamento del fronte e i tedeschi, ovviamente, ne approfittarono per lanciare una controffensiva. Il 20 giugno dal quartier generale dell’OKW giunse l’ordine per la pianificazione di un attacco sulla linea di giunzione degli schieramenti britannico e americano, una linea di faglia vulnerabile dove si sarebbero dovute scatenare ben sei divisioni corazzate, che, successivamente, avrebbero puntato su Bayeux. Ma di queste unità, tre erano ancora in fase di trasferimento, mentre due difendevano la città di Caen. Rommel e von Rundstedt non ebbero dunque altra scelta se non rassegnarsi e attendere, preparandosi insieme ai loro soldati al prossimo attacco nemico.
Quella disastrosa tempesta che si era abbattuta sulla Manica e sulle coste settentrionali della Francia, per Montgomery rappresentò l’occasione per una pausa di riflessione. Fra il 19 e il 23 giugno il comandante britannico giunse alla conclusione che non sarebbe stata proficua una ennesima forzatura del blocco tedesco a Caen tentata lanciando all’attacco singole unità, quindi rinvenne una soluzione al problema nell’impiego in toto del VII Corpo, una massa di manovra massiccia che, sotto la guida del generale Richard O’Connor, avrebbe potuto ingaggiare vittoriosamente le divisioni corazzate nemiche lungo un fronte esteso per quasi sette chilometri, tra i villaggi di Carpiquet e Raruray. Per farlo, però, avrebbe dovuto attendere ancora qualche giorno, almeno fino al 26, quando le tre divisioni alle sue dipendenze furono in condizioni di avanzare a ovest di Caen dando avvio all’operazione Epsom. (²)
Montgomery mosse le sue unità il 27 giugno, facendo loro attraversare il fiume Odon. Due giorni dopo respinsero il contrattacco tedesco sferrato da due divisioni corazzate appartenenti al II Panzerkorps comandato dall’Oberstgruppenfürer Paul Hausser. L’ufficiale, da poco trasferito dalla Polonia con la sua unità, assunse la guida della VII Armata dopo che il precedente comandante, il Generaloberst Friedrich Dollmann, venne deferito da Hitler alla corte marziale a seguito della caduta in mano nemica della piazzaforte di Cherbourg; Dollmann si sarebbe poi suicidato il giorno 29 giugno. Nei giorni seguenti il suicidio dell’alto ufficiale delle SS si consumò un drammatico avvicendamento di figure di vertice nell’OB West, un ricambio frutto della decisione di Hitler di sollevare dagli incarichi tutti coloro i quali, von Rundstedt in testa, avevano avuto il coraggio di fare presente in modo aperto e diretto al Führer la necessità dell’apertura di una trattativa di pace con gli angloamericani. Tutto nacque dalla convinzione dei comandanti militari tedeschi nella Francia settentrionale riguardo alla situazione sul campo che si faceva sempre più critica e alla loro espressa richiesta della necessità di una ritirata tattica che gli consentisse una manovra con maggior respiro delle divisioni corazzate. Rommel, von Schweppenburg e Hausser, inoltrarono un documento al riguardo al feldmaresciallo von Rundstedt, ufficiale appena tornato da un incontro con Hitler in Germania. Il comandante dell’OB West si rivolse allora nuovamente al Führer, ma per tutta risposta venne destituito dall’incarico e sostituito dal feldmaresciallo Günther von Kluge. Anche von Schweppenburg venne sostituito al comando del Gruppo Panzer occidentale, a prendere il suo posto fu il generale Heinrich Eberbach, a differenza di Hausser, che invece venne riconfermato al comando della VII Armata.
Ma adesso torniamo all’operazione Epsom, cioè il terzo tentativo alleato di conquista della città di Caen, che prese le forme di un aggiramento da occidente dei residuali gruppi di combattimento tedeschi che ancora difendevano l’area e che ebbe termine senza risultati di rilievo, quando dopo quattro giorni di combattimenti il generale Dempsey, temendo un secondo contrattacco tedesco, per non esporre eccessivamente l’11a. Divisione corazzata al rischio che rimanesse tagliata fuori, la ritirò da “quota 112” a ovest del fiume Odon. Si trattò di una decisione cautelativa assunta a seguito di una consultazione col suo diretto superiore, il generale O’Connor, diretta conseguenza della minaccia portata al fianco meridionale dell’VIII Corpo d’armata alleato dal II Waffen SS Panzerkorps. (³)
O’Connor, che in precedenza aveva combattuto i tedeschi anche in Africa settentrionale, col suo VIII Corpo avrebbe dovuto aprire una breccia fra le divisioni corazzate nemiche per poi piegare verso oriente, nel bocage normanno, attraversando quindi il fiume Odon e conquistando quota 112. Ma, intanto, seppure colpite dai bombardamenti dell’aviazione alleata, ora altre due divisioni corazzate tedesche erano giunte in rinforzo allo schieramento posto a difesa di Caen, inoltre altri due concomitanti fattori rallentarono a dismisura le operazioni alleate: la particolare conformazione del terreno e il maltempo che imperversò sulla regione limitando il supporto aereo della RAF. Alla fine i risultati ottenuti furono del tutto marginali e, fino al 29, le divisioni di Montgomery non riuscirono ad avanzare in territorio francese se non per più di due chilometri al giorno. Il 30 di giugno l’VIII Corpo arrestò la sua marcia, la terza offensiva per Caen, denominata in codice “operazione Epson”, era terminata. Sul campo erano caduti circa 4.000 soldati alleati e 800 tedeschi. Questi ultimi erano riusciti a mantenere le loro posizioni attorno al capoluogo del Calvados, ma se il loro fianco sinistro ancora reggeva, però non erano riusciti a respingere i nemici verso il mare.
Al 30 di giugno i tedeschi schieravano nella Francia settentrionale 400.000 uomini del Gruppo Armate B, mantenendo ancora i 250.000 soldati della XVI Armata del generale Hans von Salmuth nell’area di Calais in attesa di una attesa seconda invasione nemica dal mare; il Gruppo Panzer occidentale, che in quel momento difendeva Caen, si articolava su un poderoso dispositivo corazzato formato da ben sette Panzerdivisionen, quattro divisioni di fanteria e sulla Divisione terrestre della Luftwaffe; inoltre, nella stessa regione, erano presenti il III Corpo Flak (antiaerea), dotato dei micidiali cannoni da 88 millimetri, e tre Brigate Werfer (la 7a., l’8a. e la 9a.), unità che avevano in dotazione i lanciarazzi multi canna Nebelwerfer, arma estremamente efficace contro bersagli d’area. Nel frattempo, i comandanti tedeschi, scettici riguardo all’efficacia dell’impiego delle bombe volanti V-1 sulla Gran Bretagna, chiesero a Hitler che venissero impiegate contro le teste di sbarco e conto i porti dell’Inghilterra meridionale, ma anche in questo caso la risposta del Führer fu negativa e i bombardamenti continuarono a venire concentrati su Londra.
Sempre alla fine del mese di giugno, gli Alleati erano riusciti a sbarcare in territorio francese 875.000 soldati, 150.000 veicoli e 570.000 tonnellate di rifornimenti. Malgrado i contrattempi dovuti al maltempo e la resistenza opposta dai tedeschi nella zona della piazzaforte di Cherbourg, che si rivelò più intensa e lunga di ciò che era stato previsto, la progressiva immissione di uomini e mezzi nel teatro di operazioni francese proseguiva. Alla fine di quel mese, in Normandia la II Armata britannica schierava tre divisioni corazzate, dieci divisioni di fanteria e una divisione aerotrasportata; la VII Armata, i noti Desert Rats (topi del deserto), aveva invece sul terreno una divisione meccanizzata, tre di fanteria, una aviotrasportata e una paracadutisti; la I Armata americana due divisioni di corazzate, nove di fanteria e due aviotrasportate. Ma la differenza sempre più marcata all’interno dello schieramento alleato era dovuta all’incapacità che incominciava a manifestare Londra nel rimpiazzare le proprie forze all’interno della II Armata: a causa delle ingenti perdite subite nel bocage i britannici erano prossimi all’esaurimento, mentre l’US Army disponeva invece di numerose divisioni in riserva pronte a essere impiegate in combattimento (in quel periodo soltanto in Inghilterra si trovavano in attesa nove divisioni. E qui si poneva il problema dell’angustia della testa di ponte in Normandia.
Non si poteva certo affermare che gli Alleati si trovassero in una situazione di stallo, però, ancora i primi giorni di luglio, i ritardi sui tempi previsti nei piani operativi elaborati in precedenza erano tali che, nel limitato spazio conquistato al nemico, appunto quello della testa di ponte in Normandia, non fosse possibile ammassare ulteriori truppe. Le divisioni per le quali era prevista l’immissione in teatro di operazioni dovettero restare ancora in attesa in Inghilterra, di risulta, Eisenhower non potendo formare il XII Gruppo di Armate, mantenne ancora al comando della forza alleata in Francia Montgomery. Il serio handicap costituito dalle ridotte dimensioni della testa di ponte in Normandia riflesse i suoi effetti negativi sull’impiego dello strumento aereo, reso inadeguato ai bisogni dalla carenza di piste di decollo e atterraggio per i bombardieri. Nella prima settimana di luglio fra gli Alleati, in particolare negli americani, si fece largo l’impressione che le forze d’invasione potessero impantanarsi in una situazione di stallo, con l’US Army che avanzava molto lentamente verso sud, con Bradley che non era ancora riuscito ad allineare le sue forze con il resto dello schieramento americano e con l’importante nodo stradale di Saint-Lô che si trovava ancora sotto il controllo tedesco; infine, il tentativo di estendere il fronte verso est, una volta disceso il versante occidentale della penisola del Cotentin, incontrò la tenace opposizione del LXXXIV Corpo tedesco e l’undici luglio si esaurì. Gli americani erano penetrati nell’entroterra solo per venticinque chilometri, un quinto del territorio previsto e, aspetto problematico, permanevano in mano tedesca importanti centri come Alençon, Rennes e Saint-Malo, che Montgomery pensava di liberare già entro gli inizi di luglio. In particolare, Saint-Malo era una località che rivestiva grande importanza nei piani alleati, essa infatti si trovava sulla direttrice di avanzata in direzione dei Brest, città che una volta occupata avrebbe consentito il completo spostamento degli approdi navali dai porti Mulberry a quello di Cherbourg. Ma la piazzaforte bretone di Saint-Malo, fortemente protetta, per gli Alleati si sarebbe rivelata un ostacolo formidabile. L’8 luglio, preceduta da un intenso bombardamento effettuato nel corso della serata precedente, gli Alleati sferrarono l’ennesima offensiva per la conquista di Caen, ancora controllata dai tedeschi a oltre un mese dallo sbarco. Era l’operazione Charnwood, condotta sotto il comando di Montgomery dal I Corpo d’armata del generale Tredinnick Crocker. (⁴)
La 1a. e 2a. e la Divisione di fanteria, unitamente alla 48a. Divisione “South Midland” attaccarono nuovamente l’area del capoluogo del Calvados. Il 10 luglio la fanteria britannica si attestò sulla riva settentrionale del fiume Orne; la 12a. SS Panzerdivision Hitlerjugend continuò a resistere, ma ormai i tedeschi soffrivano la mancanza di soldati: dal giorno dell’invasione angloamericana la Wehrmacht aveva perso quasi 120.000 uomini, ricevendo però soltanto 10.000 uomini in rimpiazzo. Anche la Divisione Hitlerjugend dovette comunque ripiegare oltre l’Orne, fu una decisione presa il giorno 9 dal brigadeführer Kurt Meyer; l’ufficiale aveva contravvenuto le disposizioni di Hitler, che voleva che Caen venisse difesa a tutti i costi fino all’ultimo uomo, cosa che i soldati tedeschi fino a quel momento avevano fatto, nonostante le prospettive fossero quelle di un sicuro abbandono delle posizioni tenute. Col suo coraggioso atto Meyer evitò di sacrificare inutilmente la vita dei suoi uomini, che in seguito, nella notte, sferrarono il contrattacco che permise ai panzergranadier di riconquistare agli inglesi della 43a. Divisione “Wessex”, seppure solo temporaneamente, quota 112. Sempre il 10 luglio, mentre altre unità britanniche prendevano possesso dei villaggi di Éterville e Maltot e l’aeroporto di Carpiquet, la 3a. Divisione di fanteria canadese e la 3a. Divisione meccanizzata penetrarono nella periferia di Caen, questo con i tedeschi che controllavano ancora le località strategiche della collina di Bourguébus e delle acciaierie di Colombelles.
Nei suoi piani Montgomery previde di prendere sia Caen che Cherbourg entro il 23 giugno, ma giunse alla prima decade di luglio senza che i suoi obiettivi fossero conseguiti integralmente: la piazzaforte portuale all’estremità della penisola del Cotentin era caduta il giorno 26, ma il capoluogo del Calvados rimaneva ancora un problema.
Note
(¹) Presso Rastenburg, villaggio della Prussia orientale oggi in territorio polacco, aveva sede il quartier generale del Führer. Si trattava della famosa Wolfsschanze, o “tana del lupo”, un complesso di bunker e fortificazioni realizzato allo scopo di esercitare il comando delle truppe nella campagna di Russia. Entrato in attività il 24 giugno 1941, quindi due giorni dopo l’avvio dell’operazione Barbarossa contro l’Unione sovietica, andò gradualmente in disuso dopo che al suo interno vi fu compiuto l’attentato ai danni di Hitler materialmente compiuto dal colonnello von Stauffemberg il 20 luglio 1944 nel quadro della congiura nota come Piano Valchiria (Walküre).
(²) Le tre divisioni sulle quali si articolava il VII Corpo d’armata britannico erano la 15a. di fanteria “Scottish” e la 43a. di fanteria “Wessex” (rispettivamente al comando del generale Gordon Holmes McMillane del generale Gwilym Ivor Thomas) e l’11a. corazzata (al comando del generale George Philip Bradley Roberts; questo complesso era forte di 60.000 uomini, 600 carri armati e 700 pezzi di artiglieria, inoltre ricevette il sostegno del fuoco erogato dai cannoni navali delle unità della marina in stazionamento presso la costa francese.
(³) In quel settore del fronte erano schierate la 2a. Panzerdivision e la Panzer Lehr Division, unità corazzate che erano state riunite nel XLVII Panzerkorps, questo mentre la 12a. SS Panzerdivision era attestata a ovest del I SS Panzerkorps.
(⁴) Nell’operazione Charnwood vennero ripresi i concetti basati sui principi del potere aereo espressi dal Maresciallo dell’aria Leigh-Mallory, che avevano informato anche la conduzione delle operazioni nel febbraio e nel marzo precedenti nel corso dell’assedio del monastero di Monte Cassino sul fronte italiano, cioè, quelli che prevedevano l’impiego dei quadrimotori pesanti per il bombardamento a tappeto delle posizioni occupate dal nemico onde fornire un supporto diretto alla proprie forze di terra.
Penetrazione nel settore occidentale
Alle ore ventuno e cinquanta del giorno 7 luglio quattrocentosessanta velivoli Avro Lancaster e Handley Page Halifax appartenenti al Comando bombardieri della Royal Air Force britannica, effettuarono una missione sulla zona di Caen, dove sganciarono 2.300 tonnellate di bombe. Si trattava di ordigni armati con spolette a tempo, impostate per esplodere alcune ore più tardi, verso le quattro e mezzo del mattino, quando era prevista nella zona la presenza della 12a. Panzerdivision, che si sarebbe così trovata esposta a un fuoco concentrico erogato anche dalle batterie di artiglieria del I Corpo britannico, da altri velivoli inviati a bombardare in zona e dai pezzi navali alleati. Gli sganciamenti dei bombardieri britannici risultarono in parte imprecisi. Si stava preparando la quarta battaglia per il controllo di Caen, l’operazione denominata in codice “Jupiter”. Il 10 luglio, al quartier generale del XXI Gruppo di Armate la pianificazione operativa concepita allo scopo di consentire all’US Army di aprirsi un varco in Bretagna era pronta. Nella direttiva emanata dallo stesso Montgomery era prevista anche una nuova offensiva che avrebbe preso avvio dall’estremo settore occidentale di Caen in direzione di Quota 112 e della riva occidentale del fiume Orne. L’operazione Jupiter sarebbe stata lanciata contestualmente all’attacco degli americani di Bradley al settore di Avranches.
In quella fase i tedeschi si trovavano in gravi difficoltà, non avevano forze sufficienti per tenere il fronte ancora a lungo: se rinforzavano il settore sottoposto all’attacco dell’US Army erano però costretti a sguarnire lo schieramento che fronteggiava i britannici a est, nella zona di Caen, favorendo in questo modo una pericolosa penetrazione in profondità di questi ultimi; inoltre, i soldati reduci da quelle prime settimane di combattimenti erano molto provati, mentre le perdite non venivano più rimpiazzate a causa della carenza di uomini. Dal suo bunker di Rastenburg Hitler avrebbe voluto formare una nuova riserva corazzata da poter poi manovrare contro gli angloamericani, ma ormai le sue panzedivisionen, duramente messe alla prova, risultavano oltremodo indebolite. La Panzer Lehr Division venne temporaneamente ritirata dal fronte, però le altre unità corazzate ancora presenti in teatro non poterono però venire raggruppate nell’ambito di una riserva centralizzata, bensì dislocate a sud e a est di Caen in funzione di contrasto dell’attesa offensiva nemica. Si andava verso una fase decisiva della battaglia di Normandia: gli americani dovevano occupare nel tempo più breve la Bretagna, dato che gli Alleati avevano avuto modo di constatare quanto fosse importante il controllo di quella regione costiera occidentale della Francia.
L’undici di luglio si combatté per il controllo della cittadina di Saint-Lô: Il XIX Corpo statunitense, presa la direzione sud, incontrò sulla sua avanzata il 2° Corpo paracadutisti tedesco (Fallschirmjäger) e la Panzer Lehr Division, o perlomeno i carri armati e gli equipaggi che di quella unità frettolosamente richiamata in linea ancora rimanevano. I combattimenti furono furibondi, nella prima decade di luglio l’US Army assistette alla falcidia delle proprie unità di fanteria, che persero una cifra di uomini pari al 90% del totale dei caduti. Ma a causa della tenace resistenza tedesca e della particolare conformazione del terreno, gli americani sarebbero riusciti a conquistare l’importante nodo stradale di Saint-Lô solo il 19 luglio, un risultato ottenuto molto in ritardo rispetto ai piani previsti, che però avrebbe costituito il preludio allo sfondamento delle linee nemiche.
Alla metà del mese di luglio, quindi a poco più di un mese dallo sbarco alleato in Normandia, il Gruppo Armate B aveva perduto oltre 96.000 uomini, ma i rimpiazzi inviati in Francia settentrionale da Berlino furono però del tutto insufficienti a rimpiazzare queste perdite e von Rundstedt e Rommel poterono esclusivamente tamponare l’emorragia di soldati attraverso la reintegrazione nelle proprie schiere di soli 5.200 soldati e alcune centinaia di panzer.
La notte del 15 prese avvio l’operazione “Greenline”, tesa a bloccare un gran numero di divisioni corazzate tedesche a ovest di Caen.
Quelli a cavallo della metà del mese di luglio per i tedeschi furono giorni drammatici, non solo a causa della piega che gli eventi stavano prendendo sul campo: il 17 giugno Rommel uscì di scena, il 20 a Rastenburg vi fu l’attentato a Hitler e il 22, in concomitanza con l’attacco americano alla piazzaforte di Cherbourg, sul fronte orientale l’Armata rossa sferrò una massiccia offensiva, l’operazione “Bagration”. L’attacco americano alla piazzaforte sulla punta della penisola del Cotentin venne preceduto da una formale richiesta di resa offerta dal generale Collins alla guarnigione tedesca di presidio. (¹)
Il feldmaresciallo Erwin Rommel rimase gravemente ferito nel corso di un attacco aereo, la sua autovettura venne mitragliata da bassa quota da un velivolo Hawker Typhoon mentre si trovava in marcia su una strada nei pressi del villaggio di Saint-Foy. Rommel non avrebbe fatto più ritorno al fronte, perché in seguito sarebbe rimasto implicato nel fallito piano Valchiria per la eliminazione di Hitler. Dopo la sua dimissione dall’ospedale verrà costretto al suicidio onde evitare il disonore della pena capitale che, invece, venne inflitta dal tribunale nazista agli altri congiurati. Paradossalmente, la sua sostituzione al comando del Gruppo Armate B con il feldmaresciallo von Kluge (che in precedenza aveva già assunto il comando dell’OB West) portò a una razionalizzazione del vertice militare tedesco in Francia settentrionale.
L’operazione “Goodwood” ebbe inizio tra le ore 07:30 e le 07:45 del 18 luglio con l’attacco delle forze corazzate di Montgomery alle posizioni tedesche nella zona di Caen. Attraverso le operazioni Goodwood e “Cobra” gli Alleati esercitarono una forte pressione sul nemico allo scopo di consentire uno sfondamento nel settore occidentale del fronte e una conseguente penetrazione americana in Bretagna. Tre gli obiettivi iniziali di questa offensiva congiunta: Avranches, che avrebbe dovuto essere conquistata dalle truppe della III Armata statunitense del generale Bradley, e le città di Le Mans e Alençon, sulle quali avrebbe puntato la I Armata statunitense, sostenuta da oriente dall’azione della II Armata britannica di Dempsey, che avrebbe lanciato i suoi carri armati contro le posizioni tedesche a est di Caen.
Montgomery si trovò a disporre di una discreta massa di mezzi corazzati, questo non perché, finalmente, gli Alleati avessero raggiunto le capacità loro necessarie in termini di spazio all’interno della testa di ponte, che non erano riusciti ancora ad allargare, bensì a causa della lenta avanzata nell’entroterra francese, che ormai li aveva portati fuori da ogni rispetto dei tempi previsti nella pianificazione operativa. Di conseguenza, il comandante del XXI Gruppo di Armate poté mantenere sul fianco sinistro dello schieramento americano il XXX Corpo d’armata comandato dal tenete generale Bucknall, dislocando inoltre sulla linea del fronte a nord di Caen e a Quota 112 il XII Corpo britannico e il II Corpo canadese, unità di recente formazione, lasciando così a est della città il I Corpo del generale Tredinnick Crocker; le tre divisioni corazzate disponibili (la 7a., l’11a. e la Divisione corazzata della Guardia) vennero raggruppate nella riserva dell’VIII Corpo del generale O’Connor, che il 18 luglio risultava attestato poco distante dai sobborghi settentrionali di Caen, presso il villaggio di Bénouville, sulla sponda occidentale del Canale di Caen, che in quel tratto scorreva parallelo al fiume Orne. I Corpi XII e XXX avrebbero attaccato i tedeschi nel settore a oriente del capoluogo del Calvados, a Quota 112 (operazione “Greenline”), mentre il II Corpo canadese, accerchiando su due lati i quartieri della città che si trovavano nelle mani del nemico, avrebbe poi costretto quest’ultimo alla ritirata; contestualmente la III Divisione britannica avrebbe sfondato in direzione sud-est espandendo così la testa di ponte alleata. Anche in questo caso venne previsto il massiccio intervento dei bombardieri e dell’artiglieria (4.500 velivoli e 750 cannoni fra pezzi terrestri e navali). In questo modo Montgomery e gli ufficiali del suo stato maggiore ritennero di poter “ammorbidire” le difese tedesche, annichilendole con un intenso bombardamento effettuato fin dal primo mattino: tre ondate di velivoli che per oltre tre ore avrebbero colpito le linee nemiche. Nei piani del generale inglese, in seguito la riserva corazzata avrebbe attraversato i due corsi d’acqua presso i quali era attestata e avrebbe poi travolto il fronte tedesco puntando sul crinale di Bourgébus; una volta superata quell’altura avrebbero dilagato sulla pianura a essa retrostante spingendo infine in ricognizione avanzata delle pattuglie blindate fino a Falaise, località dove avrebbe dovuto temporaneamente arrestarsi l’avanzata. Montgomery si pose il conseguimento di due sostanziali obiettivi: la distrazione delle forze corazzate tedesche a vantaggio delle truppe alleate in azione nel settore occidentale del fronte, dove si sarebbe tentato lo sfondamento verso la Bretagna, e la definitiva conquista della città di Caen. Però, in seno all’alto comando alleato in Inghilterra, in un primo momento non fu del tutto chiaro come realmente Montgomery avesse deciso di muovere le sue unità sul terreno e, sia Eisenhower che Tedder, si convinsero che si sarebbe trattato di un’offensiva totale condotta mediante un possente attacco di mezzi corazzati. Come ebbe a constatare in seguito, nella realtà dei fatti Montgomery preferì agire con maggiore prudenza.
Quello che precedette l’attacco del 18 luglio viene ricordato come il più intenso bombardamento a tappeto dell’intera campagna di Normandia, dove le esplosioni delle enormi quantità di ordigni sganciati dagli aerei alleati provocarono sul territorio effetti devastanti. Seppure alla fine, dopo un mese di ripetuti tentativi, Caen venne quasi completamente conquistata (furono i canadesi del II Corpo a liberarla), per gli Alleati l’operazione Goodwood non si concretizzò però in un decisivo successo. Infatti, Montgomery non riuscì a sfondare il dispositivo difensivo tedesco e ad aprirsi così la strada per la piana di Falaise e questo, per altro. Contribuì a ridimensionare l’immagine di condottiero che fino a quel momento aveva connotato il generale inglese. I soldati morti furono molti: alla sera del 18 sul campo si contarono oltre duemila caduti, mentre i carri armati distrutti furono duecento, questo mentre il nemico continuava a mantenere le proprie posizioni sull’altura di Bourgubués.
Quando le divisioni raggruppate nella riserva corazzata mossero in direzione del nemico, incontrarono un primo ostacolo nell’ingorgo provocato dal traffico dei mezzi militari sulle strade della Normandia, un intasamento che rallentò l’irruzione nelle prime linee tedesche. Un secondo non indifferente problema, derivò poi agli Alleati dalla loro sottovalutazione della consistenza delle difese approntate dall’avversario in quel particolare settore: Rommel era venuto a conoscenza dei piani di Montgomery dai rapporti ricevuti dal servizio informazioni tedesco e, di risulta, per il tramite del generale Heinrich Eberbach, in qualche maniera tentò di prevenire l’azione nemica disponendo una serie di linee difensive che avrebbero dovuto contrastare e arrestare lo slancio offensivo britannico. Estese in profondità anche fino a quindici chilometri, queste difese vennero formate dai reparti della 16ª Divisone terrestre della Luftwaffe, dalla 21ª Panzerdivision, da un battaglione di Sturmgeschütz, dal 200° Battaglione anticarro e dal 503° Panzer Schwehr Battallion montato su carri Tigre; a sud dell’altura di Bourguébes venne schierato il grosso dell’artiglieria (circa 250 tra pezzi campali e antiaerei, compresi i micidiali cannoni da 88 millimetri di calibro), integrato da 272 lanciarazzi multicanna Nebelwerfer. (²)
Per avere un’idea dell’efficacia dei pezzi da ottantotto tedeschi impiegati in funzione anticarro basterà ricordare l’episodio che quello stesso giorno vide protagonista una batteria formata da quattro cannoni schierata nei pressi del villaggio di Cagny. Quando gli artiglieri della Luftwaffe aprirono il fuoco contro l’avanguardia britannica in avvicinamento distrussero in poco tempo ben sedici carri Sherman provocando l’immediato rallentamento dell’avanzata nemica. Il bocage normand non soltanto limitava fortemente la visibilità degli equipaggi all’interno dei carri armati, diminuendo di conseguenza l’efficacia dei mezzi, ma permetteva allo stesso tempo ai tedeschi di attaccarli dalle brevissime distanze.
Per i soldati britannici la penetrazione nell’entroterra della Francia settentrionale si rivelò estremamente complicata, una situazione diversa da quella dei granatieri tedeschi trasferiti lì dalla Russia nel tentativo di contrastare il nemico sbarcato in massa dal mare. A loro le condizioni di combattimento della Normandia dovettero apparire davvero diverse da quelle, altrettanto terribili, delle sterminate pianure sovietiche, nelle quali si erano trovati in precedenza; appollaiati a gruppi di dieci-dodici sui carri armati Panther apprezzarono le opportunità che qui gli venivano offerte dal fitto reticolo di siepi (spesse anche tre metri), terrapieni e boschetti tipici del bocage, un ambiente ideale dove tendere imboscate ai mezzi corazzati nemici. Per i Panzergrenadiers e il resto della fanteria tedesca era usuale spostarsi in quella maniera dalle retrovie alla linea del fronte, così potevano ovviare in parte al limitato volume dei vani interni dei semicingolati nonché delle ridotte capacità nella mobilità fuoristrada di buona parte degli autocarri in dotazione alla Wehrmacht. Inoltre, quando la fanteria accompagnava dappresso i panzer ne riduceva anche le eventuali lacune difensive nei confronti degli attacchi anticarro nemici: infatti, in caso di pericolo, sarebbero smontati rapidamente dal mezzo e con le loro armi individuali e di accompagnamento avrebbero ingaggiato i nuclei di soldati inglesi fornendo protezione al panzer. Quel giorno Cagny e il suo circondario gli si presentarono con un aspetto lunare, effetto delle devastanti esplosioni delle bombe sganciate dagli aerei alleati che avevano disseminato la campagna di crateri, enormi buchi nel terreno che, però, contribuirono a rallentare proprio il movimento delle truppe corazzate di Montgomery, esponendole agli agguati dei tedeschi.
Le divisioni corazzate britanniche, articolate su una brigata corazzata e una di fanteria, impiegarono i fucilieri nella bonifica e nella presa di possesso definitiva delle aree urbanizzate che erano state precedentemente attaccate dai carri armati. Ma a questo punto, le unità corazzate che condussero gli ulteriori, successivi, slanci offensivi si vennero a trovare praticamente prive del supporto della fanteria che era impegnata altrove, dunque alla mercé del diffuso fuoco erogato dai cannoni anticarro tedeschi, in particolare degli “ottantotto”, che erano stati polverizzati sull’intera fascia difensiva a gruppi di quattro-cinque per batteria. (³)
In serata Montgomery subì l’ennesimo stop, stavolta presso la dorsale di Bourguébes, a circa nove chilometri a sud-est di Caen. Per conquistare quelle alture tenacemente difese dal nemico, i britannici dovettero combattere per l’intero 19 luglio e poi, ancora, anche il giorno successivo, quando però la pioggia torrenziale smorzò definitivamente la loro offensiva. Finalmente il capoluogo del Calvados era stato preso ai tedeschi, ma al prezzo assai elevato della morte di migliaia di soldati e della distruzione di 413 carri armati. Nella quarta battaglia per Caen la 16ª Divisione terrestre della Luftwaffe perse il 75% dei suoi effettivi, mentre la 12ª SS Panzerdivision ne uscì fuori solo con un battaglione di fanteria e poco più di quaranta carri armati. Adesso il settore a nord del fiume Orne si trovava nelle mani degli Alleati, fino a quel momento quella martoriata città aveva subito dei danni ingenti e notevole era il numero dei morti fra la popolazione civile, soprattutto a causa del bombardamento aereo alleato. Riferendosi a quella battaglia il comandante supremo dello SHAEF ebbe poi a dire che:
«Le truppe britanniche sono avanzate per sole sette miglia a un ritmo di mille tonnellate di bombe ogni miglio».
Un’espressione che rese con immediatezza la drammaticità di quello scontro. Lo stesso Eisenhower, in seguito deprecò l’eccessiva prudenza manifestata da Montgomery nella guida sul campo del XXI Gruppo di armate, ma pur esprimendo disappunto per quel parziale fallimento, dopo averlo incontrato in Francia il giorno 20 luglio, decise di non rimuoverlo dall’incarico di comando. Perché?
In fondo, malgrado tutto, Montgomery era comunque riuscito a costringere i tedeschi a concentrare le loro divisioni corazzate nella zona di Caen, favorendo così l’azione degli americani nel settore occidentale del fronte. Con le sue diciassette divisioni (tredici di fanteria e quattro corazzate) l’US Army si trovò in netta superiorità rispetto all’avversario, che invece schierava nove divisioni delle quali soltanto due corazzate, unità peraltro provate da un mese e mezzo di duri combattimenti. La VII Armata tedesca si trovò in condizioni di marcata debolezza e in quello specifico settore del fronte fu in grado di schierare a difesa soltanto due divisioni di fanteria a organici completi prive però di un adeguato numero di mezzi corazzati per un contrattacco, quindi dovette limitarsi ad arginare l’avanzata americana in attesa di un eventuale rinforzo portato da quelle unità corazzate che, in realtà, erano bloccate dai britannici nel settore orientale. Probabilmente Eisenhower ritenne più opportuno evitare di sostituire una figura di vertice di quel livello nel pieno di una battaglia non ancora definitivamente risolta con successo. Questo nonostante il fatto che il primo di agosto sarebbe stata stabilita l’attivazione della III Armata statunitense, con la conseguente formazione del XII Gruppo di armate. Il comandante in capo dello SHAEF avrebbe anche potuto assumere da subito il comando diretto sul campo di tutte le forze alleate in Francia, ma non lo fece per delicatezza e arguzia: infatti, cosa avrebbe potuto influire la rimozione forzata del più famoso generale dell’esercito britannico sulla tenuta della coalizione, soprattutto in un contesto difficile come quello che si era venuto a determinare sul campo? (⁴)
A partire dal 20 di luglio e per i due giorni seguenti, l’imperversare del maltempo sulla Francia settentrionale imposero un forzato rinvio dell’operazione Cobra. Ai notevoli ritardi accumulati sul campo rispetto al timing previsto nella pianificazione operativa di Overlord si aggiunsero quindi anche quelli dovuti alle avverse condimeteo. Come affermato in precedenza, la conquista dello strategico nodo stradale di Saint-Lô per gli americani risultò propedeutico al successivo sfondamento delle linee tedesche e alla penetrazione in direzione della Bretagna. Nel suo settore l’US Army si trovò di fronte il 2° Gruppo paracadutisti (Fallschirmjäger), all’incirca 3.500 soldati ai quali i comandi tedeschi avevano aggregato anche numerosi elementi raccolti in modo disparato dalle quattro preesistenti divisioni di fanteria della Wehrmacht schierate in zona, formando così un gruppo di combattimento; sempre nell’area di Saint-Lô si trovava anche ciò che restava della Panzer Lehr Division, unità richiamata in servizio nonostante soffrisse notevoli carenze in termini di personale e di materiali d’armamento. Questa indebolita unità corazzata oppose comunque per alcuni giorni una tenace resistenza all’avversario, ma il suo destino era ormai segnato, dato che sarebbe stata travolta dalla preponderante forza degli americani. Nel corso della mattinata del 19 luglio i tedeschi vennero ricacciati indietro di sei chilometri e Saint-Lô cadde in mano americana. La città venne conquistata dalla 29ª Divisione, appoggiata dalla 35ª Divisione di fanteria appartenente al XIX Corpo comandato dal generale Willis D. Crittemberger, unità che ebbero ragione dei paracadutisti tedeschi guidati dal generale Eugen Meindl. Fu un’impresa non facile, perché i Fallschirmjäger del II Corpo resistettero con forza, recando ingenti perdite nelle file nemiche, circa 5.000 militari americani caddero infatti sul campo. (⁵)
Il fallito tentativo di sfondamento delle linee tedesche tra Caen e Falaise, che vide duramente impegnati la riserva corazzata della I Armata canadese e due corpi d’armata (il I britannico e il II canadese), noto come operazione “Spring”, venne pianificato in modo che avesse inizio negli ultimi giorni di luglio, in contemporanea con l’operazione “Cobra” condotta dagli americani nel settore occidentale del fronte. Come avvenuto in occasione delle offensive lanciate in precedenza, i velivoli alleati, in questo caso dell’USAAF, attaccarono preventivamente le linee tedesche. Fu un devastante bombardamento di saturazione lungo un fronte esteso per sette chilometri e profondo quasi tre che portò alla quasi totale distruzione della Panzer Lehr Division, un obiettivo che gli americani si posero come indefettibile, in quanto dovevano rendere il più possibile sicuro la successiva azione delle loro truppe di terra, prevista per le ore undici del 25 luglio con le divisioni di fanteria in prima schiera, in ritardo di un giorno rispetto ai piani a causa del forzato rinvio imposto dalle pessime condizioni meteorologiche. Ma le cose non andarono completamente per il meglio: il 24 luglio, 335 aerei dei circa 1.300 per i quali era previsto l’impiego, non ricevettero in tempo utile la comunicazione del rinvio della missione sulla Normandia e, di risulta, decollarono egualmente e andarono a sganciare le loro bombe in condizioni di visibilità estremamente ridotta, in alcuni mirando addirittura corto colpendo così le prime linee dell’US Army. I casi di fuoco amico registrati quel giorno furono numerosi e a perdere la vita per gli errori dell’aviazione statunitense fu persino un generale di corpo d’armata, Lesley McNair, che in seguito verrà ricordato come l’ufficiale alleato più alto in grado caduto in Europa nel corso della Seconda guerra mondiale. (⁶)
Però gli americani non perdettero per questo il vantaggio offerto loro dal fattore sorpresa, dato che i tedeschi vennero tratti in inganno proprio dagli effetti deleteri degli errati bombardamenti dell’USAAF sulle proprie linee, ritenendo invece la sospensione dell’attacco nemico causata dal maltempo una conseguenza del fitto fuoco di artiglieria dei cannoni della Wehrmacht. Ma, va in ogni caso rilevato, che le undici divisioni tedesche che ancora tenevano quel settore del fronte malgrado la tenacia e l’abnegazione dimostrata non avrebbero comunque potuto resistere a lungo alla pressione nemica: il bombardamento a tappeto americano aveva provocato 5.000 morti e ingenti danni agli armamenti di unità che erano ormai allo stremo delle forze. Al riguardo, il generale Fritz Bayerlein, comandante della martoriata Panzer Lehr Division, si sentì in dovere di comunicare al feldmaresciallo von Kluge che le difese non avrebbero retto più di ventiquattro ore di fronte all’imminente offensiva lanciata da quindici divisioni dell’US Army. In tre giorni i due corpi d’armata americana (il VII e l’VIII) fecero arretrare i tedeschi per dodici chilometri, sfondando il fronte il 27 luglio, assicurandosi così un varco in aperta campagna. Il giorno 28, dopo uno sforzo in penetrazione di ben diciassette chilometri, le unità del VII Corpo entrarono nel villaggio di Coutances e, due giorni più tardi, gli americani occuparono l’importante nodo stradale di Avranches, cittadina sita alla base della penisola di Cotentin, che adesso era totalmente sotto controllo alleato.
Il 27 luglio fu anche il giorno in cui Bradley lasciò il comando dell’VIII Corpo al generale Patton: il primo agosto 1944 la III Armata statunitense venne dichiarata operativa, quindi il generale Bradley assunse la guida del XII Gruppo di Armate, mentre il suo vice, il generale Courtney Hodges, quello della I Armata. Come si vedrà, i pericoli per la III Armata insiti in una penetrazione in Bretagna derivavano dalla scarsa copertura, offerta in quel momento esclusivamente dal controllo alleato dell’area di Avranches. Se i tedeschi avessero condotto con successo un contrattacco in quel settore del fronte avrebbero potuto tagliare fuori gli uomini di Patton e poi imbottigliarli. Gli americani erano al corrente del deficit in termini di carri armati che affliggeva il XXV Corpo di fanteria del generale Wilhelm Fahrmbacher, l’unità nemica che si trovava sulla loro direttrice di avanzata non disponeva delle forze corazzate necessarie a una manovra del genere, pur tuttavia, Bradley prima di dare luce verde alle operazioni in Bretagna preferì consolidare ulteriormente il fronte. In effetti, nel suo procedere verso sud-ovest la III Armata non incontrò particolari resistenze, i reparti tedeschi presenti in zona erano formati da soldati sbandati che tentavano di raggiungere le guarnigioni delle città portuali fortificate. Bradley ordinò a Patton di far convergere in Bretagna l’VIII Corpo mentre il resto della III Armata puntava sulla cittadina di Mortain, facendo sì che quattro divisioni dell’US Army si scontrassero col XXV Corpo d’armata tedesco. Otto giorni dopo Mortain sarebbe stata teatro di un disperato contrattacco ordinato personalmente da Hitler, un’azione priva di concrete prospettive di successo della quale, peraltro, i servizi di intelligence alleati erano venuti a conoscenza con un relativo anticipo grazie alla decrittazione resa possibile da Ultra dei messaggi trasmessi dai tedeschi.
Il fianco sinistro della VII Armata tedesca venne sempre più penetrato dagli americani, von Kluge si trovò di fronte alla drammatica evidenza dei fatti e, dal canto suo, tentò di arginare l’avanzata nemica spostando nell’area due divisioni panzer, la 116a. e la 2a. SS, che il 29 luglio contrattaccarono presso il villaggio di Percy infliggendo sensibili perdite alle unità aggregate al XIX Corpo statunitense che avanzavano verso sud, cioè la 4a. Divisione di fanteria e la 2a. corazzata. Però fu tutto vano, perché dopo un giorno di combattimenti i tedeschi dovettero cedere il campo e, la sera del 30 luglio, i tank dell’US Army fecero il loro ingresso ad Avranches, catturando intatto il ponte di Pontaubault. Il rapido trasferimento in zona della 2a. SS e della 116a. fu un provvedimento tardivo, in quanto von Kluge e gli ufficiali del suo quartier generale compresero soltanto il giorno 27 quale fosse la reale entità costituita dal dispositivo militare statunitense nel settore occidentale del fronte normanno, però a quel punto a nulla valse il trasferimento a ovest delle due unità corazzate del XLVIII Panzerkorps. Soltanto allora i tedeschi si resero conto che non ci sarebbe mai stato un altro sbarco nemico al Passo di Calais e che, aspetto drammatico, presto gli americani sarebbero penetrati in Bretagna. Per i tedeschi il possesso di Avranches rivestì importanza vitale per la tenuta dell’intero fronte e dunque venne tentata l’ennesimo riconquista della cittadina, ma anche stavolta senza successo e non certo per demerito dei soldati che furono impegnati nel difficile contrattacco: la 77a. Divisione di fanteria e gli sbandati delle altre unità che a essa vennero aggregati, insieme ai paracadutisti della 5a. Divisione, tutti militari inviati da von Kluge ad Avranches, dissiparono le loro ultime forze nella temporanea riconquista del ponte di Pontaubault, strappandolo per poche ore a un avversario di molto preponderante in termini di uomini e mezzi.
Il primo di agosto, ceduto il fianco sinistro tedesco, il generale Patton attraversò il fiume Sélune alla testa delle sue sette divisioni dirigendosi verso la Bretagna. I suoi prossimi obiettivi sarebbero stati i porti fortificati di Brest, Lorient e Saint-Nazaire. Brest era a trecento chilometri da Avranches, una distanza non certo incolmabile, però, come si vedrà in seguito, il ritardo degli alleati nell’avanzata e nel consolidamento del fronte nel settore alla base della penisola di Cotentin offrirà ai tedeschi l’opportunità di rinforzare le loro difese nell’importante città portuale della Bretagna, impedendone così l’occupazione del nemico attraverso un eventuale repentino colpo di mano. Il controllo della Bretagna non avrebbe comunque riflesso effetti apprezzabili sul complessivo corso delle operazioni alleate in Francia, i porti, considerati a ragione come obiettivi principali nei piani per l’apertura di un secondo fronte in Europa, non vennero conquistati nei tempi utili a un loro successivo utilizzo nel corso della campagna. Gli americani avrebbero fatto ingresso a Brest il 19 settembre, mentre Lorient e Saint-Nazaire si sarebbero arrese addirittura solo alla fine della guerra. Tardi per gli scopi cui gli strateghi dello SHAEF si erano posti. In ogni caso, agli Alleati già al momento dell’occupazione della guarnigione di Cherbourg apparve chiara l’inutilità della conquista dei porti bretoni, dato che si ebbe la certezza che i tedeschi li avrebbero resi inservibili prima di cederli al nemico.
Note
(¹) L’operazione Bagration fu l’attacco sovietico condotto in direzione della Bielorussia e della Polonia finalizzato all’accerchiamento e alla distruzione dell’Heersgruppe MItte comandato dal feldmaresciallo Ernst Busch. L’Armata rossa attaccò al comando dei marescialli Aleksandr Vasilevskij e Georgij Žukov e provocò il rapido esaurimento delle già scarse riserve della Wehrmacht, vanificando così ogni residua possibilità dei tedeschi di trasferire unità terrestri e aeree dal fronte russo a quello occidentale, accelerando, di fatto, il crollo del III Reich, inesorabilmente verificatosi undici mesi dopo. All’operazione Bagration presero complessivamente parte circa due milioni di uomini e 6.000 carri armati. Le divisioni tedesche vennero rapidamente travolte e il feldmaresciallo Busch venne sostituito con il parigrado parigrado Walter Mödel.
(²) Lo Sturmgeschütz era un semovente d’assalto realizzato mediante l’utilizzazione degli scafi del carro armato medio Pzkpfw. III (Panzerkampfwagen III), mezzo che era ormai divenuto non più idoneo all’impiego in combattimento di prima linea. Lo Sturmgeschütz venne in seguito adattato al ruolo di caccia carri attraverso l’installazione in casamatta di un pezzo controcarro da 75/46 millimetri; particolarmente efficace nell’ingaggio dei carri medi nemici alle medie distanze, restò in produzione dal 1942 al 1945. Di esso ne venne realizzata anche una variante dotata di obice da 105/28 millimetri.
(³) Oltre al noto cannone da 88 millimetri Pak 43, i tedeschi utilizzarono ampiamente anche un altro pezzo controcarro rimorchiato, il Pak 40 in calibro 75 millimetri.
(⁴) La VIII Armata tedesca schierava le seguenti unità: 77a. Divisione di fanteria al comando del generale Rudolf Stegmann, 91a. Divisione di fanteria al comando del generale Eugen König, 243a. Divisione di fanteria al comando Heinz Hellmich, della 709a. Divisione di fanteria al comando del generale Karl-Wilhelm von Schlieben, 17a. SS Panzergrenadier-Division al comando del Brigadeführer Werner Ostendorff.
(⁵) Si trattò di un dispositivo debole, certamente non in grado di arrestare l’offensiva degli americani; infatti, sia il 2° Corpo paracadutisti che l’LXXXIV Corpo d’armata, provati dai combattimenti delle settimane precedenti, disposero di una ridotta riserva formata esclusivamente da quattro battaglioni della 275a. Divisione statica.
(⁶) Il generale di corpo d’armata Lesley McNair, comandante delle forze terrestri statunitensi, venne erroneamente ritenuto dai tedeschi come il sostituto di Patton data l’assunzione del comando del FUSAG da parte di quest’ultimo. Durante i bombardamenti aerei dell’USAAF i morti americani a causa di fuoco amico furono venticinque il giorno 24 e centoundici il giorno successivo.
Verso il crollo del fronte tedesco in Francia settentrionale
I primi giorni di agosto per i tedeschi la situazione si fece estremamente critica: la VII Armata del generale Hausser era stata quasi completamente annientata e nelle medesime condizioni si trovò anche il Panzergruppe West, che il 5 agosto assunse la denominazione di V Armata Panzer; sul campo di battaglia rimasero solo dei gruppi di combattimento di ridotta consistenza (delle dimensioni di un battaglione), che evidenziavano gravi carenze nella loro linea di comando. I pochi panzer ancora in grado di muovere nonostante la scarsità di carburante costituirono comunque un serio pericolo per le colonne alleate in avanzata. Il 30 luglio il generale von Kluge aveva effettuato delle sostituzioni al vertice del LXXXIV Corpo d’armata, rimuovendo inoltre il capo di stato maggiore della VII Armata e assumendone personalmente il comando. Le condizioni meteorologiche stavano migliorando e questo significava che le forze aeree tattiche alleate avrebbero ripreso a pieno regime la loro attività, attaccando ripetutamente le posizioni tedesche, danneggiando in modo grave anche le capacità di rifornimento nemiche, indispensabili per l’alimentazione del munizionamento e del carburante ai reparti di prima linea, in particolare alle unità artiglieria controcarri e a quelle corazzate, capacità basate in buona parte ancora sul trasporto a mezzo di carri ippotrainati. (¹)
All’inizio del mese di agosto, dopo che la III Armata di Patton ebbe conquistato la città di Rennes, iniziarono anche i combattimenti nella zona di Mont Pinçon. Si trattò di una delle parentesi più sanguinose della battaglia nella cosiddetta Suisse normande, dove nel corso dell’operazione “Bluecoat” il XXX Corpo britannico si scontrò con le unità del LXXIV Corpo tedesco affluite nell’area dalla Bretagna. Mont Pinçon venne conquistato il 6 agosto dalla 59a. Divisione di fanteria Wessex lo stesso giorno in cui il XIX Corpo statunitense si attestò insieme ad altre forze britanniche sul fiume Vire. Due giorni dopo, l’8 di agosto, Patton entrò a Le Mans. (²)
Nel frattempo, però, si erano verificati ulteriori sviluppi della situazione: il giorno 3 Hitler aveva iniziato a dar corpo ai piani della citata controffensiva a Mortain, mentre il 4 era iniziato l’attacco americano alla piazzaforte corazzata di Saint-Malo, che, contrariamente alle aspettative alleate, sarebbe durato tredici giorni. Esaminiamo gli avvenimenti uno alla volta. Il 3 agosto il Führer ordinò che la linea tra i fiumi Orne e Vire venisse difesa esclusivamente da unità della fanteria, questo gli permise di concentrare a ovest del fronte le quattro divisioni corazzate che riuscì a recuperare raschiando il barile del suo dispositivo militare in Francia settentrionale. Egli era fermamente intenzionato a sferrare un contrattacco che, attraverso la base della penisola di Cotentin, puntando sulla città di Avranches, avrebbe tagliato a metà le forze statunitensi di Patton imbottigliandone la parte più avanzata. La responsabilità di questo attacco disperato, denominato in codice “operazione Lüttich”, ricadde sul comando del XLVII Corpo, che avrebbe mosso le unità corazzate a partire dal villaggio di Mortain. (³)
Si trattò fin dall’inizio di un’impresa praticamente impossibile data la totale mancanza di copertura aerea della Luftwaffe, al contrario della forza aerea tattica degli Alleati, che in quella fase era ormai schierata in Normandia quasi al completo. Tutto si sarebbe consumato in un giorno, dopo che i tedeschi, sfondato a Mortain, non riuscirono però a impossessarsi delle alture sovrastanti da oriente la cittadina, la cosiddetta Collina 317. La conquista americana di Mortain e il contestuale sforzo offensivo a sud-est in direzione del fiume Vire, erano finalizzati all’allargamento del corridoio alla base della penisola di Cotentin, una porzione di territorio strappata al nemico larga solo venticinque chilometri attraverso la quale, provenienti da Avranches, affluivano i rinforzi e i rifornimenti destinati alle divisioni dell’US Army che nel frattempo stavano avanzando in Bretagna e nella valle della Loira. Nelle intenzioni di Hitler, il contrattacco nella zona di Mortain avrebbe dovuto isolare la III Armata statunitense recidendone le linee di collegamento e alimentazione logistica; una prova di forza in quel settore del fronte avrebbe posto le basi per la successiva offensiva mediante la quale il nemico sarebbe stato ricacciato indietro da dove era venuto, nelle acque del canale della Manica. Hitler avrebbe voluto confinare le divisioni angloamericane nella loro testa di ponte per infliggergli pesanti perdite, indebolirle e, alla fine, distruggerle. Seppure di diverso avviso al riguardo, il feldmaresciallo von Kluge una volta ricevuti gli ordini dalla Germania dovette comunque assecondare i desideri del suo Führer. (⁴)
L’attacco prese il via nella notte tra il 6 e il 7 agosto, quando von Kluge impiegò i 250 carri che in precedenza era riuscito a concentrare nell’area. Non venne effettuato alcun fuoco di sbarramento alo scopo di sfruttare al massimo il fattore sorpresa, ma Bradley, preavvertito dell’attacco tedesco dal servizio informazioni, allertò la 30a. Divisione statunitense, che attraverso il fuoco erogato dai suoi pezzi di artiglieria e dai suoi mortai riuscì a rallentare l’avanzata dei corazzati nemici. Sarà proprio la 30a. Divisione in seguito a mantenere il possesso della strategica Collina 317. La mattina del 7 agosto i tedeschi si avvicinarono lo stesso ad Avranches, andando però incontro al loro tragico destino: indeboliti, privi di carburante a sufficienza e in inferiorità numerica rispetto al nemico i panzer vennero annientati. Già il giorno 8 risultò evidente il disastroso esito dell’operazione Lüttich: l’intero Gruppo Armate B fu accerchiato dagli angloamericani. Infatti, con il supporto dei bombardieri della RAF la notte precedente aveva avuto inizio l’operazione “Totalize”, l’attacco del II Corpo canadese in direzione sud partito da Caen. (⁵)
Il 9, sulla base degli ordini ricevuti, il XLVII Corpo panzer mantenne le posizioni, nel frattempo l’obergruppenführer Dietrich avrebbe rilevato il comando della V Armata corazzata dal generale Eberbach, consentendo così la riunione di tutti i carri armati disponibili nel neo costituito Panzergruppe Eberbach, una grande unità dalle dimensioni di un’armata posta alle dipendenze amministrative della VII Armata del generale Hausser. L’11 agosto Montgomery spinse le unità canadesi verso le località di Falaise e Argentan, agendo così in sincronia con Bradley, che sempre su Argentan avrebbe fatto convergere il XII Gruppo di Armate che in quel momento era attestato presso Alençon. Una manovra tesa a completare l’accerchiamento delle forze nemiche, che vide però le unità canadesi arrestarsi, nonostante la loro superiorità numerica, dopo un’avanzata di quindici chilometri: Falaise restava quindi ancora in mano tedesca. Lo stesso giorno, nel timore che la V Armata corazzata di Dietrich e la VII Armata di Hausser rimanessero intrappolate ordinò l’interruzione dell’operazione Lüttich, ma comunque senza autorizzare il ripiegamento delle truppe. Il 12 agosto la testa del XV Corpo statunitense raggiunse i pressi di Argentan. In quelle stesse ore Montgomery pianificava l’attacco successivo, che avrebbe dovuto condurre allo sfondamento del fronte nemico a Falaise, l’operazione “Tractable”, prevista per il 14 di agosto: per il momento britannici e canadesi avrebbero dovuto limitare i loro movimenti in attesa dell’imminente ordine di attacco.
Ma adesso spostiamoci per un attimo a occidente, sulla costa della Bretagna, dove otto giorni prima, il 4 agosto, la piazzaforte di Saint-Malo, comandata dal colonnello von Aulock, era stata attaccata dall’83a. Divisione di fanteria statunitense. Si trattava di una piazzaforte fortemente protetta, un complesso fortificato che faceva parte del più vasto Vallo atlantico. La città portuale era circondata da un anello di bunker e, a largo delle sue coste, a circa cinque miglia nautiche di distanza, l’isolotto di Cezembre era stato trasformato in un a fortezza allo scopo di difendere l’accesso agli approdi. la guarnigione di Saint-Malo capitolò tredici giorni dopo, il 17 agosto, ma l’avanzata americana lungo la costa in direzione del successivo obiettivo, Brest, venne però in qualche modo rallentata dall’ulteriore accanita resistenza opposta dalle forze che rimasero a combattere a Cezembre. (⁶)
La guarnigione, trovatasi ormai quasi completamente isolata, riuscì a ricevere minimi quantitativi di rifornimenti solo attraverso rocamboleschi trasporti via mare effettuati per mezzo di piccoli battelli salpati dall’isola di Jersey. Ricevuta via radio l’autorizzazione alla resa dal Quartier Generale Navale tedesco delle Isole del Canale, il presidio militare di Cezembre issò bandiera bianca alle sette e mezza della sera del giorno 2 settembre, proprio mentre il 303° battaglione di fanteria dell’US Army si stava apprestando a lanciare un attacco anfibio, probabilmente quello decisivo, sull’isolotto.
Note
(¹) In realtà, nonostante la spinta motorizzazione e meccanizzazione e al mito del Blitzkrieg che l’ammantò, la Wehrmacht dovette pianificare le sue operazioni tenendo conto di “due velocità”. Esse furono imposte dalla preponderante presenza della componente di fanteria (80% del totale dell’esercito), che fino alla fine della guerra rinvenne nel mulo e nel cavallo degli insostituibili strumenti coi quali soddisfare i propri bisogni di mobilità e di trasporto. Nel 1939 il numero di equini in servizio nella Wehrmacht ammontava a circa 590.000 unità, inoltre va considerato che, sempre negli anni Trenta, in Germania il cavallo trovava largo impiego anche nel lavoro agricolo, con 3.400.000 esemplari in attività. I tedeschi impiegarono il cavallo in tutti i teatri operativi tranne in quello dell’Africa settentrionale, al quale si adattava esclusivamente una forza totalmente motorizzata e il rapporto medio soldato-cavallo fu di 4 a 1, quindi per una divisione di fanteria tipo dell’esercito tedesco il doppio di quanto era stato nella guerra del 1914-18. Nel corso della campagna di Russia la pianificazione tedesca previde la priorità di movimento per le unità corazzate e motorizzate, seguite poi dalle unità di seconda linea che si spostavano invece a piedi, in bicicletta o a cavallo. In Normandia nel 1944 le lente colonne ippotrainate in movimento sulle strade non ebbero scampo, mossero solo di notte e per brevi distanze, ma vennero egualmente falcidiate in modo inesorabile dai cacciabombardieri angloamericani. Le divisioni di fanteria, prima di ripiegare, furono perciò costrette a fare arretrare l’artiglieria a traino ippico con congruo anticipo, privandosi così dell’unica difesa a largo raggio di cui disponevano. Dal 6 giugno 1944, giorno dello sbarco, alla fine di agosto dello stesso anno, i tedeschi, pressati da armate alleate completamente motorizzate, persero 1.500 cannoni. All’inizio del febbraio 1945 la Wehrmacht disponeva ancora di oltre un milione di cavalli.
(²) Alcuni storici affermano che Montgomery al termine dell’operazione Bluecoat, in qualche modo frustrato dai limitati progressi ottenuti sul campo rispetto all’alleato statunitense, abbia rimosso dal comando i generali Erskine e Bucknall con l’accusa di non avere motivato adeguatamente le truppe in forza alle loro unità.
(³) La controffensiva a Mortain venne denominata in codice operazione Lüttich in quanto avrebbe dovuto ricalcare l’offensiva sferrata in Belgio nel corso della Prima guerra mondiale dal generale Erich von Ludendorff durante la battaglia di Liegi. All’inizio del conflitto Ludendorff, già comandante del 39° Reggimento fucilieri, nominato al grado superiore venne assegnato allo stato maggiore del generale von Emmich, dove mostrò grande spirito d’iniziativa riuscendo con la sua brigata ad aprire un varco nella linea dei forti. Lüttich è appunto la traduzione in lingua tedesca del toponimo “Liegi”.
(⁴) Il comandante del Gruppo Armate B riteneva, al contrario di Hitler, che fosse più opportuno raggruppare tutte le forze disponibili in posizione difensiva all’interno della Francia, evitando in tal guisa il collasso del dispositivo militare tedesco in Normandia.
(⁵) All’operazione Totalize prese parte anche la 1a. Divisione corazzata polacca al comando del generale Maczek.
(⁶) Sull’isolotto di Cezembre era presente un’eterogenea guarnigione, composta da circa trecento uomini di diversa nazionalità: tedeschi, italiani e russi.
L’accerchiamento della sacca di Falaise e l’operazione “Dragoon” in Provenza
I combattimenti avvenuti fra il 12 e il 25 agosto prelusero alla liberazione di Parigi. Fino al giorno 14 la I armata canadese limitò i suoi movimenti sul terreno e, attestatasi nell’area di Laize-la-Ville, si preparò per l’imminente offensiva pianificata per il mattino del giorno 14, quando scattò la già citata operazione Tractable. Dopo un bombardamento a tappeto dagli effetti devastanti, che anche stavolta provocò numerose vittime tra le stesse forze alleate, prese avvio l’offensiva terrestre. (¹)
La 2a. e la 3a. Divisione di fanteria insieme alla 4a. Brigata corazzata attaccarono i tedeschi, liberando il giorno 17, ma non senza difficoltà, la città di Falaise. A questo punto le grandi unità di von Kluge (VII Armata, Panzergruppe Eberbach e buona parte della V Armata corazzata) rischiarono di rimanere intrappolate in una “sacca”. Nei drammatici giorni dell’estate 1944 che precedettero e accompagnarono la liberazione della capitale francese da parte degli Alleati, cioè in quella fase della Battaglia di Normandia nota come “accerchiamento della sacca di Falaise”, vennero registrati episodi di abnegazione ed eroismo, tragedie che investirono singoli individui, polemiche, indugi e recriminazioni.
Patton, fornendo una conferma della sua proverbiale irruenza e della spigolosità del suo carattere, avrebbe voluto lanciare il XV Corpo a nord di Argentan con l’obiettivo di imbottigliare le forze nemiche, che in quel momento cercavano disperatamente di porsi in salvo evacuando la sacca di Falaise che, da un momento all’altro, si sarebbe potuta chiudere a tenaglia intrappolandoli. Però Bradley fu decisamente contrario a questa iniziativa, ritenendola eccessivamente azzardata. Il comandante del XII Gruppo di Armate, dimostrandosi (a ragione) prudente, volle evitare che la III Armata statunitense rimanesse completamente tagliata fuori come effetto di una repentina puntata a nord delle forze di Patton. Bradley non era un temerario, bensì un uomo avveduto, egli stimò i tedeschi per ciò che realmente erano: un avversario che sul terreno si era rivelato tatticamente superiore agli americani e, inoltre, andava considerato che tra i soldati della Wehrmacht e delle Waffen SS che stava fronteggiando in Normandia vi erano numerosi combattenti reduci da ben più impegnativi accerchiamenti subiti sul fronte russo. Le sue riflessioni lo portarono alla conclusione che, nonostante le forze alleate godessero del totale dominio dei cieli, che di risulta permetteva il continuo supporto aereo, non si trovavano però nelle condizioni di venire impiegate in manovre come quella concepita da Patton. Dunque, dimostrando un adeguata dose di pragmatismo, Bradley bloccò la III Armata ad Argentan fino a quando la I Armata del generale Courtney H. Hodges non lo avesse raggiunto attestandosi sulle sue posizioni. Questa decisione, immancabilmente, generò una dura polemica in seno ai vertici dell’US Army. Il “collo” della sacca di Falaise non venne dunque strozzato e questo permise a numerosi tedeschi di ritirarsi in direzione di Parigi, però così facendo Bradley evitò di esporre su entrambi i lati la sua minuta linea del fronte ai possibili contrattacchi nemici, un genere di operazioni che, loro malgrado, i tedeschi avevano imparato a condurre in modo magistrale sul fronte russo tutte le volte che erano stati accerchiati dall’Armata rossa.
Nel frattempo, il giorno 15, sulle coste meridionali della Francia aveva preso avvio l’operazione “Dragoon”, cioè lo sbarco anfibio in Provenza di tre divisioni dell’US Army appartenenti al VI Corpo (3a., 36a. e 45a. Divisione di fanteria), rinforzate dalla 1a. Divisione corazzata francese e da reparti paracadutisti e commando britannici. Un’operazione che non influì sulle dinamiche belliche in quello stesso momento in atto sul fronte settentrionale, che però, grazie alla scarsa resistenza opposta dai tedeschi in quel settore (buona parte delle unità appartenenti al Gruppo Armate G era stato precedentemente inviato in rinforzo in Normandia), gli Alleati poterono penetrare nell’interno per 32 chilometri in un solo giorno, consentendo così ai partigiani francesi di incrementare le loro attività armate contro l’occupante nella zona della capitale.
In una delle sue elaborazioni originarie poi accantonata, la pianificazione aveva previsto un impiego congiunto di forze militari alleate e uomini della resistenza francese nelle operazioni finalizzate alla liberazione delle città portuali di Tolone e Marsiglia. A seguito della liberazione della città di Roma in Italia, avvenuta il 4 giugno 1944 e del successivo esito positivo dell’operazione “Cobra”, che aveva portato allo sfondamento del fronte tedesco in Normandia, per il giorno 15 agosto venne stabilito il D-Day (o jour-J, secondo la denominazione francese). Allo specifico scopo, in Corsica gli americani il primo agosto attivarono il VI Gruppo d’Armata (o Gruppo d’Armata Meridionale) ponendolo sotto il comando del tenente generale Devers, grande unità all’interno della quale sarebbero state coordinate le forze statunitensi e quelle francesi. Inizialmente dipendente dal quartier generale delle forze alleate (Allied Forces Headquarters, AFHQ), quindi diretta dal generale Sir Henry Maitland Wilson, comandante supremo alleato per il teatro del Mediterraneo, un mese dopo lo sbarco sulle coste della Provenza transitò alle dipendenze dello SHAEF.
I settori di sbarco vennero compresi in una fascia costiera estesa dalla località di Le Lavandou fino a un punto situato molto oltre la città di Saint-Raphaël. La 3a. Divisione di fanteria sbarcò nel settore denominato in codice Alpha Beach, presso Cavalaire-sur-Mer, la 45a. sulla Delta Beach a Saint-Tropez e la 36a. sulla Camel Beach. In contemporanea alle operazioni di sbarco, che vennero supportate da un imponente dispositivo navale che annoverava diverse portaerei (che coi loro velivoli imbarcati fornirono adeguata copertura), ebbe luogo anche la presa di terra della 1a. task force aviotrasportata costituita dalla 2a. Brigata paracadutisti britannica, dal 517° team di combattimento statunitense (paracadutisti) e da un gruppo di combattimento composto dal 509° e 551° Battaglione paracadutisti e dal 550° Battaglione aviotrasportato per mezzo di alianti. Nel corso del primo giorno di operazioni svolte sulla costa provenzale vennero sbarcati oltre 94.000 uomini e 11.000 veicoli di vario genere e tipo. Data la modesta resistenza opposta dai tedeschi la testa di ponte venne consolidata con relativa facilità e ben presto iniziò la marcia in profondità nell’entroterra francese, seppure alcune difficoltà verificatesi nel flusso logistico impedì alle forze alleate di esplicare appieno le proprie potenzialità. Il primo contatto con le altre forze alleate provenienti dalla Normandia avvenne alla metà del mese di settembre presso la città di Digione.
Nel frattempo, al nord, il 17 agosto si era andata consumando la tragedia personale del feldmaresciallo von Kluge. Due giorni prima il comandante dell’OB West era stato colpito dal fuoco di un aereo nemico mentre in automobile si recava al fronte per incontrare il generale Eberbach e, in conseguenza di ciò, era rimasto disperso nella caotica situazione della sacca di Falaise. Per alcune ore von Kluge non riuscì a comunicare né col proprio comando né tantomeno con Hitler, fatto che aveva ingenerato i sospetti di quest’ultimo. Il collegamento che il Führer fece tra il presunto allontanamento dell’alto ufficiale della Wehrmacht all’attentato che egli aveva subìto a opera dei congiurati del piano “Valchiria” meno di un mese prima, fu sufficiente per destituirlo dall’importante incarico di comando in Normandia, sostituendolo il giorno 18 col suo parigrado Walter Mödel. Richiamato in Germania, von Kluge preferì congedarsi dai suoi soldati, scrisse una lettera a Hitler nella quale lo esortò a porre fine alla guerra e, infine, si tolse la vita.
Dal canto suo Mödel fece il possibile per ritardare al massimo la chiusura della tenaglia che era in procinto di chiudere la sacca di Falaise, soprattutto dopo che le ulteriori manovre condotte dal II Corpo canadese e dal V Corpo avevano ridotto a pochi chilometri la larghezza del corridoio praticabile dalle forze superstiti tedesche al fine di sottrarsi all’accerchiamento totale. Attraverso di esso transitarono la VII Armata e i resti della V Armata corazzata, che ricevettero la copertura del II Corpo corazzato delle SS e dei paracadutisti della 3°a. Divisione (che impegnarono duramente i canadesi a nord) e del XLVII Corpo corazzato, che invece ritardò l’avanzata degli americani a sud. In questo modo migliaia di soldati tedeschi riuscirono a fuggire verso est.
Il 19 agosto le avanguardie della III Armata statunitense raggiunsero la Senna a Mantes-la-Joile. Il giorno seguente anche l’oberstgruppenfüher Hausser rimase gravemente ferito e, seppure riuscì a sottrarsi alla cattura a Falaise, non fu più in condizioni di guidare la VII Armata. Il 21 agosto le truppe polacche e quelle statunitensi si congiunsero a Chambois, ma non riuscirono a chiudere completamente la sacca, in quanto restava ancora un varco aperto lungo il corso del fiume Dives fino al villaggio di Trun. Gli ultimi tedeschi che si sottrassero alla morte o alla cattura poterono farlo fino al giorno 24 agosto grazie a un ponte di fortuna gettato sulla Senna dai genieri della Wehrmacht, che protetti dal fuoco degli ultimi ragazzi della 12a. SS Panzerdivisionen Hitlerjugend, garantirono il transito dei loro camerati. A Falaise la resistenza cessò il giorno successivo, dopo che gli ultimi sbandati passarono combattendo il nemico. Nei giorni dell’accerchiamento dalla sacca riuscirono a esfiltrare complessivamente circa 300.000 soldati tedeschi.
Il Trionfo della Morte, così con ogni probabilità un pittore del Trecento avrebbe descritto la scena che si presentò agli occhi dei testimoni del campo di battaglia della Normandia nell’immediatezza della fine dei combattimenti del 1944. Infatti, al pari di molti secoli addietro dopo la battaglia di Canne che oppose romani e cartaginesi, o soltanto ventisei anni prima, poco lontano da quegli stessi luoghi, nelle fangose trincee della Marna, anche sui campi della Francia settentrionale, sotto il caldo sole dell’estate, il tetro spettacolo fu il medesimo: una distesa di cadaveri in decomposizione. Risulta difficile un calcolo delle perdite in Normandia, i tedeschi ebbero 240.000 tra morti e feriti, mentre 200.000 furono i soldati dispersi o fatti prigionieri dal nemico. Nel corso dell’intera battaglia di Normandia la Germania perse complessivamente quaranta divisioni del suo esercito. I carri armati perduti (distrutti, messi fuori uso o catturati) furono 1.500, i pezzi di artiglieria 3.500, gli automezzi 20.000 e i velivoli oltre 3.600. Soltanto nella sacca di Falaise i caduti ammontarono 60.000 e prima della fine del mese di agosto tutte le forze del Reich che si trovavano a ovest delle linee alleate vennero annientate o catturate. (²)
Alla stessa data le forze alleate in Normandia avevano superato i due milioni di uomini, i veicoli erano quasi 440.000, mentre tre milioni di tonnellate di rifornimenti erano state recapitate sul suolo francese per alimentare il flusso logistico diretto alle ormai 39 divisioni combattenti sbarcate. Gli Alleati ebbero quasi 37.000 morti (su complessivi 210.000 uomini invalidati al combattimento), mentre i velivoli abbattuti dai tedeschi o precipitati al suolo per altre cause furono più di 4.100.
Il 25 agosto le quattro armate alleate (I canadese, II britannica, I e III statunitense) raggiunsero la Senna, quello stesso giorno la 2éme Division Blindée di Leclerc, inquadrata nella III Armata di Patton, liberava Parigi.
Note
(¹) I velivoli dell’8a. Forza Aerea sbagliarono nuovamente l’obiettivo e, oltreché sui tedeschi, sganciarono le loro bombe anche su canadesi e britannici. Questi ultimi a un certo punto si videro addirittura costretti ad aprire il fuoco sugli aerei americani e ne abbatterono uno. Quella volta i morti per fuoco amico furono trecento.
(²) Nonostante questo vi furono egualmente delle ripercussioni negative su alcuni comandanti di unità alleate, che vennero considerati responsabili del ritardo col quale venne chiusa la sacca di Falaise, che comportò l’esfiltrazione di numerosi militari tedeschi, compresi anche degli alti ufficiali; per questi motivi vennero rimossi dal comando alcuni ufficiali generali statunitensi e canadesi.
Parigi brucia
Attenendosi alla mera logica e applicando i principi mutuati dalla strategia militare, dopo l’annientamento del dispositivo militare nemico in Normandia, la mossa successiva degli Alleati avrebbe dovuto concretizzarsi nell’incalzamento di ciò che restava delle due armate tedesche in ritirata, questo in attesa che la guarnigione militare di Parigi capitolasse. E infatti, nei piani operativi dello SHAEF non era stata previsto alcun ingresso né tantomeno una liberazione della capitale francese; l’ala sinistra dello schieramento alleato guidata da Montgomery avrebbe dovuto puntare su Rouen e al centro il XXI Gruppo di Armate di Bradley avrebbe dovuto dirigersi sulla Senna, dove la III Armata di Patton si sarebbe poi lanciata velocemente in direzione della Lorena per congiungersi con le armate di Patch e di De Lattre, che risalivano la vallata del Rodano provenendo dalla Provenza. Questa manovra di avvolgimento da nord di von Choltitz con quasi certezza avrebbe provocato la caduta di Parigi, se non addirittura l’evacuazione della capitale francese da parte della guarnigione tedesca, timorosa di rimanervi intrappolata. Al contrario, investire direttamente una grande città come quella avrebbe imposto agli Alleati il distoglimento di rilevanti forze da quello che per loro in quel momento costituiva l’obiettivo principale: il raggiungimento del fiume Reno. Infatti, un centro urbano delle dimensioni di Parigi, presidiato da 20.000 soldati nemici con 80 panzer, 60 pezzi di artiglieria e ancora alcune decine di aerei, rappresentò un notevole fattore impeditivo che avrebbe ulteriormente rallentato l’avanzata degli angloamericani attraverso la Francia. (¹)
In seno al campo alleato emersero con evidenza divergenti interessi: nei pensieri di Eisenhower la liberazione della capitale francese non rivestiva sicuramente lo stesso livello di priorità che per De Gaulle, inoltre esistevano anche altre questioni aperte che in quella cruciale fase della campagna militare andarono a influire sulle decisioni assunte in merito alla liberazione di Parigi. L’intricata trama di trattative segrete intavolate a livello politico dagli americani allo scopo di addivenire a una resa negoziale del governo di Vichy si innestò in una contesto nel quale tutti trattavano con tutti e gli interessi in gioco in vista dell’immediato futuro, dopo la liberazione del Paese, furono molteplici. Laval trattava con Herriot, l’ammiraglio Auphan, emissario del vecchio generale Pétain, a sua volta parlamentava con gli Alleati, mentre lo stesso Laval si disse disponibile a una ricostruzione dell’Assemblea Nazionale francese così come era al momento della defaite, la disfatta del giugno 1940. Tutto questo preoccupò De Gaulle, che temeva di venire scavalcato alla guida del movimento di liberazione nazionale.
Quando, dopo lo sbarco in Provenza del giorno 15, lo SHAEF trasferì la 2éme Division Blindée dalle dipendenze del XV Corpo statunitense a quelle del V, comandato dal generale Gerow, per i gaullisti fu tutto chiaro e i loro rapporti con gli americani iniziarono a incrinarsi. Infatti, il cambio di dipendenza risultava funzionale al distoglimento dell’unità di Leclerc dal teatro operativo dove i francesi avrebbero voluto conseguire il loro principale obiettivo militare: la liberazione della capitale. La I Armata dello US Army, nell’ambito della quale si trovava inquadrato il V Corpo, non aveva il compito di avanzare verso Parigi, dunque, da quel momento (d’intesa con De Gaulle) il comandante della 2éme Division Blindée scavalcherà il suo diretto superiore (Gerow) nella linea di comando, facendo riferimento a Bradley al fine di ottenere da questi l’autorizzazione formale per far avanzare almeno uno dei suoi raggruppamenti tattici sulla città. A risolvere la delicata situazione in senso favorevole ai gaullisti fu l’insurrezione armata contro gli occupanti tedeschi che divampò nella capitale a partire dal giorno 18, uno sviluppo preoccupante per gli Alleati, visto che i militanti comunisti ne furono tra i maggiori artefici. (²) (³)
Tutto questo fece sì che il giorno 22, previa autorizzazione di Eisenhower, Bradley consentisse a Leclerc di muovere la sua divisione in direzione di Parigi, affiancandogli comunque in appoggio la 4a. Divisione di fanteria statunitense. Alla fine le cose andarono in questo modo a causa delle pressioni esercitate, principalmente su Eisenhower, dal generale De Gaulle (presidente del governo provvisorio della Repubblica francese nonché responsabile del Comitato per l’amministrazione della Francia liberata) e dal generale Henry Giraud (esponente del Comitato di liberazione nazionale), che ovviamente desideravano fortemente conferire a un ingresso trionfante della divisione di Leclerc nella capitale liberata un evidente significato simbolico a uso e consumo da parte dell’opinione pubblica e della politica francese. Una intenzione non certo recondita, dato che fin dai tempi dell’avanzata della cosiddetta Colonna Leclerc in Africa, de Gaulle venne sempre assillato dalla preoccupazione che delle truppe francesi non potessero prendere parte assieme agli angloamericani alla riconquista del territorio nazionale. (⁴)
De Gaulle temeva dunque di rimanere escluso dal trionfo degli Alleati, uno stato d’animo che avrebbe informato la sua condotta di capo della Francia Libera sia riguardo alla Tunisia e al Marocco nel 1942 che alla Normandia e, soprattutto, a Parigi nel 1944. I suoi scopi furono quelli di rendere il più possibile evidente la partecipazione francese allo sforzo bellico delle potenze alleate, reinserendo il Paese (sia pure all’ultimo momento) nel loro novero, assumendo inoltre quanto prima il controllo del territorio francese liberato per evitare che esso potesse essere posto sotto l’amministrazione di un governo militare alleato. L’ingresso nella capitale liberata di un’unità militare della Francia Libera al fianco degli angloamericani avrebbe poi significato, se non l’immediato riconoscimento ufficiale del Comitato Francese di Liberazione Nazionale (CFLN) da lui stesso presieduto, almeno l’accettazione “de facto” da parte degli Alleati della sua persona quale unico rappresentante del Governo francese. Però, sia Bradley che Montgomery furono contrari a questo genere di soluzione, che avrebbe comportato tutta una serie di problemi certamente non indifferenti non solo di natura militare ma anche logistica, basti soltanto riflettere sul gravoso compito del rifornimento della città dopo la sua liberazione. Il comandante in capo di SHAEF dovette comunque assecondare De Gaulle e a quel punto Leclerc fu ben felice di farsi carico dell’operazione. (⁵)
Furono gli sviluppi della situazione in atto nella capitale francese a indurre Eisenhower ad accelerarne i tempi della liberazione: il 23 agosto due divisioni della III Armata statunitense (la 7a. corazzata e la 79a. di fanteria) attraversarono la Senna, contestualmente Leclerc ricevette l’ordine di muovere sulla città e lo stesso giorno si mise in marcia con la sua unità in direzione di Rambouillet. Due groupement tactique (gruppi tattici) della 2éme Division Blindée erano pronti a investire la zona sud della capitale sull’asse Longjumeau-Porte d’Orléans, coi due rimanenti gruppi tattici francesi nei pressi della periferia sud-ovest, sull’asse Tossus-le-Noble-Villacoubay-Pont de Sevres. Come accennato, nel frattempo in città erano ripresi i combattimenti dopo che la tregua negoziata in precedenza dal console svedese e rappresentante della Croce Rossa Raoul Nordling era saltata. Cinque giorni prima, il 18 agosto, i muri di Parigi erano stati tappezzati di manifesti incitanti alla rivolta; il giorno seguente, 19 agosto, 3.000 tra poliziotti e gendarmi avevano occupato la prefettura dando il via all’insurrezione; in seguito erano stati occupati anche l’Hôtel de Ville (municipio), il tribunale e il ministero della guerra, mentre gli uomini della Resistenza ingaggiavano i soldati tedeschi in combattimento. La tregua era stata raggiunta dopo che von Choltitz in segno di distensione aveva rilasciato più di 4.000 prigionieri francesi. Le truppe occupanti mantenevano ancora sotto controllo quasi tutte le posizioni chiave della città, però ormai era già stata presa la decisione del loro ritiro attraverso i boulevard esterni. Alle dieci e mezza della sera del 24 agosto gli uomini di Leclerc riuscirono a raggiungere il municipio dopo aver penetrato con tre carri armati Sherman e quindici semicingolati Half-Track l’Ile-de-la-Cité, nel centralissimo 1° Arrondissement. Fu allora che le campane della cattedrale di Nôtre Dame e delle altre chiese vicine iniziarono a rintoccare a festa.
Il giorno seguente, 25 agosto, anche il resto della 2éme Division Blindée fece il suo ingresso nella capitale appoggiata sul fianco destro dalla 4a. Divisione di fanteria statunitense. L’unità corazzata di Leclerc combatté ai Giardini de Lussemburgo, all’École Militaire, al Campo di Marte, in Place de la Concorde e in Place de la République. Alle quattro del pomeriggio, dal suo quartier generale installato nell’Hôtel Meurice in Rue de Rivoli, von Choltitz diramò alle sue truppe l’ordine del cessate il fuoco e si consegnò insieme agli ufficiali del suo stato maggiore ai francesi. In quel momento, a nord della città, presso i sobborghi di Bourget e Montmorency, restava soltanto la 47a. Divisione della Wehrmacht. (⁶)
Con la liberazione di Parigi si concludeva la battaglia di Normandia. Dal 6 giugno, giorno dello sbarco alleato, erano trascorsi ottanta giorni.
Note
(¹) La Groß-Paris, cioè l’agglomerato urbano della capitale francese, dal 7 agosto 1944 si trovava sotto il controllo del generale Dietrich von Choltitz, che era stato nominato direttamente da Hitler.
(²) Al pari di molti altri paesi europei occupati dai nazisti, anche all’interno della Resistenza francese aderenti e simpatizzanti del locale partito comunista svolsero un ruolo di rilievo: sia il Comitato parigino di liberazione (CPL) che il Comitato di azione militare (COMAC) erano controllati da comunisti; lo stesso segretario del Partito comunista francese (PCF), Maurice Thorez, dal suo esilio di Mosca lanciò un appello alla popolazione francese per esortarla all’insurrezione liberatrice, questo mentre Rol-Tanguy, ex combattente delle Brigate internazionali di Spagna e capo delle Forze francesi dell’interno (FFI) nell’Ile-de-France, reclutò i partigiani traendoli in buona parte dal bacino di elementi di indiscussa fede comunista; furono poi sempre i comunisti a organizzare , il 10 agosto 1944, lo sciopero dei ferrovieri che bloccò il traffico da e per Parigi, prima scintilla della ribellione che avrebbe indotto in seguito i tedeschi al disarmo della Gendarmeria e della Polizia, col conseguente ammutinamento di questi due corpi di sicurezza.
(³) Nessun ufficiale di collegamento alleato con la Resistenza francese fu in condizioni di influire su quell’evento e, di risulta, la rivolta antitedesca si sottrasse al controllo degli angloamericani. D’altro canto a Parigi nessuna fazione politica sarebbe stata disposta a deporre le armi, rinunciando così al merito di aver liberato la città dall’odiato occupante.
(⁴) La Colonna Leclerc venne in seguito ridenominata “Forza L”, il cambiamento venne apportato al momento del passaggio dell’unità francese alle dipendenze della VII Armata britannica di Montgomery in Africa settentrionale.
(⁵) Mezzi, materiali d’armamento, equipaggiamenti e procedure d’impiego della 2éme Division Blindée al comando del generale Leclerc, al pari delle altre unità francesi che combatterono i tedeschi nel periodo 1944-45 con gli Alleati, vennero integralmente forniti dal Governo degli Stati Uniti d’America.
(⁶) Dopo la liberazione della capitale francese e la trionfale parata sugli Champs Elysées del pomeriggio del 25 agosto, la 2éme Division Blindée avrebbe continuato a combattere inserita nel dispositivo militare alleato. Dapprima, dal 13 settembre al primo dicembre 1944, nel XV Corpo d’armata del generale Haislip (III Armata di Patton), in seguito, dai primi giorni di dicembre fino al termine del conflitto, assorbita (contro il volere del suo comandante) dalla I Armata francese del generale De Lattre de Tassigny. L’unità corazzata di Leclerc libererà la città di Strasburgo e, nel maggio 1945, occuperà il nido dell’aquila Hitler a Berchtesgaden.
La marcia verso Berlino
La lunga battaglia combattuta in Normandia preluse al successivo confronto sulla linea Sigfrido, quindi alla conseguente penetrazione alleata in territorio tedesco e, infine, alla disfatta del III Reich seguita dalla sua resa incondizionata. Il 29 agosto 1944 la III Armata statunitense di Patton liberò la cittadina di Chalons-sur-Marne e in quarantotto ore gli stessi carri armati Sherman attraversarono la Mosa a Verdun. Bruxelles e Anversa videro l’ingresso degli americani pochi giorni dopo. Le quattro armate alleate si trovarono però ben presto a dover fare i conti con i problemi posti dalla logistica: più si avanzava (e lo stavano facendo molto velocemente per raggiungere al più presto il fiume Reno e la regione mineraria e industriale della Ruhr) più gli approvvigionamenti per un dispositivo militare di tale consistenza e schierato su una linea del fronte così estesa risultarono sempre meno sufficienti. E anche stavolta esplosero le polemiche, alimentate anche da rivalità e ambizioni personali, che come sempre videro Eisenhower nel bel mezzo a cercare di mediare fra i suoi comandanti migliori nel tentativo di smussare i contrasti. A quella data i tedeschi controllavano ancora i porti della Bretagna e del Passo di Calais, costringendo ancora gli Alleati a originare la loro linea di collegamento logistico nelle spiagge della Normandia, fatto che spinse Montgomery a un’energica richiesta di mutamento della direttrice di avanzata: secondo il neopromosso maresciallo britannico si sarebbe dovuto puntare verso nord e a fralo avrebbero dovuto essere la sua II Armata con l’indispensabile supporto della I Armata statunitense, ma l’impetuoso generale Patton voleva raggiungere a tutti i costi la Germania. Eisenhower optò per il mantenimento del fronte esteso, ma alla fine del mese di settembre l’avanzata alleata venne inesorabilmente rallentata dalla scarsità di carburante. L’ultima offensiva tedesca ci sarebbe stata in inverno nelle Ardenne, poi per il III Reich sarebbe giunta inesorabile la sconfitta, non prima di un ulteriore sanguinoso sacrificio del popolo tedesco, che avrebbe combattuto casa per casa fino al bunker della cancelleria a Berlino.
I protagonisti della campagna
George Catlett Marshall
Sul generale Marshall, capo di stato maggiore delle forze armate statunitensi, ufficiale stimato sia dal suo presidente, Franklin Delano Roosevelt, che dal premier britannico Churchill, cadde l’iniziale scelta dei vertici politici e militari alleati per la copertura del ruolo di comandante supremo dell’operazione Overlord. Sulla sua figura, i due leader occidentali della coalizione si erano infatti trovati d’accordo fin dalla Conferenza di Québec dell’agosto 1943, sostenuti in questo loro orientamento dall’indiscussa competenza in materia militare che aveva avuto modo di dimostrare e, aspetto non certo secondario, dalla stima che egli godeva negli ambienti del governo di Londra e tra i suoi colleghi britannici. Marshall venne informato della prevista nomina, ma, non appena si diffuse questa notizia, i vertici dello stato maggiore di Washington sollevarono obiezioni al riguardo, esercitando al contemnpo pressioni sul presidente affinché ritornasse sulla sua decisione. Ne seguì una rovente polemica anche sulla stampa americana e alla fine, quando Marshall e la sua consorte avevano già iniziato i preparativi per il loro trasloco in Inghilterra, Roosevelt optò per Eisenhower. Un cambiamento che comunicò a Churchill mentre insieme, il 6 dicembre dello stesso anno, si recavano in auto alle Piramidi. Anche Marshall apprese della novità dal presidente americano, successivamente Roosevelt gli confidò che con lui lontano dagli Stati Uniti non avrebbe potuto dormire di notte. Nel corso della sua vita Marshall fu soldato e uomo di stato, fu al comando dell’esercito degli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale e, dopo la fine del conflitto, ricoprì dapprima la carica di segretario di stato successivamente quella di segretario alla difesa. Egli fu il primo militare di professione al vertice del dicastero della difesa americano, in quanto fino al 1950, data della sua designazione nell’incarico da parte del presidente Truman, una disposizione del Congresso non lo aveva reso possibile.
George Catlett Marshall vide la luce il 31 dicembre del 1880 a Uniontown, un piccolo centro della Pennsylvania non distante da Pittsburgh. Quarto e più giovane figlio di un proprietario di miniere di carbone, nel 1901 venne avviato agli studi presso il Virginia Military Institute di Lexington, dove, pur non dimostrando doti di studente eccezionale, riuscì comunque a restare nella media del suo corso, ricevendo così l’anno seguente il grado di second lieutenant (sottotenente) nella fanteria. In quello stesso anno si unì in matrimonio con Elizabeth Carter Coles, compagna con cui condivise i destini fino al 1927, quando lei morì. Tre anni dopo Marshall sposò Katherine Tupper Brown, donna dalla quale non avrebbe avuto figli. Intanto però la sua carriera militare era proseguita e, dalle prime nomine e dal servizio nelle Filippine tra il 1902 e il 1903, gli anni erano trascorsi e Marshall aveva avuto modo di maturare esperienze e crescere professionalmente, dapprima all’Army School of Line e all’Army Staff College di Fort Leavenworth, in Kansas, poi nuovamente inviato nelle Filippine nel 1913, dove diede dimostrazione delle sue spiccate capacità nella pianificazione e nella tattica. Nel 1916, al suo ritorno negli Stati Uniti venne promosso al grado di capitano. L’anno seguente, quando il suo paese entrò in guerra contro gli Imperi centrali, Marshall venne imbarcato sulla prima nave americana che trasportava truppe oltremare. Era stato assegnato alla 1th Division statunitense con gli incarichi di ufficiale addetto all’addestramento e capo ufficio operazioni. Nel 1918 venne trasferito alla 1^ Armata, dove servì come capo ufficio operazioni negli ultimi mesi di guerra. Fu lui a sovraintendere alla pianificazione dell’attacco americano nel settore di Saint-Mihiel, dirigendo il movimento di circa 400.000 soldati e 2.700 pezzi di artiglieria dalla zona di Saint-Mihiel a quella di Meuse-Argonne nell’ultima battaglia combattuta dall’esercito americano nel corso della Prima guerra mondiale. Si trattò di un’impresa fuori dal comune, infatti il trasferimento di questa massa di soldati e di mezzi venne effettuata di notte e in meno di due settimane, fatto che colse di sorpresa i tedeschi, al punto che il generale John J. Pershing, comandante delle forze statunitensi in Europa la definì come una delle più grandi missioni dell’intero conflitto. Dop la guerra, dal 1919 al 1924, fu aiutante del generale Pershing, poi, dal 1924 al 1927 fu inviato in Cina come executive officer del 15th Infantry Regiment. Dal 1927 al 1932 ricoprì l’incarico di assistente del responsabile dell’addestramento militare delle forze statunitensi e per questo venne assegnato alla scuola di fanteria di Fort Benning, dove attraverso il suo fattivo contributo fu possibile elevare il livello di preparazione dei soldati americani. Sempre in quello stesso periodo, si occupò dell’organizzazione e dell’amministrazione del Civilian Conservation Corps. Nominato brigadiere generale nel 1936, due anni dopo fu posto a capo della divisione pianificazione del War department, ricoprendo simultaneamente la carica di sottocapo di stato maggiore dell’esercito. Il 1° settembre 1939, giorno dell’inizio della Seconda guerra mondiale, prese la quarta stella e divenne capo di stato maggiore dell’US Army, che allora comprendeva anche la forza aerea statunitense (Army Air Corps), per complessivi 200.000 uomini. Sotto il suo comando venne dato impulso all’addestramento intensivo e realistico in differenti contesti ambientali: desertico, montano e tropicale (jungla), ponendo le basi per lo sviluppo della forza armata, che nel 1945, alla fine del Secondo conflitto mondiale sarebbe divenuta la più potente del mondo. Come accennato, durante la guerra rimase a Washington, mail suo lavoro fu egualmente fondamentale, al pari di quello svolto dagli altri comandanti sui campi di battaglia. Infatti, egli fu responsabile della mobilitazione, dell’armamento e dell’equipaggiamento di una forza di oltre otto milioni tra soldati delle unità terrestri e di quelle dell’aeronautica. Confermò le sue doti di pianificatore e stratega, sotto il suo comando i generali Dwight D. Eisenhower e Douglas MacArthur poterono conseguire la vittoria in Europa e nel Pacifico. Nel novembre del 1945, a pochi mesi di distanza dalla fine della guerra, rassegnò le dimissioni da capo di stato maggiore, dopodiché, il presidente Truman lo nominò speciale rappresentante in Cina. Era il periodo in cui Washington appoggiò i nazionalisti cinesi di Chang nella guerra civile contro i comunisti, periodo che coincise con l’inizio dell’impegno in politica di Marshall che, tornato dall’Asia nel gennaio 1947, assunse un ruolo di primaria importanza nel gabinetto presidenziale di Truman, quello di segretario di stato. In questa fase varò un piano di aiuti per la ricostruzione dei paesi dell’Europa occidentale, l’European Recovery Program, noto anche come Piano Marshall, attraverso il quale vennero erogati tredici milioni di dollari a numerosi paesi appena usciti dal disastro della guerra. Il confronto con l’Unione Sovietica di Stalin si fece sempre più duro e Marshall dovette occuparsi anche della Grecia e della Turchia, con uno sguardo preoccupato ai settori di Berlino sotto blocco sovietico che gli americani rifornivano mediante un ponte aereo. Egli fu poi assorbito dai negoziati per la stipulazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic Treaty Organization, NATO). Nel gennaio del 1949 si dimise dalla carica e divenne presidente della Croce Rossa americana, ma nel 1950 venne richiamato da Truman per ricoprire la carica di capo del Dipartimento della Difesa, primo militare professionista a farlo. Era scoppiata la guerra in Corea e le forze dell’Onu si trovavano in grosse difficoltà. Nel settembre 1951 rassegnò le dimissioni anche da quest’ultimo incarico. Morì otto anni dopo, il 16 ottobre del 1959. È sepolto nell’Arlington National Cemetery.
Dwight David Heisenhower
«Ike, sarebbe meglio che incominciaste a preparare I bagagli…» In questo modo il presidente Roosevelt si rivolse ad Eisenhower nel dicembre 1943 quando lo incontrò a Tunisi. Una frase, la sua, che venne però equivocata dal generale, convinto che avrebbe dovuto fare ritorno negli Stati Uniti per fare da vice a Marshall, a quel tempo capo di stato maggiore. Ike non era ancora al corrente del fatto che a guidare l’operazione Overlord sarebbe stato lui, un “malinteso” che sarebbe stato chiarito di lì a poco dallo stesso Roosevelt durante il viaggio che i due avrebbero compiuto per raggiungere Malta: «Well, Ike, you are going to command Overlord.» La notizia ufficiale della sua nomina a comandante supremo dello SHAEF sarebbe stata diramata soltanto il 25 dicembre, giorno di natale. Lui avrebbe raggiunto la città di Londra per organizzare il suo nuovo comando alla metà del mese successivo. Una nomina importante per questo brillante ufficiale di cinquantatré anni che fino a quel momento aveva trascorso quasi tutta la sua carriera militare svolgendo compiti di stato maggiore senza assumere mai il comando di unità di livello superiore a quello di battaglione e che, nel 1939, era soltanto un semisconosciuto tenente colonnello. Egli fu essenzialmente un bravo amministrativo, oltreché un abilissimo mediatore, dote quest’ultima che in seguito avrebbe eccelsamente continuato a dimostrare nel corso della seconda fase della sua intensa vita. Infatti, dopo aver comandato la più grande armata che la storia ricordi e aver contribuito notevolmente alla vittoria alleata sui tedeschi, finita la guerra, negli anni dell’impegno politico, sarebbe divenuto il trentatreesimo presidente degli Stati Uniti. Il primo repubblicano da venti anni a quella parte, dopo le lunghe parentesi democratiche di Truman e prima di quella, drammatica, di John F. Kennedy.
David Dwight Eisenhower nacque a Denison, nello stato americano del Texas, il 14 ottobre 1890, terzo dei sette figli di una coppia di discendenti da immigrati di origine tedesca e svizzera che lasciarono i loro paesi per problemi di libertà religiosa, in quanto fedeli della Chiesa della Fratellanza in Cristo, e per questo integralmente contrari a ogni tipo di violenza. All’età di due anni la sua famiglia si trasferì ad Abilene, nel Kansas, dove la madre coltivò il suo campo producendo frutta e verdura. In quegli stessi anni, il giovane Dwight lavorò a part-time presso una cremeria, posto che avrebbe mantenuto anche in seguito, nel periodo in cui frequentò gli studi superiori, svolgere dei turni lavorativi notturni. Dopo la scuola partecipò al concorso per l’ammissione all’accademia militare di West Point, sebbene uno dei suoi più cari amici lo avesse quasi convinto a fare domanda all’Accademia navale di Annapolis. In ragione delle loro convinzioni religiose i genitori disapprovarono questa sua scelta, ma comunque non vi si opposero e quindi, nel giugno del 1911, Dwight venne ammesso all’accademia. Lì, fra i suoi colleghi, avrebbe stretto amicizia con alcuni cadetti con i quali in futuro avrebbe formato la sua cordata di ufficiali, tra questi anche Omar N. Bradley, che in Normandia comanderà il XII Gruppo di armate. Classificatosi 61° al suo corso, nel 1915 ricevette il grado di sottotenente e venne inviato come sottotenente di prima nomina a prestare servizio presso un reggimento di fanteria stanziato a Fort Sam Huoston, non distante da San Antonio. L’anno seguente si unì in matrimonio con Mamie Geneva Doud, una ragazza appartenente a un’agiata famiglia di Denver che aveva conosciuto durante i soggiorni estivi da lei trascorsi nella città texana e dalla quale ebbe due figli, uno di essi poi scomparso prematuramente durante l’infanzia. Non prese parte al Primo conflitto mondiale perché al momento del suo imbarco per l’Europa sopravvenne l’armistizio. In seguito prestò servizio presso unità addestrative dell’esercito e, sempre nel 1918, gli venne assegnato un il comando del Tank Training Center di Camp Colt, a Gettysburg, nello stato della Pennsylvania. Dopo questa esperienza venne inviato all’estero, dapprima, dal 1922 al 1924, come executive director a Camp Gaillard, nella zona del canale di Panama, dove con il sostegno del suo comandante, il brigadier generale Fox Conner, che lo aveva notato per le sue spiccate capacità, ebbe l’opportunità di frequentare il corso per diventare ufficiale di stato maggiore presso la Command and General Staff School di Fort Leavenworth, in Kansas. Si trattò di un gradino difficile da superare e molti dei suoi colleghi furono respinti o costretti ad abbandonare a causa dello stress subito durante le dure fasi di studio e addestramento. Eisenhower si classificò primo su 275, un grande successo che lo portò, due anni dopo, ad abilitarsi presso l’Army War College di Washington. Nel corso degli anni successivi ricoprì vari incarichi fino a divenire, nel 1933, l’assistente del generale Douglas MacArthur, capo di stato maggiore dell’US Army. Nel 1935 lo seguì nelle Filippine, quando questi svolse l’incarico di military adviser to the Commonwealth. In quell’occasione Eisenhower contribuì alla costituzione della forza aerea e dell’accademia militare di Manila, conseguendo all’età di 47 anni anche il brevetto di pilota. L’esplosione del Secondo conflitto mondiale lo colse che era ormai un ufficiale superiore in servizio a Fort Ord, vicino a San Francisco. In quegli inquietanti giorni di fine estate 1939 un suo collega ufficiale lo soprannominò “Alarmist Ike” a causa della sua convinzione che gli Stati Uniti sarebbero presto entrati in guerra. Non ebbe torto. Nel marzo del 1941 Eisenhower ottenne il grado di colonnello e tre mesi dopo venne assegnato con l’incarico di capo di stato maggiore presso la III Armata dell’US Army, che aveva il suo quartier generale a San Antonio, in Texas. Nel settembre dello stesso anno, le sue doti di brillante ufficiale gli valsero la promozione al grado di brigadiere generale e, nel frattempo, venne anche notato dal generale George C. Marshall, allora army chief of staff. Il 12 dicembre 1941, cinque giorni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, Marshall lo volle con sé alla Divisione operazioni e piani dell’esercito (War Plans Division), nell’ambito della quale Eisenhower si dedicò alla pianificazione delle difese delle posizioni americane nel Pacifico, iniziando al contempo anche lo studio preliminare dell’invasione in Europa. Divenne in seguito capo della Divisione operazioni e venne promosso al grado di maggiore generale. Affrontò quindi il tema della concentrazione sotto un unico commando del complesso delle forze statunitensi che avrebbero dovuto operare nel teatro bellico europeo e nel giugno del 1942, tre giorni dopo aver sottoposto i suoi piani ai suoi superiori venne nominato comandante generale delle forze statunitensi in Europa.
Eisenhower emerse subito all’interno dello staff interalleato soprattutto per la sua calma e la sua capacità di appianare le divergenze tra gli ufficiali di quel comando supremo. Nell’estate del 1942 incontrò i leader alleati a Londra per concordare con loro la pianificazione dell’Operazione Torch, cioè l’occupazione dell’Africa settentrionale francese, che avrebbe avuto corso nel mese di novembre e lo avrebbe visto ricoprire il ruolo di comandante delle forze alleate d’invasione. Il passo successivo sarebbe stato l’invasione dell’Italia, prima con uno sbarco in Sicilia e poi attraverso la non facile risalita della penisola in mano tedesca. Intando andava avanti l’elaborazione dei piani di intervento in Europa settentrionale, l’apertura di quel secondo fronte insistentemente richiesto da Stalin. A questo scopo, durante la campagna d’Italia Eisenhower incontrò Roosevelt e Churchill per discutere con loro della futura (ma ancora non definita nei tempi e nei dettagli) invasione e in quella sede vennero decisi luogo e modalità: lo sbarco sarebbe avvenuto in Normandia attraverso il canale della Manica. In questa fase Eisenhower enfatizzò l’importanza dell’unità interalleata, in primo luogo fra britannici e americani, come fondamentale elemento per la vittoria sul III Reich. È noto come i rinvii provocati dal maltempo portarono a procrastinare la data del D-Day al 6 giugno 1944. Nell’ultima riunione avuta con il suo staff prima dell’avvio dell’Operazione Overlord alle quattro della mattina del giorno precedente, rivolgendosi al brigadier generale Walter Bedell Smith, suo capo di stato maggiore, rilevò che, una volta considerati con ponderazione tutti gli elementi della questione, la tensione sarebbe scomparsa dai loro visi. Poi, bruscamente, concluse il suo discorso dando il via allo sbarco: «Well, we’ll go.» In effetti, alcuni ufficiali dello SHAEF che furono con lui nelle ore che precedettero lo sbarco testimoniarono in seguito di un Eisenhower estremamente teso. Non c’era da stupirsi, data la gigantesca responsabilità che ricadeva sulle sue spalle: egli temette dei rovesci sul campo di battaglia che avrebbero potuto compromettere l’intera operazione e, tale era la sua preoccupazione, che giunse addirittura a far redigere in via preventiva un breve comunicato stampa che avrebbe dovuto essere reso pubblico nell’eventualità che Overlord fallisse. Finita la guerra, sostituito il generale Marshall nel ruolo apicale di capo di stato maggiore dell’esercito statunitense, dovette occuparsi come prima cosa della smobilitazione e nel farlo sostenne la necessità di effettuare con gradualità il processo di congedamento dei militari coscritti. Voleva mantenere un sistema universale di reclutamento per garantire agli Stati Uniti una difesa da eventuali imprevisti attacchi futuri, ma tale esigenza contrastò con quella della nazione, ansiosa di rivedere i propri figli reinseriti nella vita civile alle loro attività produttive. Eisenhower si dedicò anche a un altro ambizioso progetto, l’unificazione di tutte le forze armate americane sotto un solo comando supremo, una prospettiva ovviamente mal digerita negli ambienti della marina e dell’aeronautica, che di risulta opposero una tenace resistenza giungendo a bloccare provvedimenti in tal senso. Nel 1947 il Congresso degli Stati Uniti adottò una soluzione di compromesso, unificando le varie forze armate sotto un singolo segretario alla difesa. Nel giugno del 1948, una volta ritiratosi dal servizio attivo, venne nominato presidente della Columbia University. In quell period ebbe modo di scrivere un libro sulle sue esperienze belliche intitolato Crusade in Europe, che divenne un best seller. Due anni dopo gli venne affidato l’incarico di comandante supremo delle forze NATO in Europa e, nell’aprile 1951, tornò in Francia, presso Parigi, per prendere servizio allo SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe).
I successi conseguiti durante la guerra fecero di Eisenhower un personaggio molto popolare negli Stati Uniti d’America e della sua grande popolarità pensarono subito di servirsi i politici. Nel 1952 il governatore di New York Dewey (esponente di spicco di una corrente interna al Partito repubblicano al tempo in opposizione allo stretto isolazionismo della politica del senatore Taft, candidato repubblicano alla nomination presidenziale), invitò Eisenhower a candidarsi alla presidenza per il partito. Ike lasciò dunque la vita militare per intraprendere quella politica e, superato Taft alla convention repubblicana, stravinse nel confronto elettorale col democratico Stevenson ottenendo con 34 milioni di consensi, una cifra di voti mai raggiunta fino ad allora negli Stati Uniti. Alla vicepresidenza venne nominato il senatore della California Richard M. Nixon, però le capacità di Eisenhower in campo politico erano relative, quindi, almeno in politica estera dovette affidarsi a una persona di fiducia, John Foster Dulles. Si era in piena Guerra fredda e il problema che gli si presentò con maggiore urgenza fu quello della guerra di Corea, che gli Stati Uniti volevano concludere, quindi non appena eletto volò sul posto per prendere visione personalmente della situazione. Dal suo viaggio in Asia però non ottenne immediati risultati, più efficaci furono le diffide rivolte alla Cina comunista dal Segretario di Stato Dulles e le minacce di MacArthur di bombardare le linee di rifornimento logistico attraverso le quali Pechino riforniva i combattenti coreani di Kim Il Sung e alla fine, dopo una serie di lunghi preliminari, si giunse agli accordi del luglio 1954 (Stalin era morto da un anno). Lo stesso anno, in settembre, gli americani presero la guida del gruppo di otto paesi asiatici non comunisti alleati nella SEATO (Southeast Asia Treaty Organization). Egli cercò di arginare l’espansione comunista in Asia e nel terzo mondo mediante l’erezione di barriere, aiuti ai paesi sottosviluppati e alleanze militari. Il periodo del suo primo mandato presidenziale coincise con lo sviluppo di massicci programmi in campo militare, che videro tra le priorità la realizzazione e l’installazione di numerose armi atomiche. In politica interna applicò i concetti del suo “moderno repubblicanismo”, promuovendo con energia il programma governativo nel settore del welfare e cercando di attribuire agli stati dell’Unione maggiore autorità evitando al contempo un incremento dei poteri federali. Per quanto concernette la sicurezza interna, spronato dal Presidente, il Congresso adottò una serie di drastiche misure legislative che andarono a intaccare i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini americani. Venne introdotta la pena capitale per il reato di spionaggio in tempo di pace (venne eseguita allora la condanna dei coniugi Ethel e Julius Rosenberg), il Congresso investigò sulle infiltrazioni comuniste nel governo e nell’apparato statale e Joseph R. McCarthy divenne portavoce del sottocomitato del Senato che si occupò della “caccia alle streghe” comuniste nel paese.
Nella conferenza del luglio 1955, i leader delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale si riunirono a a Ginevra, ma le proposte presentate nel corso di questo vertice (compresa quella fatta da Eisenhower di autorizzare ispezioni aeree reciproche delle basi militari) non contribuirono a fermare il confronto fra i due blocchi e neppure ad avviare il disarmo. Di pari passo all’evidenziazione di alcuni errori commessi dall’Amministrazione Eisenhower (come quello della sorpresa a cose fatte della realizzazione da parte sovietica di ni militari, sia offensivi che difensivi), si aggiunsero i successi di Mosca nella conquista dello spazio con il volo della cagnetta Laika e, in seguito, del cosmonauta Jury Gagarin, che incisero negativamente sulla popolarità del presidente degli Stati Uniti d’America.
Intanto, però, le sue condizioni di salute peggiorarono. Il 24 settembre 1955, mentre si trovava in vacanza a Denver, venne colpito da un attacco cardiaco che ne ridusse grandemente le capacità lavorative, al punto da costringerlo nei mesi successivi a dirigere la politica governativa dal suo letto d’ospedale. A questo primo attacco ne seguirono altri ed Eisenhower dovette anche sottoporsi a un intervento chirurgico all’intestino. Nonostante tutto, nel 1956 la convention del Partito repubblicano lo rinominò per acclamazione e Ike affrontò quindi la campagna elettorale per la conferma a un secondo mandato presidenziale che lo oppose nuovamente al democratico Stevenson. Il successo del ticket Eisenhower-Nixon rappresento una novità nel panorama politico degli Stati Uniti, infatti, per la prima volta il presidente e il suo vice erano stati rieletti in team, però, nel 1958 i democratici ottennero la maggioranza sia al Congresso che al Senato. Il suo secondo mandato alla casa Bianca, durato dal 1957 al 1961, non fu certamente facile, dato che in politica estera si trovò ad affrontare l’Unione Sovietica e la sua corsa allo spazio (ma dal 1959 senza il fondamentale aiuto di Dulles, morto di cancro), mentre sul piano interno esplosero i problemi della grave recessione economica del 1957-58 e della mancata integrazione razziale. Per competere con Mosca nel campo spaziale venne istituita la NASA (National Aeronautics and Space Administration) e il 31 gennaio del 1958 gli Stati Uniti lanciarono in orbita il loro primo satellite, l’Explorer 1. Nel 1959, dopo delle trattative condotte dai rispettivi ministri degli esteri, il leader sovietico Khruschev giunse in visita ufficiale a Washington. Eisenhower avrebbe dovuto ricambiare la visita e recarsi a Mosca, ma il gravissimo episodio dell’abbattimento del ricognitore strategico americano U-2, in volo nello spazio aereo dell’Unione Sovietica incrinò ulteriormente le relazioni tra le due superpotenze portando a un incremento della tensione. Durante il suo secondo mandato Eisenhower inviò un contingente di marines in Libano per sostenere il governo in carica a Beirut, fece intervenire la VII Flotta supportando militarmente il governo di Taiwan nella controversia contro la Cina Popolare per le isole Quemoy e affrontò le problematiche poste agli Stati Uniti da Fidel Castro rompendo le relazioni diplomatiche con Cuba.
Nel marzo del 1960, quattro mesi prima dello svolgimento della convention repubblicana, Eisenhower dichiarò il suo sostegno al vicepresidente Nixon nella competizione per la sua successione. Nixon si confrontò successivamente con John F. Kennedy e perse. Nel gennaio del 1961 Eisenhower lasciò la Casa Bianca nelle mani del nuovo presidente democratico e si ritirò nella sua fattoria di Gettysburg, in Pennsylvania. Nei mesi successivi le sue condizioni di salute si andarono aggravando e, alla fine del 1965, fu colto da due leggeri attacchi cardiaci. Nell’aprile del 1968, al ripetersi di questi attacchi, venne ricoverato al Walter Reed General Hospital di Washington, dove subì tre ulteriori infarti. Nel febbraio dell’anno seguente venne sottoposto a un intervento chirurgico all’intestino, ma le sue condizioni generali si aggravarono e contrasse la polmonite. Dwight David Heisenhower si spense il 28 marzo del 1969 a causa di un infarto. Fu sepolto nel cimitero di Abilene, nel Kansas.
Sir Arthur Tedder
Sir Arthur Tedder, maresciallo dell’aria britannico, nel 1944 fu il vicecomandante della forza di spedizione alleata in Normandia. Nato l’undici luglio 1890 a Glenguin, nella contea scozzese dello Sterlingshire, conseguì la laurea presso il Magdalene College di Cambridge e, successivamente, entrò nel Colonial Service (l’amministrazione britannica delle colonie) dal quale nel 1914 venne inviato nelle isole Fiji. Farà ritorno in Gran Bretagna un anno dopo al divampare del Primo conflitto mondiale per arruolarsi nell’esercito di Sua Maestà britannica, dal quale in seguito avrebbe transitato nel Royal Flying Corps e, quindi, al termine della guerra, alla Royal Air Force. Combatté dapprima in Francia (tra il 1915 e il 1917) e poi in Medio Oriente (tra il 1918 e il 1919). Nel 1936 venne nominato responsabile delle forze della RAF rischierate in Estremo Oriente (Birmania, Hong Kong e Borneo). All’inizio della Seconda guerra mondiale venne assegnato al Ministero della Produzione Aeronautica, dove rimase fino al dicembre del 1940, data in cui venne destinato nuovamente in Medio oriente, stavolta con l’incarico di vicecomandante delle operazioni aeree, alle dirette dipendenze del maresciallo dell’aria Longmore, al quale succedette nell’incarico nel maggio seguente. Sotto il suo comando le operazioni in Africa settentrionale ricevettero un vigoroso impulso. Negata alle aviazioni nemiche la supremazia dei cieli, l’VIII Armata di Montgomery potè rinvenire nel sostegno della RAF un elemento decisivo per la vittoria nelle sue battaglie terrestri. E proprio in qualità di comandante della Desert Air Force ebbe modo di lavorare a stretto contatto con il generale Montgomery, col quale, però, visse dei momenti di crescente tensione a causa delle differenze di vedute sull’importanza della forza aerea, infatti, Tedder sostenne che il comandante dell’VIII Armata non fornisse adeguato riconoscimento all’opera compiuta dagli aviatori. Sempre a quel periodo risale una sua terribile disgrazia, la perdita in un incidente aereo verificatosi in Egitto della prima moglie Rosalinde MaClardy (Tedder in seguito si risposerà con Marie “Toppy” de Seton Black). Tedder prese poi parte alle prime fasi della campagna d’Italia (sbarchi in Sicilia e a Salerno) e il 27 dicembre 1943 venne richiamato in Inghilterra. Con la costituzione dello SHAEF venne nominato vicecomandante supremo della forza di spedizione alleata in Francia e si trovò così un gradino al di sotto di Heisenhower nella scala gerarchica. Un incarico prestigioso ma altrettanto gravoso, infatti, egli avrebbe dovuto sostituire il comandane supremo in tutti gli eventuali casi di suo impedimento. La scelta cadde sulla sua persona per due sostanziali ragioni: Tedder era un esperto di operazioni concernenti la cooperazione aeroterrestre (per la sua riuscita Overlord presupponeva la fondamentale importanza del supporto dell’arma aerea all’azione terrestre), inoltre si presentava come un elemento in grado di mantenere buoni rapporti tra gli ufficiali alleati all’interno di uno stato maggiore congiunto estremamente variegato dal punto di vista delle nazionalità che lo componevano. Come vice di Eisenhower e massimo rappresentante dell’aviazione presso lo SHAEF, fu particolarmente colpito dal grado di insuccesso registrato dagli alleati nel corso dei loro ripetuti tentativi di conquista di Caen, in quanto alla forza aerea occorreva terribilmente al più presto la disponibilità dell’adiacente piana di Falaise per i decolli dei velivoli. A Tedder servivano delle piste e delle basi, dato che fino ad allora era riuscito a schierare soltanto un gruppo di caccia-bombardieri, l’83° della II Flotta aerea tattica, perché non esisteva spazio sufficiente per il trasferimento delle forze di Leigh-Mallory rimaste bloccate sui campi dell’Inghilterra meridionale. Tedder organizzò e condusse l’intera campagna d’Europa, dallo sbarco in Normandia al crollo della Germania. In maggio, presenziò insieme a Spaatz (comandante dell’VIII Forza aerea) e a De Lattre de Tassigny, alla resa incondizionata tedesca siglata nel quartier generale del maresciallo Žukov a Berlino. L’otto settembre 1945 venne promosso al grado di maresciallo dell’aria e il 19 ottobre dello stesso anno venne nominato Primo membro del British Air Council e l’anno successivo Primo Barone di Glenguin. Sir Arthur Tedder si spense a Banstead, nella contea inglese del Surrey, il 3 giugno 1967.
Omar Nelson Bradley
Ufficiale professionalmente preparato e particolarmente metodico nell’azione, il generale Bradley, in servizio con l’esercito americano dal 1915 al 1953, fu uno dei maggiori protagonisti della campagna di Francia e della conseguente sconfitta militare della Germania nazista. Si insediò al comando del XII Gruppo di armate il primo agosto del 1944. Egli fu alla guida di quella che – fino a quel momento – rappresentava la maggiore concentrazione di forze militari americane inviate in battaglia, che penetrarono in Francia, Belgio, Olanda, Germania, Austria e Cecoslovacchia. Il suo Gruppo di armate comprese la I, III, IX e XV Armata dell’esercito degli Stati Uniti, circa un milione di uomini inquadrati in quaranta divisioni.
Omar Nelson Bradley nacque a Clark, in Montana, il 12 febbraio 1893. Dopo aver frequentato l’accademia militare, a partire dal 1915 venne assegnato a varie unità dell’esercito statunitense raggiungendo il grado di maggiore. Durante la Seconda guerra mondiale, nel corso delle operazioni in Tunisia sostituì il generale Patton al comando del II Corpo d’armata Army Corps, grande unità che guido fino alla campagna di Sicilia. In seguito, prima dell’invasione della Francia, gli venne assegnato il comando delle forze terrestri statunitensi, quindi, dopo lo sbarco in Normandia, il comando del XII Gruppo di armate, incarico che mantenne fino alla fine della guerra. Era uso insediare il suo posto comando a ridosso della linea del fronte, zona che visitava con frequenza comportamento questo che veniva apprezzato dai suoi soldati, che comprendevano la vicinanza del loro generale. Non è dunque casuale che ricevesse il soprannome di “Brad, the G.I. General”, espresso con affetto dai militari di truppa e, qualche volta con disappunto e ironia dagli ufficiali del suo comando che gli erano sottoposti. E, seppure fosse una persona che non cercava la polemica, rimase comunque invischiato negli immancabili attriti che spesso avvelenano gli alti comandi militari. Il più noto fu quello che, suo malgrado, lo contrappose all’irruento Patton, personaggio dal carattere diametralmente opposto al suo. Il “generale d’acciaio”, serbando forse rancori pregressi, lo criticò proprio durante la battaglia di Normandia, accusandolo, in un particolare frangente, di non aver sfruttato tempestivamente lo slancio offensivo delle sue unità allo scopo di penetrare in profondità nel territorio francese in direzione di Parigi nel momento in cui, erano i primi giorni di agosto del 1944, i tedeschi mostravano evidenti segnali di cedimento. In realtà il comportamento di Bradley venne informato della sua innata prudenza e non suggestionato dal timore di impegnarsi in combattimento, nel caso specifico egli evitò di esporre il fianco e la retroguardia della III Armata americana a un’eventuale contrattacco nemico. In quell’occasione Patton fu sarcastico nei suoi confronti ed espresse il suo totale disappunto affermando che se lui si fosse preoccupato dei fianchi non avrebbe mai potuto combattere una guerra. Ma in ogni caso andò così e l’irruenza di quest’ultimo conflisse e soccombette di fronte alla razionalità e alla prudenza, non solo del criticato comandante del XII Gruppo di armate, ma anche dei suoi superiori, Montgomery ed Eisenhower, che come lui desideravano assolutamente evitare che le forze alleate incappassero in una disavventura del genere. Alla cessazione del conflitto, dal 1945 al 1947, Bradley si occupò della smobilitazione delle truppe e dei veterani di guerra, l’anno seguente divenne capo di stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti e quindi, alcuni mesi dopo, primo joint chairman del Comitato congiunto dei capi di stato maggiore degli Stati Uniti. Il 1949 fu anche l’anno della fondazione della NATO e Bradley ne divenne presidente del Comitato militare, poi, l’anno seguente, comandante in capo dell’US Army. Nel suo libro di memorie edito nel 1951, A soldier’s Story, espose le esperienze maturate nel corso del secondo conflitto mondiale. Due anni dopo andò in pensione. Nel 1958 accettò l’incarico di board chairman della Bulova Watch Company, la nota società produttrice di orologi, quindi, nel 1959, venne nominato presidente della George C. Marshall Research Foundation. Morì ottantottenne a New York l’8 aprile del 1981.
George Smith (jr.) Patton
Patton fu uno dei più pittoreschi e controversi generali americani che presero parte alla Seconda guerra mondiale. Uomo dai caratteristici atteggiamenti virili, sprezzante del pericolo e dalla frequente espressione ruvida che schizzava “fuori dai denti” (che in non poche occasioni gli procurò dei guai), nella sua vita di militare si guadagnò simpatie, ma anche aspre critiche. Egli fu un ufficiale che incontrò molte difficoltà nella gestione dei complicati, ma indefettibili, risvolti politici di un conflitto.
George Smith (junior) Patton nacque l’undici novembre 1885 a San Gabriel, in California. Superati gli esami all’Accademia nel 1909, ebbe modo di dimostrare le sue spiccate doti atletiche nel pentathlon. Entrato in cavalleria dopo aver conseguito i gradi, nel 1916 prese parte alla spedizione militare in Messico, quando le truppe statunitensi inviate dal presidente Wilson e comandate dal generale Pershing fallirono nel tentativo di cattura del rivoluzionario messicano Francisco “Pancho” Villa. In seguito, trasferito in Europa, durante la Prima guerra mondiale ebbe il comando di un’unità di carri armati. Nell’arma corazzata ci sarebbe poi rimasto, divenendo un esperto ufficiale della guerra manovrata. Personaggio risoluto e allo stesso tempo impulsivo, però con spiccate capacità di comando che seppe comprovare in combattimento, ebbe il vezzo dell’eccentricità, di cui una delle sue più appariscenti manifestazioni fu l’esibizione del proprio revolver dalle guancette dell’impugnatura in avorio che amava sfoggiare nel fodero agganciato al cinturone, arma rigorosamente fuori ordinanza che gli conferiva ancor più l’aspetto del “duro”. I tedeschi, suoi nemici, lo consideravano come uno dei (o forse “il”) migliori comandanti angloamericani e, in effetti, il suo approccio alla strategia per molti aspetti somigliò a quello di certi ufficiali della Wehrmacht e delle Waffen SS, adusi alle drastiche soluzioni dei problemi e ai metodi spicci. Una filosofia che venne peraltro applicata alla perfezione da alcuni dei suoi uomini della 45a. Divisione durante la campagna di Sicilia nel 1943, ai quali vanno ascritti numerosi sanguinosi eccidi perpetrati in quei giorni di luglio ai danni di prigionieri del Regio Esercito italiano. Come la strage di Biscari (oggi Acate), dove vennero massacrati sessantatré militari italiani che si erano arresi agli americani, fatto che nella sua immediatezza non venne reso noto dalle autorità di Washington, che però fu oggetto di un successivo processo penale che portò alla condanna di un sottufficiale e all’assoluzione di un ufficiale, il capitano John Compton, entrambi in servizio con l’US Army. Quest’ultimo durante il dibattimento dichiarò di aver eseguito esclusivamente gli ordini impartitigli dal suo comandante, il generale Patton. Riguardo a tale controverso aspetto della campagna di Sicilia va fatta una riflessione: si trattò certamente di un fatto di estrema gravità che riverberò una pessima luce sulla figura di un’abile condottiero militare, impetuoso e risolutivo nello sfondamento ma eccessivamente drastico nei metodi di impiego dei suoi uomini (ai limiti del crimine di guerra).
Nel novembre del 1942 comandò la task force alleata in Marocco, nel marzo dell’anno seguente, sempre in Africa settentrionale, assunse il comando del II Corpo d’armata dell’US Army e alla guida di esso, nella battaglia di el-Guettar, conseguì una delle più importanti vittorie americane di quella campagna. Prima della fine di quest’ultima, venne posto al comando della VII Armata, della quale era previsto a breve l’impiego nelle operazioni per la conquista della Sicilia. Nel 1944, dopo la simulazione del FUSAG, assunse il comando della III Armata e combatté dapprima in Francia e, successivamente, nel dicembre dello stesso anno, nella battaglia di Bastogne, in Belgio, a seguito della controffensiva tedesca nelle Ardenne. Al momento del collasso militare del III Reich, con la sua armata era in procinto di entrare in Cecoslovacchia e in Austria dalla Germania sudoccidentale e quando ci fu la resa incondizionata si trovò a controllare con le sue truppe buona parte del territorio occupato dalle forze americane. Nel Maggio del 1945 ottenne la promozione al grado superiore, che era stata bloccata due anni prima (aveva maltrattato due soldati americani sotto stress psicologico, uno dei quali affetto anche da malaria, che si trovavano ricoverati in un ospedale militare e che lui riteneva degli imboscati) e venne trasferito presso il comando della XV Armata, un’assegnazione che lo amareggiò in modo particolare, in quanto avrebbe voluto partecipare alle ultime fasi della guerra contro i giapponesi nel Pacifico combattendo al comando di un’armata. Però dovette rassegnarsi al suo nuovo incarico di amministratore militare della Baviera, fino a quando, un giorno, l’autovettura sulla quale viaggiava, a un incrocio si scontrò con un autocarro. Nell’incidente Patton rimase gravemente ferito, si fratturò l’osso del collo, ma nonostante il trauma irreversibile, sopravvisse fra atroci dolori ancora per alcuni giorni. Morì di edema polmonare e sopravvenuto infarto il 21 dicembre 1945. Aveva sessant’anni e fu sepolto nel cimitero della III Armata statunitense al Lussemburgo.
Sir Alan Francis Brooke
Il generale britannico Alan Francis Brooke, I visconte Alanbrooke, nacque a Bagnères-de-Bigorre, negli Alti Pirenei (Francia) il 23 giugno 1883 da una famiglia anglo-irlandese originaria dell’Ulster occidentale, famiglia che aveva una lunga tradizione militare. Educato a Pau, in Francia, dove visse fino a sedici anni, imparò, oltre all’inglese, anche il francese, lingua che parlava e scriveva fluentemente. Entrato nell’esercito britannico, dopo essersi diplomato alla Royal Military Academy di Woolwich, nel 1902 venne ammesso nel Royal Regiment of Artillery con il grado di sottotenente . Durante la Prima guerra mondiale combatté in Francia, dove si guadagnò la reputazione di grande stratega. Nella Battaglia della Somme del 1916 introdusse il sistema delle creeping barrage, favorendo la protezione della fanteria esposta al fuoco delle mitragliatrici nemiche. Terminò il conflitto col grado di tenente colonnello e venne insignito due volte del Distinguished Service Order. Tra le due guerre fu lettore allo Staff College e all’Imperial Defence College, dove conobbe gran parte degli ufficiali che diverranno in seguito suoi compagni d’arme durante la Seconda guerra mondiale. Brooke fu un convinto sostenitore del concetto di concentrazione degli sforzi e una delle lezioni che ritenne dovesse essere tratta dalla Prima guerra mondiale fu quella che andava assolutamente evitata la dispersione delle forze su una miriade di fronti. Nel 1938, promosso al grado di tenente generale, ottenne il comando dell’Anti-Aircraft Corps, rinominato poi Anti Aircraft Command nell’aprile del 1939. Fu il periodo nel quale strinse una stretta amicizia con l’ammiraglio dell’Aria Hugh Dowding, comandante in capo del Fighter Command, legame che sarà alle base della cooperazione con l’esercito nel corso della Battaglia d’Inghilterra. Nel luglio del 1939 venne trasferito alla direzione del Southern Command e, già allo scoppio della guerra, veniva considerato come uno dei generali più importanti dell’esercito britannico. Nel 1940 gli venne affidata la guida del II Corpo d’armata, ma come comandante ebbe una visione pessimistica delle possibilità di contrasto dei tedeschi: fu scettico riguardo la qualità e la determinazione dell’Esercito francese e ripose anche scarsa fiducia in Lord Gort, comandante del British Expeditionary Force, ufficiale da lui ritenuto più attento ai dettagli che a una visione strategica complessiva; Gort, d’altro canto, reputò Brooke eccessivamente pessimista e fu convinto di poterlo rimpiazzare nel giro di breve tempo. Al momento della controffensiva tedesca in Francia, Brooke si distinse nella conduzione delle proprie truppe nel corso della ritirata di Dunquerque. Poco dopo l’evacuazione di quest’ultima, venne nuovamente inviato in Francia al fine di ottenere il controllo delle truppe britanniche rimaste nel paese, ma si rese subito conto che la situazione era divenuta insostenibile e nella sua prima conversazione col primo ministro Winston Churchill insistette sul fatto che tutte le forze dovessero essere ritirate dalla Francia. In lui era maturato il convincimento che Hitler potesse essere sconfitto solo da un ingente dispositivo militare terrestre e, per tale ragione, si mostrò propenso a conservare quanto più possibile le unità dell’esercito. Tipico esempio di ufficiale dello stato maggiore britannico estremamente prudente e parsimonioso nell’impiego delle scarse risorse disponibili, alla fine riuscì a convincere Churchill a evacuare 200.000 soldati dai porti della Francia nordoccidentale. Dopo una breve permanenza a capo del Southern Command, nel luglio dello stesso anno, posto al comando delle United Kingdom Home Forces, gli venne assegnato l’incarico dell’organizzazione delle misure anti-invasione sul territorio metropolitano, cioè di dirigere le operazioni militari nel caso n cui i tedeschi fossero sbarcati nelle isole britanniche. Allo specifico scopo, focalizzò le sue attenzioni sullo sviluppo di una riserva mobile che potesse prevenire lo sbarco nemico prima che questo si radicasse attraverso la costituzione di una testa di ponte. Nel dicembre del 1941 succedette al feldmaresciallo John Dill alla carica di capo di stato maggiore e di comandante in capo del British Army, funzione attraverso la quale rappresentò l’esercito nel Comitato dei capi di stato maggiore britannico. Nel marzo del 1942 succedette all’ammiraglio della Flotta, Sir Dudley Pound, quale consigliere del Chiefs of Staff Committee, mantenendo quest’incarico fino al momento del suo ritiro dal servizio attivo avvenuto nel 1946. Come consigliere del Chiefs of Staff Committee, fu uno dei principali consiglieri militari del primo ministro Winston Churchill (che ricopriva contestualmente l’incarico di ministro della Difesa) e, col ruolo di coordinatore delle forze militari britanniche, apportò un contributo di grande valenza alla vittoria finale sulla Germania. Nel 1942 prese parte al comando alleato insieme agli statunitensi nell’ambito del Combined Chief of Staff, però il suo rapporto con gli americani non fu sempre armonico. Lo stesso anno, informato nella sua condotta di stratega dalle proprie concezioni sul concentramento della forza, tentò di bloccare lo sbarco a Dieppe prima della sua esecuzione ma, nella situazione di grave difficoltà nella quale si trovava Churchill in quel momento, pressato com’era dalla necessità di aprire un secondo fronte, Brooke cercò di salvaguardare contemporaneamente la sua posizione e i suoi principi, mettendo a disposizione del premier soltanto una divisione e mezza (circa 6.000 uomini), una limitazione che, unita alle altre misure di contrasto assunte in seno agli alti comandi britannici, di fatto determinò il fallimento dell’operazione Jubilee. Fu posto a capo dell’Imperial General Staff e, in seguito, nel 1944, promosso feldmaresciallo , ma col progressivo incremento della forza combattente degli Stati Uniti d’America nel teatro di guerra europeo esercitò sempre meno influenza sulla conduzione delle operazioni. Dopo essersi ritirato dall’esercito fu Lord Gran Conestabile d’Inghilterra durante l’incoronazione della regina Elisabetta II nel 1953. I suoi diari di guerra sono stati sovente oggetto di discussione da parte degli storici per i numerosi giudizi dati sulla politica di Churchill (col quale ebbe un rapporto tempestoso) e sulla conduzione del conflitto. In essi ebbe infatti a descrivere i generali americani Eisenhower e Marshall come degli scarsi strateghi, mentre l’inglese Alexander addirittura come uno stupido, apprezzò invece Douglas McArthur, il britannico sir John Dill e Stalin. Brooke ammirava il leader sovietico per la sua intelligenza e la sua graffiante strategia militare, non facendosi comunque illusioni sull’uomo: lo descrisse come un personaggio freddo e con la faccia da morto. Nel dopoguerra fu consigliere di numerose società industriali e bancarie, fu direttore della Anglo-Iranian Oil Company, della Midland Bank, della National Discount Company, della Belfast Banking Company e, in particolare, della Hudson’s Bay Company. Dotato di un grandissimo amore per la natura (caccia e pesca furono tra i suoi interessi principali), rinvenne nell’ornitologia la sua passione maggiore, al punto da divenire presidente della Zoological Society of London dal 1950 a 1954 e vicepresidente della Royal Society for the Protection of Birds. Sir Alan Brooke si spense per un attacco cardiaco il 17 giugno 1963 nella sua abitazione di Hartley Wintney, nello stesso giorno in cui avrebbe dovuto presenziare al Garter Service nella St George’s Chapel del CAstello di Windsor. Nove giorni più tardi si svolsero i funerali a Windsor e la sua salma venne tumulata nella chiesa di St Mary.
Sir Bernard Law Montgomery
Definito dai suoi compatrioti come il più grande soldato d’Inghilterra dopo Wellington, deve parte della gloria al feldmaresciallo Rommel, suo nemico in Africa settentrionale e in Normandia, avversario del quale non riconobbe mai pienamente i meriti, che però, avendolo sconfitto in battaglia gli fece da piedistallo nella storia. Individuo difficile, persona stizzosa e permalosa nonché piena di sé (seppure non abbia mai avuto difficoltà ad ammettere i suoi difetti caratteriali), Montgomery si mostrò comunque risoluto nell’assunzione delle decisioni importanti nei frangenti più delicati. A tratti dispotico con i suoi sottoposti, che però gli rimasero legati, cercò sempre di evitarne un sacrificio avventato. Figlio di un vescovo anglicano di origini irlandesi e dalla consistente prole (ebbe sette figli) Bernard Law Montgomery vide la luce il 17 novembre del 1887. Incline alla preghiera, in gioventù praticò le discipline sportive, in particolare rugby e nuoto, quando era al college. Conseguì il grado di sottotenente dopo aver frequentato l’accademia militare di Sandhurst, quindi, all’inizio della Prima guerra mondiale, venne inviato in Francia col corpo di spedizione britannico. Dopo due mesi, ormai promosso al grado di capitano, venne gravemente ferito in combattimento e ricevette la Distinguished Service Order. Tornato al fronte venne ferito per l’ennesima volta, guadagnandosi due croci di guerra francesi e numerosi encomi per atti di coraggio. Dopo la fine del conflitto mondiale prestò servizio presso un’unità formata da irlandesi, poi fu inviato in India. Nel 1931 fece ritorno in Gran Bretagna, dove tre anni dopo venne promosso tenente colonnello e da quel momento iniziarono le sue missioni militari in Egitto e Palestina. Nel 1937, all’età di cinquant’anni, divenne generale. Per lui andò prospettando la fine del servizio e la messa a riposo al termine di una carriera come tante altre, ma di lì a poco a cambiare il suo destino fu l’esplosione della Seconda guerra mondiale. A Montgomery venne assegnato il comando dell’VIII Armata in Francia, poi a seguito della debâcle, trasferito al comando della IV Armata si imbarco a Dunquerque e, rientrato in patria, gli venne assegnato il comando della zona sudorientale del territorio insulare. Nell’agosto del 1942 incontra Churchill, dal quale avrebbe dipeso buona parte del suo destino: il primo ministro britannico lo nomina comandante dell’VIII Armata, il gioiello dell’esercito di Sua Maestà che in quella fase si trovava nel deserto quasi inerte di fronte alle azioni fulminee e vincenti di Rommel; in quel momento il premier deve risolvere il grosso problema della sostituzione al comando della grande unità del generale Auckinleck: al suo posto avrebbe voluto il generale Gott, ma quest’ultimo aveva perso la vita in un incidente aereo proprio durante il viaggio verso il Medio Oriente e chi meglio di Montgomery avrebbe potuto rimpiazzarlo? In fondo, Montgomery era un ufficiale che in precedenza aveva maturato importanti esperienze in quella specifica regione divenuta poi teatro bellico, dunque per lui si sarebbe trattato dell’occasione della sua vita. Un compito difficile l’eliminazione degli italo-tedeschi da quello scacchiere, che però avrebbe consentito il successivo rischieramento delle forze britanniche altrove, nel continente europeo. Al momento di affrontare il suo avversario, Montgomery aveva dalla sua la supremazia in termini di armamenti, il pressoché totale controllo delle linee di alimentazione logistica nel Mediterraneo e l’usura del nemico. Ma fra i suoi soldati la volpe del deserto restava pur sempre un mito, anzi “il mito”, quello che incarnava l’invincibilità e che per gli inglesi era divenuto addirittura una psicosi. Dal 23 ottobre al 4 novembre 1942 i britannici vinsero la seconda battaglia di el-Alamein (la prima, quella combattuta da Auckinleck nel luglio precedente era stata una battaglia di arresto e logoramento), si trattò di una vittoria decisiva che avrebbe contribuito a mutare l’intero corso del conflitto. Disprezzò sempre i soldati italiani (…si arrendevano a mandrie, al comando di generali che avevano preparato le valige, scrisse nel suo libro di memorie) e la loro leadership politica (definì il più grande voltafaccia della storia l’armistizio siglato dagli emissari del governo di Roma l’8 settembre 1943). Quando, nella precipitosa ritirata che li avrebbe portati a insabbiarsi in Tunisia, i militari dell’Afrika Korps si servirono degli automezzi sottratti al Regio Esercito italiano per abbandonare la linea del fronte, Montgomery commento caustico il fatto affermando che i tedeschi erano sì scappati con i mezzi tolti ai soldati italiani, ma che questo era militarmente giusto, anche se politicamente sbagliato. Aveva le idee estremamente chiare il maresciallo di Sua Maestà quando sminuì il ruolo dei militari italiani attribuendo l’unica importanza ai tedeschi, lo fece scientemente, ben sapendo che il fatto di aver battuto questi ultimi gli avrebbe procurato maggiore fama. In seguito, al fianco degli americani, partecipò allo sbarco in Sicilia, dopodiché risalì con l’VIII Armata la penisola italiana fino a Ortona (dove le truppe canadesi vennero impegnate in durissimi combattimenti) e a Pescara. Quindi la sua ultima grande impresa fu la Normandia, quando comandò il XXI Gruppo di armate, un teatro bellico dove per certi versi si rese responsabile delle polemiche innescatesi durante e dopo la battaglia, in quanto fu abbastanza sciocco da sostenere che essa fosse stata condotta alla perfezione e che, al pari di tutte le altre battaglie nelle quali era stato alla guida delle truppe, era stata combattuta senza che egli si discostasse dai piani elaborati in precedenza. Dichiarazioni palesemente false, seppure in Normandia a lui vanno comunque attribuiti parte dei meriti per la vittoria. Infatti, quando nel settembre del 1944 lo scontro polemico raggiunse l’acuzie, le armate alleate si trovarono in difficoltà a causa della scarsa alimentazione logistica, ma egli, che era noto per la la sua tradizionale prudenza, assunse invece l’iniziativa forzando la mano ad Eisenhower allo scopo di conquistare una testa di ponte sul fiume Reno. Questo condusse però alla fallimentare operazione Market Garden, che vide protagonisti le unità aviotrasportate alleate e il XXX Corpo d’armata britannico, proteso verso la città di Arnheim. Si trattò della prima e unica sconfitta in battaglia di un certo rilievo subita da Montgomery anche se lui, col suo solito atteggiamento, la descrisse come un successo conseguito al novanta per cento. In seguito guiderà le sue truppe fino in Germania, occupando le città di Hannover e Lubecca. Il 4 maggio 1945, nel suo quartier generale firmerà con i plenipotenziari tedeschi la resa delle forze militari germaniche presenti nel settore nordovest.
Rispettoso della vita umana, zelante, astemio, non fumatore e privo di senso dell’umorismo, rifuggì sempre i vizi al punto da considerare le “femmine” come strumenti di perdizione, frivole materializzazioni del peccato. Ma sarebbe sbagliato delineare la sua figura con i tratti della macchietta, come fosse null’altro che un archetipo. In realtà Montgomery fu un grande generale, senza dubbio anche abile anche nel sapersi porre come un personaggio in grado di scolpirsi nella storia. Una volta, dopo lo sbarco in Normandia, si presentò in prima linea alle sue truppe fradice di pioggia con l’impermeabile e l’ombrello al braccio, vestì quasi sempre con abiti comodi e fuori ordinanza, con in capo calzato il suo inconfondibile basco nero delle truppe corazzate britanniche al quale aveva applicato il regolamentare fregio di ufficiale generale abbinandolo a quello del Royal Tank Regiment, unità carri nella quale però non aveva mai prestato servizio. Un vero anticonformista inglese, ma dalle abitudini spartane. Dopo la guerra ricoprì la carica di capo di stato maggiore Imperiale e comandò la NATO. Insignito di numerose onorificenze, ricevette il bastone di maresciallo da re Giorgio e l’Ordine di Suvaroff di prima classe, massima decorazione sovietica. Insofferente rispetto alla politica e, quindi, da essa distaccato, a differenza di molti suoi colleghi, cessata la vita militare non ricoprì cariche pubbliche e neppure ruoli di prestigio all’interno dei consigli di amministrazione di società commerciali private. Non fu certamente parco di critiche neppure nei confronti dei suoi alleati: nel corso di un suo intervento in una trasmissione televisiva di un’emittente americana attaccò duramente Eisenhower (allora presidente degli Stati Uniti) affermando che la sua pigrizia e le sue perplessità avevano ritardato la conclusione della guerra in Europa di sei mesi, consentendo ai sovietici di occupare Berlino. In vecchiaia rimase in solitudine nella sua casa di Alton, un vecchio mulino trasformato in villa nella contea dell’Hampshire, vedovo e lontano dell’unico figlio. Nel 1968, ottantunenne, ebbe un lieve collasso durante la partecipazione al discorso della regina alla Camera dei Lord: si accasciò, ma poi si riprese. Si sarebbe spento otto anni più tardi, nel 1976.
Philippe-François-Marie de Hauteclocque, Leclerc
Gli scheletri rimasti negli armadi francesi dopo la Seconda guerra mondiale non furono pochi, infatti non furono in troppi gli ufficiali che dopo la vergognosa defaite del 1940 si schierarono con De Gaulle continuando la resistenza contro l’occupante tedesco. Al contrario, buona parte di essi aderirono (in maniera più o meno motivata) al governo collaborazionista di Vichy. Fra coloro i quali, invece, decisero di espatriare temporaneamente a Londra per proseguire la lotta figurò un oscuro capitano in servizio di stato maggiore presso il comando della IV Divisione di fanteria dell’Armée: Philippe-François-Marie de Hauteclocque. Fatto prigioniero dai tedeschi dopo la disfatta delle forze di Parigi, riuscì a fuggire e si unì al governo in esilio di De Gaulle. In seguito, assunse lo pseudonimo di “Leclerc” allo scopo di non esporre la propria famiglia, rimasta in Francia dopo l’occupazione tedesca, alle eventuali ritorsioni pétainiste nel momento in cui accettò l’incarico di far aderire la colonia del Camerun alla Francia Libera.
Philippe-François-Marie de Hauteclocque, nacque nel 1902 nel castello di Belloy-Saint-Léonard, in Piccardia, era un aristocratico religioso e di sentimenti filo-monarchici dallo spiccato senso dell’onore e del dovere. Nei primi anni Venti, da cadetto frequentò i corsi dell’accademia militare di Saint-Cyr, venendo quindi assegnato all’arma di cavalleria e quindi frequentò i corsi dell’École de Cavalerie di Saumur. In seguito, tra il 1925 e il 1927, partecipò alle operazioni di pacificazione coloniale del Marocco al comando di un Goum, durante le quali gli venne conferita la Legion d’Onore. La sua esperienza successiva la maturò come istruttore nell’accademia nella quale si era formato in precedenza, Saint-Cyr. Tra il 1938 e il 1939 frequentò il LX Corso alla scuola superiore di guerra, poi, nel 1940 prese parte alla difesa del territorio metropolitano francese invaso dalle truppe del III Reich. Nel maggio di quell’anno, trovatosi con la sua divisione accerchiato dai tedeschi, col permesso del suo comandante si dette alla macchia nel tentativo di raggiungere nuovamente le linee francesi che arretravano sempre di più in un Paese ormai allo sbando. Venne ferito alla testa, poi catturato dal nemico due volte e due volte fuggito, quindi, attraversando la Spagna riuscì a raggiungere il Portogallo, da dove si imbarcò per l’Inghilterra, dove De Gaulle lo promosse al grado di colonnello, prefigurando per questo carismatico ufficiale un utile impiego. Insieme ad altri ufficiali gaullisti, il capo della Francia Libera lo avrebbe presto inviato in Africa con l’obiettivo di costituire una propria, seppure estremamente ridotta, presenza militare, i territori dell’Afrique Équatoriale Française (AEF), contrapposti a quelli dell’Afrique Occidentale Française (AOF), rimasta invece fedele a Vichy. Divenuto governatore del Camerun, Leclerc dovette però spostarsi più a settentrione insieme al suo nucleo di soldati dopo la sconfitta nello scontro fratricida con i pétainisti delle forze che presidiavano la capitale della colonia del Gabon, Libreville. Da questo momento iniziò la fase dei colpi di mano contro gli avamposti italiani nel Fezzan e nell’area dell’oasi di Kufra, presidiati spesso da compagnie sahariane del Regio Esercito. Partendo dalle sue basi nel Tibesti (Ciad), le sue compagnie esploranti si distinsero particolarmente in questo genere di attività, seppure un’avanzata vera e propria della sua colonna verso nord, date le esigue forze disponibili (soltanto 3.500 uomini con una preponderanza di africani e legionari stranieri) si rese possibile soltanto alla fine del 1942, dopo che Montgomery ebbe conquistata l’intera Cirenaica e che gli Alleati furono sbarcati in Marocco e in Algeria. Infatti, gli uomini di Leclerc riuscirono a conquistare per intero il Fezzan soltanto nel gennaio del 1943. In sostanza, le loro furono azioni sicuramente audaci, ma limitate nell’efficacia e nei risultati, atti eroici e spettacolari che vennero comunque abilmente sfruttate sul piano propagandistico da De Gaulle e dai suoi alleati. In seguito, assunta la denominazione di “Forza L”, i gaullisti di Leclerc combatterono sotto il comando di Montgomery fino in Tunisia, la cui capitale viene liberata l’8 maggio e Leclerc viene promosso generale di divisione. Nella fase di ri-equipaggiamento dell’unità in vista del suo prossimo impiego in Europa, l’elasticità mentale e l’ampiezza di vedute di Leclerc contribuiscono all’ottima formazione delle componenti blindo-corazzate della sua neonata 2eme Division Blindée (tutti i materiali sono americani). Nella primavera del 1944 Leclerc si trasferì in Inghilterra con la sua unità, che venne successivamente inquadrata nel XV Corpo d’armata del generale Haislip, facente parte a sua volta della III Armata statunitense del generale Patton. Il 20 luglio la 2eme Division Blindée si imbarcò a Southampton e, undici giorni dopo, sbarcò sul suolo patrio per partecipare alla battaglia di Normandia. Egli fu il primo a fare ingresso nella capitale dopo il ritiro dei tedeschi e, successivamente, nella sua seconda fase della campagna di Francia, liberò la città di Strasburgo, quindi sempre al fianco degli angloamericani, condusse l’offensiva in Lorena ed Alsazia penetrando poi in Germania. Con l’incorporazione della sua unità da parte della I Armata francese del generale de Lattre de Tassigny, avvenuta nel gennaio 1945 per volere di De Gaulle, per Leclerc iniziò una fase di pessimi rapporti con i suoi diretti superiori. L’eroe d’Africa, che fino a quel momento aveva agito nella massima autonomia, mal tollerò le incomprensioni e i limiti che gli vennero imposti e nella primavera del 1945, a seguito di una serie di incidenti che videro coinvolto lo stesso De Gaulle, la divisione blindata di Leclerc venne ritirata dal fronte e rischierata nelle retrovie. Per i francesi Leclerc divenne un personaggio ingombrante e scomodo che però non poteva essere eliminato dalla scena con un semplice colpo di spugna degli alti comandi, quindi venne reintegrato con la sua unità nel XV Corpo d’armata statunitense dove poté partecipare alla fase conclusiva dei combattimenti in Germania, occupando simbolicamente il nido dell’aquila di Hitler a Berchtesgaden ormai abbandonato dai tedeschi. Decorato della Gran Croce della Legion d’Onore, dopo la disfatta militare del III Reich, in ottobre gli venne affidato il comando delle forze francesi in Estremo Oriente e, con tale qualifica, ricevette per conto del Governo di Parigi la resa nipponica. Il suo ultimo incarico fu quello di ispettore generale delle forze francesi stanziate in Africa settentrionale, luogo dove il 28 novembre del 1947 perse la vita a causa di in incidente aereo. Philippe-François-Marie de Hauteclocque venne sepolto nella chiesa degli Invalides a Parigi e nel 1952, a titolo postumo, ricevette la nomina a Maresciallo di Francia.
Karl Rudolf Gerd von Rundstedt
Il comandante dell’Oberbefelshaber West nacque il 12 dicembre 1875 nel villaggio di Aschersleben, presso Halle, nell’Alta Sassonia. Discendente da una nobile famiglia prussiana, studiò all’accademia militare di Hannover dove, al termine del suo corso, venne assegnato in forza a un reggimento di fanteria e da quel momento seguì la rigida carriera tipica degli ufficiali tedeschi, con regolari avanzamenti di grado. Partecipò al Primo conflitto mondiale, nel corso del quale combatté su vari fronti e, in seguito, fu uno dei componenti della missione tedesca in Turchia. Dopo la disfatta del Kaiser, divenuto ufficiale di stato maggiore, si distinse per l’impegno col quale si dedicò alla riorganizzazione di alcune unità del Reichswehr, il nuovo esercito germanico costituito durante la Repubblica di Weimar. Nel 1927 ricevette la nomina al grado di generale e nel 1932 il cancelliere von Papen gli assegnò il comando del I Gruppo di armate, che aveva la sua giurisdizione sulla zona della capitale Berlino, un’occasione che gli permise di mettersi in luce agli occhi del capo del governo attraverso la soppressione del governo prussiano. Egli, infatti, lo stesso anno svolse meticolosamente il compito affidatogli: l’allontanamento con la forza dai loro uffici dei ministri socialdemocratici prussiani che si erano opposti al provvedimento di scioglimento decretato dal Governo federale e, inoltre, la repressione delle agitazioni conseguente mente divampate nell’intera regione. Malgrado sopportò con grande scetticismo e fastidio l’ascesa al potere del partito nazista, riuscì egualmente a essere gradito da Hitler; in fondo, al pari degli altri ufficiali aristocratici della sua casta, a lui non garbavano certamente né gli obiettivi sociali né i metodi dei nazionalsocialisti, tuttavia, come molti altri generali tedeschi suoi contemporanei, accolse con favore e soddisfazione sia il piano di riarmo tedesco voluto dal Führer che la sua violenta epurazione al vertice della SA, le squadre di azione di Röhm. Nel ricostituendo esercito del Reich si dedicò principalmente alla riorganizzazione delle unità di fanteria, cercando di conferire alla sua specialità di appartenenza il primato che gli era appartenuto in passato e per ottenere tale risultato introdusse nuovi concetti nel campo dell’addestramento modernizzando al contempo gli armamenti di dotazione. Non si oppose quindi alle rivoluzionarie teorie sulla guerra meccanizzata che in quegli anni si andavano affermando e seguì le interessanti sperimentazioni che in quegli anni venivano effettuate in Gran Bretagna, però non abbracciò fervidamente le innovazioni: la sua mentalità di “fante”, seppure ispirata a una visione progressista della dottrina, continuò a essere viziata dalla classica riserva mentale che portava al concepimento del ruolo dei carri armati non come risolutivo nello sfondamento delle linee nemiche, ma come utile complemento della fanteria sul campo di battaglia.
Nonostante egli si fosse mantenuto a debita distanza dalla politica nazionale, ebbe comunque occasioni di scontro con esponenti di vertice del regime nazista. Nel 1938 protestò presso Hitler dopo che, a seguito di una macchinazione orchestrata dal comandante delle SS Himmler, il comandante in capo dell’esercito, generale von Fritsch, venne ingiustamente rimosso dal suo incarico. In seguito, non condividendo l’aggressiva politica estera del governo, sottoscrisse un memorandum presentato al Führer dal capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Beck, documento nel quale si evidenziavano i seri rischi collegati a un possibile nuovo conflitto mondiale che si sarebbe potuto scatenare a causa dell’annessione tedesca della regione dei Sudeti. Ma la decisione delle potenze europee di scendere a patti con Hitler nel tentativo di evitare una guerra, formalizzata alla Conferenza di Monaco, finì unicamente per rafforzare la Germania nazista, indebolendo al contempo la timida opposizione degli alti circoli militari e portando alla disgrazia dello stesso Beck. La reazione di von Runstedt fu dura: poco tempo dopo l’annessione della regione boema dei Sudeti chiese di essere posto a riposo e si ritirò a vita privata. Ma la guerra era ormai alle porte e, grazie al suo grande prestigio personale unito all’abilità e alla profonda competenza nelle questioni strategiche, venne richiamato in servizio e gli venne affidato il comando del Gruppo di armate Sud, schierato nella zona centromeridionale della Polonia. La sua scelta fu quella di ritornare in servizio attivo, nonostante egli fosse fermamente contrario a uno scontro con la Gran Bretagna, dunque condusse l’avanzata delle truppe tedesche fino a Varsavia confermando le sue innate capacità militari e, conseguita la vittoria, Hitler lo nominò governatore della Polonia. Alcuni mesi dopo venne nominato comandante in capo del Gruppo armate A, le forze impegnate sul fronte occidentale che avrebbero operato lo sfondamento della Mosa travolgendo l’esercito francese. Esso ebbe poi luogo per mezzo delle sette divisioni corazzate schierate sulla linea tra Sedan e Namur, mediante l’attraversamento delle Ardenne e il raggiungimento della costa atlantica, accerchiando il dispositivo difensivo di Parigi formato dal I Gruppo di armate dalla I Armata francesi e dal corpo di spedizione britannico. Come avvenuto in Polonia, anche in Francia la blitz-krieg della Wehrmacht fu un successo e von Runstedt nel luglio del 1940 ricevette il prestigioso bastone di feldmaresciallo. Dopo la Francia avrebbe dovuto essere la volta della Gran Bretagna, ma all’Operazione Seelöwe (leone marino) von Runstedt non partecipò mai, in quanto non ci sarebbe mai stata una invasione dal mare delle isole britanniche da parte delle forze terrestri tedesche, infatti il Führer era già concentrato sull’Unione Sovietica e von Runstedt presto sarebbe stato inviato in Russia. Per l’intanto, al feldmaresciallo fresco di nomina venne assegnato il comando di tutte le unità militari tedesche presenti sui nuovi territori conquistati in Europa occidentale, l’Oberbefelshaber West, incarico che dovette lasciare nell’aprile del 1941 alla vigilia dell’Operazione Barbarossa, quando venne richiamato sul fronte orientale per assumere il comando del Gruppo armate Sud. Lì, con le sue divisioni attaccò l’Ucraina conquistando Kiev, Kharkov e poi la Crimea, ma nel novembre dello stesso anno si trovò in contrasto con Hitler a causa del modo nel quale erano state condotte le operazioni seguite all’occupazione della città di Rostov dopo l’omonima battaglia. Le differenze di vedute riguardo la condotta e le prospettive della guerra emerse fra i due uomini divennero sempre più profonde – a un certo punto il Führer giunse addirittura ad accentrare nella sua persona il comando del quartier generale dell’esercito ponendo ai suoi ordini tutte le forze impegnate sul fronte orientale – e quando ormai risultò chiara l’impossibilità di conquistare Mosca, von Runstedt propose persino il ripiegamento tedesco sulla linea di confine precedente al conflitto con Stalin. Nonostante il suo allontanamento dal fronte orientale (ufficialmente motivato da cattive condizioni di salute), all’età di sessantasette anni, nel maggio del 1942 von Runstedt ricevette ancora un importante incarico di comando, quello delle forze schierate in Belgio, Olanda e Francia. Poco dopo il suo insediamento dovette fronteggiare il tentativo di sbarco britannico a Dieppe, che venne respinto dai tedeschi, un episodio che rafforzò gli orientamenti degli alti comandi di Berlino di rafforzare le difese del settore occidentale, edificando quel Vallo Atlantico che avrebbe dovuto impedire un’invasione nemica dell’Europa. Le vicende relative ai mesi successivi sono state ampiamente trattate in precedenza, qui risulta però doveroso ricordare brevemente che, nel periodo della sua sostanziale diarchia al comando del settore occidentale con Rommel, von Runstedt lamentò una scarsa autonomia nel comando, compressa sia dall’estrema libertà d’azione di Rommel, teoricamente suo sottoposto, ma con un grande ascendente sul Führer, sia dalle interferenze dello stesso Hitler, situazione che lo portò all’amaro sfogo espresso in seguito con l’affermazione che in realtà, l’unica autorità che egli poté esercitare in quel periodo, fu quella sui militari di guardia ai cancelli del suo quartier generale. Scavalcato dalla volpe del deserto, che ispezionò e potenziò personalmente le difese costiere del Vallo Atlantico, facendo trasferire sotto il suo comando tre delle sei Panzerdivisionen schierate in Francia, escluso dal comando del I Gruppo di armate Panzer SS di Dietrich, che rispondeva direttamente a Hitler e, meno che mai in condizioni di influire sulle unità della Luftwaffe presenti in Francia, controllate rigorosamente da Göring, cosa restò in Normandia a von Runstedt? Battaglia durante, alla fine del giugno 1944, venne sostituito nell’incarico da von Kluge. Aveva sottoposto al Führer l’ipotesi di un ripiegamento delle forze allo scopo di meglio riorganizzare la resistenza all’invasione alleata su posizioni più arretrate, un idea categoricamente rifiutata da Hitler. Nell’inverno guidò senza troppe speranze l’offensiva contro gli angloamericani nelle Ardenne, scettico riguardo al fatto che essa avrebbe potuto conseguire gli obiettivi strategici che si erano prefissi all’Oberkommando der Wehrmacht. Nell’imminenza del crollo, nel marzo del 1945, cedette il comando al suo parigrado Kesserling. Catturato dalle truppe statunitensi, che lo consegnarono successivamente ai britannici, venne processato a Norimberga, dove rimase inizialmente prigioniero. Trasferito in seguito a Londra e poi ad Amburgo, venne liberato nel 1949 a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. Karl Rudolf Gerd von Rundstedt si spense ad Hannover, nella Repubblica Federale Tedesca, il giorno 24 febbraio del 1953.
Erwin Rommel
Ritenuto uno dei più audaci esponenti della strategia di movimento e soprannominato per la sua astuzia e le sue capacità di stratega la «volpe del deserto», il feldmaresciallo Erwin Rommel nacque a Heidenheim, nel Württemberg, nel 1891. Arruolatosi nell’esercito tedesco nel 1910 prese successivamente parte alla Prima guerra mondiale combattendo sui fronti francese, rumeno e italiano, dove partecipò alle operazioni di sfondamento di Caporetto. Nel 1915 ricevette la croce di ferro e due anni dopo fu nominato capitano. Dopo il crollo militare della Germania per Rommel seguirono anni difficili: egli rimase per qualche tempo a Stoccarda, quindi fu ufficiale istruttore nella scuola di fanteria di Dresda. Promosso al grado di maggiore nel 1933 e a quello di tenete colonnello nel 1935, passò poi all’Accademia militare di Potsdam. Interessato alle filosofie d’impiego della forza note come Blitzkrieg (guerra lampo), in quegli anni pubblicò degli scritti che ebbero larga eco negli ambienti militari e lo stesso Hitler lesse con interesse il suo testo Attacchi di fanteria.
Esplosa la Seconda guerra mondiale, Rommel, che nel frattempo aveva maturato il grado di brigadiere generale, venne inviato in Francia, dove nel maggio 1940 al comando di una divisione corazzata sfondò il fronte nel settore della Mosa, mentre soltanto un mese dopo ingenti forze nemiche dislocate in Normandia gli chiesero la resa. Nel 1941, a seguito della sconfitta subita dagli italiani in Libia, Hitler inviò in Africa settentrionale una divisione corazzata e alcuni reparti della Luftwaffe, ottenendo però come contropartita da Mussolini che a Rommel venisse affidato il comando dell’intero dispositivo militare italo-tedesco schierato in nord Africa. In un primo momento i britannici non attribuirono eccessiva valenza al nuovo comandante sopraggiunto dalla Germania, ma presto dovettero ricredersi, in quanto il teatro operativo desertico rappresentò l’ambiente ideale in cui Rommel poté applicare le sue concezioni sulla guerra di movimento. Il 21 marzo l’Afrika Korps attaccò in Cirenaica, conquistando in pochi giorni l’intera regione, minacciando addirittura la stessa piazzaforte di Tobruk, posta a poca distanza dal confine egiziano. Dalla Libia Rommel inviò al Führer un piano per colpire gli inglesi in Egitto e nel Vicino Oriente, ma il dittatore tedesco, ormai ossessionato dall’idea di attaccare l’Unione sovietica, al momento rimandò ogni decisione al riguardo. Alla fine del 1941 un contrattacco dei britannici ricacciò gli italo-tedeschi fin dietro Bengasi, però, nell’estate seguente, con una serie di geniali manovre tattiche e strategiche, Rommel avanzò nuovamente fino alla frontiera egiziana, arrestandosi a circa un migliaio di chilometri dalle basi di partenza, sulla linea Gazala-el-Alamein. L’intera area di Suez venne così a trovarsi in gravissimo pericolo. Nei mesi che seguirono attraverso il mar Rosso i britannici fecero affluire continui rifornimenti di uomini e di mezzi, questo mentre l’armata di Rommel, che nel frattempo era stato nominato feldmaresciallo, si trovava in una situazione di scarsità sotto tutti i punti di vista, a cominciare dal carburante per i mezzi corazzati. Contro il brillante comandante tedesco influirono anche altri elementi, quali la scarsa preparazione alle forme della guerra moderna del generale italiano Ugo Cavallero e, pare, persino dall’ostilità e dalla gelosia manifestata dal suo collega Kesserling. Tutto questo condusse alla drammatica battaglia di el-Alamein, combattuta nell’ottobre 1942, dove le forze del Regio Esercito italiano, appiedate, furono travolte dall’VIII Armata di Montgomery, mentre le unità tedesche dovettero ritirarsi precipitosamente. In precedenza, il giorno 24 settembre, Rommel, ammalato e agitato per il mancato arrivo dei rifornimenti aveva dovuto essere ricoverato in un ospedale della Germania, dirigendo così le sue truppe in battaglia all’ultimo momento e in pessime condizioni di salute.
Nel marzo del 1943, crollata ogni resistenza dell’Asse in Africa, dove pure lui stesso era riuscito negli ultimi giorni a infliggere duri colpi agli americani che avanzavano in Tunisia alle spalle dello schieramento tedesco, fece nuovamente ritorno in Germania dove rimase ricoverato in ospedale per alcune settimane. In seguito ebbe il comando delle forze in Italia settentrionale, quindi assunse il comando del Vallo atlantico. Ma, mentre aveva luogo lo sbarco anfibio degli Alleati in Normandia, il feldmaresciallo si trovava in Germania per trascorrere una breve licenza assieme alla moglie. Il 17 luglio 1944 venne ferito durante un attacco aereo lungo la strada fra Livarot e Vimoutiers, un proiettile lo raggiunse alla tempia sinistra e allo zigomo, mentre i frammenti del parabrezza lo ferirono gravemente al viso. Ricoverato all’ospedale di Vesinet, presso Saint-Germain, i medici lo dettero per spacciato. Tre giorni dopo, mentre lottava con la morte, a Rastenburg veniva compiuto l’attentato ai danni del Führer.
Non esistono certezze riguardo al livello di partecipazione di Rommel al piano Valchiria, preordinato all’eliminazione fisica di Adolf Hitler, seppure il feldmaresciallo, fin dai tempi della campagna militare in Nordafrica, avesse espresso una profonda delusione per le decisioni assunte da Hitler nel corso della conduzione della guerra. Negli ultimi anni si disse convinto che la Germania avrebbe dovuto porre fine al conflitto ponendosi però in una condizione che la mettesse al riparo da un ulteriore scontro bellico prolungato e su più fronti. Il 15 maggio 1944, a Marly, presso Parigi, incontrò congiuntamente il suo capo di stato maggiore, generale Hans Speidel (che era un elemento di punta della ramificazione occidentale della congiura) e il generale Heinrich von Stülpnagel, facente anch’egli parte dei congiurati. Con i due alti ufficiali discusse sulle possibili modalità di cessazione delle ostilità sul fronte occidentale attraverso dei negoziati segreti con gli angloamericani da intavolare prima che questi avessero dato avvio a una operazione di invasione terrestre nella Francia settentrionale. Ciononostante Rommel proseguì con impegno la sua attività di approntamento e potenziamento delle difese sulla costa settentrionale francese in vista di uno sbarco nemico. Questo farebbe supporre che nell’incontro del 15 maggio i tre ufficiali si fossero mantenuti entro una dimensione strettamente teorica che prevedeva sì, trattative per una pace separata, ma non l’eliminazione del Führer, aspetto sul quale Rommel era decisamente contrario. Rommel pensava infatti che se Hitler fosse stato riconosciuto colpevole di crimini si sarebbe dovuto deporlo e procedere nei suoi confronti mediante un processo celebrato da un tribunale del Reich, ma non certo assassinarlo, cosa che per altro agli occhi del popolo tedesco lo avrebbe trasformato in un eroe. Con ogni probabilità Rommel non fui a conoscenza dei dettagli del piano Valchiria, quindi le accuse di “conoscenza colpevole” e di coinvolgimento indiretto mossa nei suoi confronti sarebbero da ritenersi infondate. Ma le perverse dinamiche innescate dal fallito attentato di von Stauffemberg lo coinvolsero egualmente.
Dopo la dimissione dall’ospedale Rommel venne trasportato nella sua villa di Herrlingen, presso Ulm. Nel frattempo von Stülpnagel, vistosi scoperto, aveva tentato il suicidio senza però riuscirvi e nel delirio, al cospetto di alcuni agenti della Gestapo, gridò ripetutamente il nome di Rommel. Fu sufficiente affinché Hitler prendesse la tragica decisione: Rommel avrebbe dovuto pagare con la morte il suo tradimento. Intanto, contro le previsioni dei medici, il feldmaresciallo supera rapidamente la crisi e, in capo a tre settimane, le sue condizioni di salute migliorano sensibilmente. Rommel è preoccupato del fatto che il suo ferimento sia stato commentato dai giornali tedeschi come “un incidente”. Il 7 settembre le SS arrestano anche il generale Speidel. Rommel viene messo al corrente del fatto e si pone in contatto col comando supremo della Wehrmacht, però non ottiene spiegazioni al riguardo. Un mese dopo il generale Keitel lo convoca a Berlino per discutere con lui sulla possibilità di affidargli un nuovo incarico, ma lui, anche su consiglio dei propri medici, non si reca nella capitale. All’ammiraglio Ruge che gli fa visita a Herrlingen confida: «Non andrò a Berlino. So che non arriverei vivo. So che mi ammazzerebbero per strada simulando un incidente».
Il 14 ottobre i generali Burgdorf e Maisel, il cui arrivo era stato preannunciato il giorno precedente da una telefonata del V Distretto di Guerra di Stoccarda, giungono da lui e gli parlano per circa un’ora, dopodiché Rommel chiama sua moglie Lucie per dirle addio. I due emissari di Hitler gli avevano ingiunto di suicidarsi se voleva evitare di essere trascinato come un criminale davanti a un tribunale del Reich. Anche un altro ufficiale coinvolto in Valchiria, il generale von Hofacker, aveva fatto il nome della volpe del deserto alla Gestapo e inoltre pare che Rommel fosse stato indicato come futuro presidente del Reich nella lista dei congiurati. Il feldmaresciallo diede l’addio al figlio Manfred e poi scese in giardino. Salì sulla macchina, una Orch del 1938 dove avevano già preso posto Burgdorf e Maisel, i due generali che avevano consegnato il veleno a Rommel. La vettura guidata da un SS si mise in marcia e percorse un breve tragitto fino al bivio di Blauberen. Lì, a poco a poco, scesero tutti, tranne il feldmaresciallo. Il suo cadavere verrà rinvenuto poco dopo riverso sul sedile posteriore. I funerali di stato ordinati da Hitler, che vennero celebrati il 18 ottobre a Ulm, assunsero l’aspetto di una farsa grottesca.
Armi, materiali e filosofie d’impiego
Quando alla fine della Seconda guerra mondiale gli Alleati fecero un consuntivo sugli effetti prodotti dai vari sistemi d’arma che gli avevano permesso di sconfiggere i nemici sui fronti sui quali erano stati impegnati (Pacifico, Africa settentrionale ed Europa), emerse che la Jeep, il C-47 Dakota e il Bazooka furono tra gli elementi che maggiormente avevano contribuito alla vittoria finale. La guerra che quegli uomini avevano appena finito di combattere si era dimostrata del tutto diversa dalla carneficina che vent’anni prima, nelle trincee fangose, aveva visto protagonisti e vittime i loro padri. Infatti, già dall’attacco tedesco alla Polonia del settembre 1939 si era subito compreso che quella sarebbe stata una guerra caratterizzata dall’estrema mobilità tattica e strategica delle truppe e dei materiali, in completa rottura con i tradizionali concetti che avevano informato (e in parte, incomprensibilmente) continuavano a informare le dottrine d’impiego e la conseguente azione di alcuni eserciti. Si tratta di un assunto incontrovertibile che ha sempre trovato conferma nella storia: il mancato adattamento a un mutamento di natura epocale è causa di marginalizzazione e di sconfitta. È il caso che occorse ai francesi nel 1940, cristallizzati nella difesa statica del proprio territorio nazionale e refrattari all’adozione di innovative filosofie d’impiego della forza. Al momento dell’attacco tedesco, l’Armée schierava carri armati relativamente moderni e sofisticati, in alcuni casi addirittura migliori di quelli del nemico, ma i vertici militari di Parigi (a eccezione di alcuni ufficiali più lungimiranti degli altri) si dimostrarono però piuttosto scettici circa l’impiego dei corazzati in maniera indipendente dalla fanteria e quindi rimasero ancorati a concetti ormai antiquati continuando a impiegarli come nel passato. Ma ovviamente, un sistema d’arma per quanto ultramoderno e tecnologicamente all’avanguardia possa essere, non fa la differenza se non trova un uso che tenga conto di dottrine adeguate alle circostanze, così i francesi andarono incontro al disastro e vennero inesorabilmente travolti da un avversario che, con la blitzkrieg seppe associare modernità di pensiero ed elevato livello tecnologico degli armamenti in una dottrina operativa rivoluzionaria. Quattro anni dopo, in Normandia, i sistemi d’arma avevano ormai conosciuto progressi notevoli, in ogni caso il particolare teatro operativo che si prospettava agli Alleati impose a ingegneri e tecnici degli sforzi tesi all’adattamento e al miglioramento dei materiali già esistenti e alla progettazione di nuovi. L’Operazione Overlord coincise con importanti progressi nel campo della ricerca e della produzione e segnò una fase di ulteriore spinta modernizzazione del confronto bellico. Fra tutti, nell’ampio panorama degli strumenti utilizzati dagli Alleati per il mastodontico sbarco anfibio di massa e la conseguente battaglia terrestre in Normandia, i porti Mulberry, in ragione della loro geniale soluzione ingegneristica e dei risultati ottenuti attraverso il loro utilizzo, meritano senza dubbio un approfondimento particolare. È quindi doveroso iniziare questa breve disamina proprio con loro.
I porti Mulberry
Il successo dell’intera campagna d’invasione della Francia sarebbe dipesa dalla rapidità degli afflussi di truppe, veicoli e materiali attraverso la Normandia, questo non soltanto nella fase dello sbarco, ma anche e soprattutto nei giorni seguenti del consolidamento della testa di ponte e in quelli ancora successivi della penetrazione in profondità nell’entroterra continentale. Ogni singolo soldato sbarcato aveva infatti bisogno quotidianamente di quaranta chili di rifornimenti, quantità di flusso che, considerate complessivamente, dovevano necessariamente transitare in luoghi diversi da quelli che erano i porti più importanti della Francia settentrionale, come Cherbourg e Le Havre, eccessivamente protetti dai tedeschi e quindi praticamente imprendibili in quei primi momenti di attacco. In generale, pur presentando delle evidenti falle lungo il suo lungo tracciato, il Vallo Atlantico era ben difeso, soprattutto nei suoi punti strategici, di risulta la conquista di quegli approdi intatti risultava estremamente difficile. In questo senso a Londra e a Washington tornò illuminante la catastrofica esperienza maturata con la fallita operazione di Dieppe nel 1942, che impose loro di ovviare al problema del rifornimento della forza evitando il trasbordo diretto sulla spiaggia, che avrebbe comportato eccessivi rischi. Ingegneri e tecnici si orientarono verso l’alternativa soluzione rappresentata da porti realizzati dal nulla mediante elementi prefabbricati che sarebbero stati velocemente assemblati in prossimità delle coste dopo essere stati trainati attraverso il canale della Manica dall’Inghilterra alla Francia.
Nel 1941 il premier britannico Churchill conferì all’ammiraglio Mountbatten l’incarico di sviluppare delle tecniche finalizzate allo svolgimento di operazioni anfibie. Di conseguenza, nel giugno del 1942 venne costituito un team deputato alla progettazione e alla realizzazione di porti artificiali, il TN5 (Transportation 5). Successivamente, a seguito delle decisioni assunte nel corso della Conferenza di Québec dell’agosto 1943, il contrammiraglio Tennant fu investito dell’esecuzione dei progetti in previsione dello sbarco in Normandia, e allo specifico scopo gli vennero assegnati alle dipendenze 500 ufficiali e 10.000 uomini tra militari e maestranze. L’operazione venne denominata Mulberry (“mora” o “gelso”). Le infrastrutture in questione avrebbero dovuto esprimere una capacità di scarico pari a quella del porto di Dover, cioè 6.000 tonnellate di materiali e 1.200 veicoli al giorno, ma non solo, perché tutte le operazioni dovevano venire effettuate in sicurezza (condizione da garantire soprattutto ai mezzi da sbarco a fondo piatto) e con semplicità. I lavori di costruzioni delle sue varie componenti ebbero luogo in officine e opifici inglesi situati in prossimità delle coste sulla Manica, laddove venne previsto il loro impiego, questo al fine di evitare il problematico trasporto delle enormi sezioni prefabbricate in Atlantico.
Un porto Mulberry era composto da vari elementi: si componeva di una barriera frangiflutti esterna galleggiante chiamata Bombardoon e da un frangiflutti interno fisso (Gooseberry) realizzato con dei cassoni di calcestruzzo (Phoenix) e vecchie navi fatte affondare appositamente (Block ship). Queste ultime, sia di provenienza militare che mercantile, raggiungevano autonomamente il punto del loro affondamento, quindi senza gravare sulla flottiglia di rimorchiatori. Si trattava di navi che avevano un’altezza dalla chiglia al ponte superiore di almeno dodici metri, cosicché, una volta fatte affondare in fondali di cinque metri sporgevano ancora per un paio di metri dal livello delle acque, permettendo così l’utilizzo delle strutture superiori come uffici amministrativi, pronti soccorso, officine e alloggi. Delle passerelle formavano le strade galleggianti che ponevano in relazione i moli, anch’essi galleggianti (ai quali le navi ormeggiavano) con la terraferma; esse sopportavano un peso massimo di 40 tonnellate e ne vennero realizzate per complessivi undici chilometri. Protette dai Bombardoon, le navi che non erano in gradi di avvicinarsi a causa dell’impedimento imposto dai loro pescaggi, potevano trasferire i loro carichi mediante battelli di minori dimensioni (Dukw e Rhinoferry), grandi zattere metalliche da 400 tonnellate propulse da potenti motori fuoribordo. I moli di attracco (Whale Pier) erano pontoni in calcestruzzo e acciaio di forma rettangolare e del peso di circa 1.000 tonnellate, essi vennero muniti ai loro quattro vertici di pilastri che scorrevano su dei telai, un movimento, unitamente all’altro dell’escursione, consentito da un sistema di cavi e pulegge mosso da motori diesel. Questo accorgimento permetteva di seguire l’andamento delle maree rendendo sempre possibile gli sbarchi indipendentemente dal livello del mare.
Per realizzare la totalità degli elementi costruttivi si rese necessario un anno I due porti artificiali (Mulberry A e B) vennero assemblati nel settore costiero Omaha (Saint-Laurent-sur-Mer) e Gold (Arromanches-les-Bains). I tedeschi compresero ben presto l’importanza di quei porti artificiali e li resero oggetto di ripetuti attacchi aerei, ma si trattò di raid del tutto vani, in quanto il dominio dei cieli alleato e le difese antiaeree installate a terra e sulle unità delle marine alleate (oltreché sui porti Mulberry stessi, che installavano sui cassoni Phoenix un cannone Bofors da 40/70) ne impedì la distruzione e, men che meno, il danneggiamento. Danneggiamento che invece riuscì alla furiosa tempesta scatenatasi sulle coste della Normandia il 19 giugno 1944, la più furibonda degli ultimi quaranta anni, a dire degli abitanti del luogo. Il tremendo fortunale, che imperversò per alcuni giorni, impose la totale interruzione delle operazioni di scarico in entrambi i porti artificiali, compromettendo il funzionamento del Mulberry A, che non era stato ancora completamente realizzato e che venne in seguito definitivamente abbandonato. Conseguentemente l’intero carico di lavoro gravò sul Mulberry B, soprannominata “Port Winston” (opera, per altro, assemblata con maggiore dal personale britannico cura rispetto all’infrastruttura gemella “A”, che invece era stata gestita dagli americani), che aveva resistito alla tempesta grazie anche alla protezione offertagli dai Phoenix e dalla scogliera del Calvados che aveva bloccato le onde. Nei cento giorni successivi al D-Day da questo approdo vennero sbarcati oltre due milioni e mezzo di uomini, 500.000 veicoli e quattro milioni di tonnellate di materiali, cioè gran parte dei rinforzi e dei rifornimenti necessari all’avanzata alleata in Francia. Dopo la conquista delle città di Anversa e Le Havre (settembre 1944) e col ripristino della funzionalità dei loro due porti, che consentirono agli Alleati di accorciare le linee di comunicazione con il fronte, che nel frattempo era avanzato, il Mulberry B cessò gradualmente di venire utilizzato e il 19 novembre 1944 venne ufficialmente chiuso. Per tre mesi aveva consentito lo scarico di una media di oltre 6.700 tonnellate al giorno, conm punte di 20.000 tonnellate in concomitanza con l’offensiva britannica a Caen dell’ultima settimana di luglio. Dopo il suo abbandono i materiali che lo componevano vennero quasi tutti recuperati e oggi, di questo mirabile esempio di ingegneria militare, restano soltanto alcuni cassoni di calcestruzzo e dei Phoenix della barriera frangiflutti ad Arromanches-les-Bains.
Mezzi da sbarco
Alle operazioni alleate del D-Day presero parte circa settemila imbarcazioni di vario tipo, comprese oltre quattromila tra navi e mezzi da sbarco. Se nel corso delle precedenti operazioni anfibie che avevano avuto luogo in Africa settentrionale e in Italia la fanteria alleata aveva potuto effettuare la discesa direttamente da bordo dei mezzi che li avevano trasportati fino alle coste in quanto le difese approntate dal nemico avevano permesso questo tipo di sbarco (allo scopo vennero utilizzati gli LCT, Landing Craft, Tank), sulle spiagge della Normandia non sarebbe stato possibile fare lo stesso, dato che di fronte alle postazioni fortificate tedesche del Vallo Atlantico gli uomini di Eisenhower sarebbero stati costretti a guadagnare nel più breve tempo possibile un riparo sulla spiaggia, inoltre avrebbero dovuto ricevere subito l’appoggio dei mezzi corazzati (in tal senso il disastro di Dieppe costituiva un valido insegnamento). Per lo sbarco in Francia settentrionale gli Alleati impiegarono dunque diverse tipologie di mezzi, che variavano sia nelle dimensioni che nelle caratteristiche a seconda delle esigenze alla base del loro specifico impiego (nel corso degli sbarchi di prima ondata oppure nel flusso successivo di aliquote di rinforzo e di rifornimenti), inoltre, mediante soluzioni ingegneristiche, modificarono anche alcuni loro mezzi corazzati al fine di renderli operanti anche sui bassi fondali marini a ridosso del bagnasciuga.
Le LST (Landing Ship, Tank) erano battelli da trasporto di notevoli dimensioni in grado di recapitare nella zona di sbarco 160 uomini oppure mezzi e/o materiali. Progettati per lo scarico anche su spiagge dai fondali poco profondi, non comportavano necessariamente l’impiego di gru e , comunque, evitavano la complessa operazione di allagamento del bacino interno; questi mezzi erano dotati di due grossi portelli che si aprivano a prua che consentendo l’accesso e la fuoriuscita dalla stiva da parte dei carri armati e degli automezzi. Per consentire lo scarico a terra dei materiali trasportati a bordo, era frequente che le LST fossero tirate a secco sulle spiagge, da dove, in seguito, potevano salpare nuovamente con l’arrivo dell’alta marea. Un metodo pratico che permise di sopperire ai non pochi problemi di rifornimento che si posero dopo il D-Day. Il battello LST Mk2, di produzione statunitense, lungo 150 metri e largo 25, era in grado di trasportare 2.100 tonnellate di carico. La maggior parte dei veicoli ruotati e dei materiali trovava alloggio sulla piattaforma superiore del battello e, di risulta, necessitava di una gru per le operazioni di carico/scarico; al di sotto di essa si trovava la piattaforma di carico per i carri armati, in grado di contenere fino a diciotto Sherman. Questi mezzi, propulsi da due motori diesel, potevano raggiungere una velocità di crociera di quasi nove nodi, erano quindi lenti e, a causa del loro fondo piatto, difficili da controllare nei tratti di mare interessati da forti correnti. Gli LST vennero dotati anche un ridotto armamento difensivo, consistente in due cannoncini da 40 millimetri e in dodici mitragliere antiaeree in calibro venti.
Gli LCT (Landing Craft, Tank) erano imbarcazioni di dimensioni minori rispetto agli LST (trentatré metri contro sessanta, quasi la metà) concepite per il percorso dell’ultimo tratto di mare verso le spiagge sulle quali poi sbarcavano i mezzi corazzati trasportati al loro interno. Prodotti in diverse versioni, avevano una capacità di carico di quattro carri armati Sherman. Nella versione armata LCT(G), dotata di due cannoni navali di piccolo calibro, vennero impiegati negli attacchi delle difese costiere fortificate oppure, se armati di mortai e di artifizi fumogeni, sui fianchi del fronte di sbarco della fanteria in funzione di supporto e copertura di quest’ultima ovvero per sostenerne l’assalto. Infine, va rilevato che, al pari dei mezzi corazzati, di questi mezzi da sbarco ne venne realizzata anche una versione posto comando, denominata mediante l’acronimo LCH (Landing Craft, Headquarters).
Gli LCI (Landing Craft, Infantry) erano mezzi da trasporto e sbarco esclusivamente dedicati alla fanteria. Lunghi settanta metri e aventi una capacità di carico pari a duecento uomini, furono in grado di recapitare il personale imbarcato dall’Inghilterra meridionale alle coste normanne al massimo in quarantotto ore. Dotati di una doppia rampa della lunghezza di ventuno metri per lo sbarco della truppa, rappresentarono una soluzione ottimale per ovviare al problema dell’assalto di sorpresa in quei settori del litorale francese scarsamente difesi dal nemico. Costruiti in meno di mille esemplari nelle due versioni L (large) e S (small), la prima in grado di trasportare 210 uomini completamente armati ed equipaggiati e la seconda circa la metà, tra il 1942 e il 1945 vennero assegnati alle marine statunitense e britannica.
Un’altra originale soluzione al problema che venne posto dagli sbarchi di prima ondata venne parzialmente risolto attraverso anche grazie al progetto del costruttore americano Andrew Higgins, che realizzò il suo LCVP (Landing Craft, Vehicle, Personnel) ispirandosi a un mezzo da sbarco simile che era stato precedentemente realizzato dai giapponesi. Gli LCVP, noti anche come Higgins Boat, erano battelli di ridotte dimensioni dallo scafo in legno a fondo piatto che riprendevano il disegno dei più voluminosi LCT, dotati di un portello a prua che al momento dello sbarco aprendosi in avanti fungeva da rampa, permettevano alle squadre di fanteria trasportate (fino a trentasei uomini in completo assetto di guerra oppure, in alternativa, dodici uomini e una jeep) di fuoriuscire in velocità. Una forma di autoprotezione veniva fornita da due mitragliatrici da .30 (calibro 7,7 millimetri) installate a bordo. Costruito in più di 23.000 esemplari tra il 1942 e il 1945, questo particolare tipo di mezzo da sbarco trovò impiego sia sul fronte del Pacifico che in quello europeo. Nel corso delle operazioni in Normandia ne vennero usati oltre mille esemplari.
Infine, vanno menzionati anche i BARV, da Beach Armoured Recovery Vehicle (veicolo corazzato recupero per le spiagge), mastodontico mezzo per il recupero approntato dagli statunitensi nel corso della Seconda guerra mondiale per lo specifico impiego sulle spiagge della Normandia nella fase dello sbarco anfibio alleato.
Aviazione
Nel corso della battaglia di Normandia gli Alleati ebbero il totale controllo dei cieli. I bombardieri britannici e statunitensi svolsero un ruolo fondamentale sia nella preparazione dello sbarco anfibio che, successivamente, nella distruzione degli obiettivi nemici, fossero essi reparti militari schierati sul campo che infrastrutture esistenti sul territorio francese che l’esercito occupante utilizzava. Ma per ottenere tale supremazia lo SHAEF dovette agire sui comandi delle componenti aeree britannica e statunitense al fine di concentrare gli sforzi sulla Francia. Fino a quel momento, infatti, la prevalente filosofia d’impiego dei reparti bombardieri era stata quella del bombardamento strategico della Germania, attraverso la quale Londra e Washington perseguirono l’annientamento del nemico attraverso il suo annichilimento sul piano industriale e psicologico. In questi termini venne dunque applicata quella dottrina militare del bombardamento strategico elaborata alcuni anni prima nella Air Corps Tactical School statunitense, che enfatizzava il bombardamento di precisione sugli obiettivi industriali del nemico effettuato da potenti bombardieri a lungo raggio. Nei loro piani gli americani avevano identificato già a partire dal 1941 oltre 150 obiettivi chiave del sistema economico e infrastrutturale tedesco ritenuti dagli strateghi di Washington vulnerabili a una sostenuta campagna di bombardamenti. Il concetto dell’offensiva aerea strategica contro il III Reich divenne parte della politica dell’amministrazione in carica negli Stati Uniti e per ottenere dei risultati concreti vennero individuate delle priorità per la forza aerea, alcune categorie di bersagli che compresero gli impianti di elettro generazione, le reti di trasporto, le raffinerie, i cantieri navali dove si costruivano i sottomarini, le industrie della gomma e dei cuscinetti a sfera oltreché, ovviamente, la capitale Berlino. I bombardieri pesanti dell’USAAF si sarebbero alternati con quelli della RAF britannica, che effettuavano le loro missioni di notte, e avrebbero colpito il territorio tedesco con missioni diurne. Da questo punto di vista, la Seconda guerra mondiale rappresentò il massimo esempio di conflitto nell’era industriale, cioè di quel particolare tipo di evento bellico che ebbe luogo in un’epoca di produzioni su larga scala di armamenti, di brevi periodi di addestramento dei soldati da inviare al fronte e di confronti prolungati fra grandi eserciti di leva; uno degli aspetti principali di questo genere di conflitti trovò rappresentazione negli enormi danni recati alle popolazioni civili e, appunto, alle infrastrutture; il suo apice e la sua contemporanea crisi come modello va rinvenuto nell’impiego americano della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, cioè nel momento del superamento dei limiti di una condotta razionale della guerra. Ma l’affidamento fideistico al potere aereo degli Alleati non portò però ai risultati sperati. È vero, a un certo punto il III Reich collassò, ma i bombardamenti strategici riuscirono a fiaccare l’economia tedesca molto tardi, dato che il livello massimo di produzione industriale in Germania venne raggiunto proprio nel 1944. Dunque, il cambio di passo si verificò quando Eisenhower in vista dello sbarco in Normandia unificò i comandi del Bomber Command della RAF e dell’USAAF, imponendo ad Harris e a Spaatz di alleggerire la pressione sulle città tedesche per concentrare, invece, gli sforzi sulle basi della Luftwaffe e sulle vie di comunicazione nella Francia settentrionale. Il primo in modo particolare, cioè Sir Arthur Travers Harris, noto anche col soprannome di Bomber Harris o col nomignolo di Butcher Harris (il “macellaio Harris”), comandante in capo del Bomber Command della RAF dal febbraio 1942 al settembre 1946, era uno strenuo sostenitore delle teorie del bombardamento strategico. Allo SHAEF ebbero comunque le idee chiare: non si sarebbe potuto dare avvio a una invasione del territorio francese prima di aver conseguito la superiorità aerea, precondizione che sarebbe stata realizzata mediante l’operazione Pointbreak, concepita allo scopo di assicurare questo genere di vantaggio in vista dello sbarco anfibio. Nel giugno 1944 le forze aeree degli Alleati (composte dai reparti di USAAF, RAF, Royal Canadian Air Force e dalle squadriglie australiane, ceche, francesi, neozelandesi, norvegesi, olandesi e polacche) schieravano più di undicimila velivoli, dei quali 3.500 da caccia e 5.000 bombardieri. Questo possente strumento posto al comando del maresciallo dell’aria Leigh-Mallory, si articolava sulla II Flotta aerea tattica guidata dal parigrado Coningham e sulla IX Flotta aerea statunitense al comando dapprima del generale Brereton e poi dal generale Vanderberg; la II Flotta aerea tattica annoverava 12.000 velivoli distribuiti in 73 squadriglie caccia, 20 squadriglie bombardieri medi, 7 squadriglie per l’aerocooperazione con le forze di terra (la RAF assegnò a ciascuna divisione combattente un ufficiale addetto al controllo aereo avanzato, o Forward Air Control, che comunicava via radio direttamente con i velivoli di supporto nella fase dell’attacco); la IX Flotta aerea comprendeva 65 squadriglie da caccia, 44 squadriglie bombardieri medi e 56 squadriglie da trasporto, per complessivi 2.000 velivoli. La Difesa aerea della Gran Bretagna, comandata dal maresciallo dell’aria Hill, schierava 41 squadriglie da caccia per complessivi 500 apparecchi, mentre dal RAF Bomber Command di Harris dipendevano 73 squadriglie di bombardieri pesanti e 15 di bombardieri leggeri, per complessivi 14.000 velivoli. Infine, l’VIII Flotta aerea statunitense, comandata dal tenente generale Doolittle, annoverava fra le sue schiere ben 160 squadriglie di bombardieri pesanti e 45 squadriglie da caccia. Insomma, nel corso della battaglia di Normandia gli Alleati raggiunsero una soverchiante supremazia nei cieli e le unità impegnate sul terreno beneficiarono sempre dell’ intervento in sostegno delle forze aeree tattiche. Dal D-Day alla fine di agosto del 1944 vennero effettuate 500.000 missioni di supporto alla componente terrestre sulla Francia settentrionale, quasi la metà di esse a opera della II Flotta tattica e dalla IX Flotta aerea statunitense, con una media di 3.000 sortite quotidiane Dopo lo sbarco anfibio, col procedere dell’avanzata in territorio francese, il Bomber Command britannico si trovò a essere impegnato con sempre maggiore frequenza in missioni di supporto tattico alla componente terrestre. Andava inoltre considerato che, a quel punto, non si pose praticamente più il gravoso problema dell’autonomia imposta ai velivoli di minori dimensioni (sostanzialmente i caccia destinati principalmente alla scorta dei bombardieri) dalle ridotte capacità dei loro serbatoi di carburante. Se in precedenza (almeno fino alla consegna del P-51 Mustang) i velivoli assegnati alla scorta dei bombardieri a un certo punto delle missioni erano costretti ad abbandonare la formazione, lasciandola così preda dei caccia della Luftwaffe (presenti in particolar modo nello spazio aereo tedesco), in seguito, decollando dagli aeroporti e dalle piste situate nell’Inghilterra meridionale e poi anche dalla Francia, i caccia di scorta poterono restare aderenti alle formazioni di bombardieri per tutta la durata delle loro missioni. Semmai, fino allo sfondamento del fronte tedesco, ostacoli e rallentamenti alla piena attualizzazione delle potenzialità aeree alleate derivarono invece dalle ridotte dimensioni della testa di ponte in territorio francese, non in grado di ospitare un numero sufficiente di piste, con la conseguenza di incapacitare nel numero i decolli e gli atterraggi degli aerei e di provocare ricorrenti rischi di collisione in volo tra gli apparecchi. A titolo di esempio varrà riportare il caso dell’ingolfamento occorso al’83° Gruppo tattico, che alla fine della prima settimana di luglio (dunque a un mese esatto dal D-Day) venne raggiunto in Normandia dalla metà delle squadriglie appartenenti alla IX Flotta aerea statunitense, ma con l’altra metà bloccata al di là del canale della Manica perché delle ventisette piste promesse a Tedder e a Leigh-Mallory ne risultarono realmente operative solo diciannove. Il mancato tempestivo raggruppamento della flotta aerea alleata fu un inconveniente che si ripercosse sull’economia generale dell’operazione. Un’altra causa di rinvii e rallentamenti fu il maltempo, fonte di notevoli limitazioni nella fornitura del supporto al dispositivo terrestre amico, le condimeteo variarono spesso dal caldo estivo caratteristico di quella stagione a precipitazioni torrenziali che bloccavano a terra gli aerei nelle loro basi dell’Inghilterra meridionale. Comunque la componente aerea fornì il necessario contributo fin dalle prime fasi di Overlord, quando le tre divisioni aviotrasportate alleate impiegate in Normandia (la 6ª Pegasus britannica e le 82ª Airborne All Americans e 101ª Airborne Screaming Eagles statunitensi) vennero trasferite nelle rispettive zone di operazioni mediante velivoli da trasporto C-47 e alianti AS-51 e CG-4A.
Il Douglas C-47 Dakota, soprannominato dai soldati “Sky Train” (treno del cielo), era un velivolo bimotore ad ala bassa sviluppato dalla Douglas Aircraft Company negli anni Trenta. Originariamente concepito per impieghi civili (era infatti comunemente noto anche con l’alfanumerico DC-3), poteva trasportare 28 uomini oltreché i due membri dell’equipaggio, inoltre era in grado di trainare un aliante tipo AS-51 o due alianti tipo CG-4A per una distanza di 1.500 miglia.
L’aliante CG-4A Waco era strutturato su un telaio tubolare dove appoggiava una pianale rinforzato nella sua zona di carico, mentre le ali erano formate da una centinatura in legno ricoperta di tela di canapa; l’equipaggio era costituito da due elementi, pilota e copilota, e il carico trasportabile poteva essere in alternativa di dodici uomini completamente armati ed equipaggiati oppure di 1.500 chilogrammi di materiali. Il caricamento delle attrezzature di maggiore peso veniva effettuato attraverso la parte anteriore del velivolo, che, allo scopo specifico, venne dotato di una cabina di pilotaggio in grado di essere aperta e alzata per consentire un comodo accesso all’interno. Il personale faceva invece uso dei due portelli laterali, inoltre, per consentire l’effettuazione delle operazioni di scarico il più velocemente possibile (in caso di emergenze o nel corso dello sbarco in zona di operazioni) era possibile l’uso di altri due pannelli amovibili posti tra la cabina di pilotaggio e i portelli posteriori di carico. Nei casi di estrema necessità era anche possibile recidere con una lama la tela di canapa allo scopo di abbandonare rapidamente il velivolo. Tra il 1942 e il 1945 di questo tipo di aliante ne vennero realizzati quasi 14.000 esemplari.
L’altro aliante impiegato durante le prime fasi del D-Day fu l’As-51 Horsa, velivolo progettato per recapitare in zona di operazioni carichi molto più pesanti rispetto al CG-4° Waco. L’Horsa, realizzato interamente in legno, possedeva un’apertura alare di 44 metri e una lunghezza della fusoliera di 32; era in grado di trasportare 25 uomini armati ed equipaggiati oppure, in alternativa, 3.500 chilogrammi di materiali. Per le operazioni di carico veniva utilizzato uno spazioso portello situato lateralmente sulla sinistra della fusoliera, appena alle spalle della cabina di pilotaggio; però, per le operazioni di scarico dei materiali pesanti si rendeva necessario lo sbullonamento della sezione di coda, che in seguito doveva venire spinta di lato. Per velocizzare questo genere di operazioni in zona di operazioni, durante il combattimento, venivano fissate delle ridotte cariche di esplosivo ai bulloni che, unavolta fatte brillare, consentivano un rapido distacco della sezione di coda. La versione successiva dell’As-51, l’Horsa 2, si caratterizzava per una cabina di pilotaggio provvista di cardini e che quindi poteva aprirsi sul lato destro della fusoliera facilitando le operazioni di carico e scarico dei materiali; inoltre, l’Horsa 2 aveva una fusoliera più grande che offriva volumi di carico maggiori. Questo tipo di aliante venne impiegato anche dopo le operazioni di sbarco in Normandia come vettore di personale, pezzi di artiglieria, autoveicoli leggeri e altri materiali e attrezzature utilizzati dalle forze alleate nel corso delle missioni svolte dietro le linee nemiche.
Nel corso delle missioni aeree di bombardamento condotte dagli Alleati durante la battaglia di Normandia non furono pochi né i casi di mancata distruzione degli obiettivi né quelli di “fuoco amico”. Ad esempio, una delle vicende che dopo la fine della guerra sollevò dubbi e polemiche fu quella relativa al bombardamento a tappeto effettuato dalla RAF sull’area di Caen da circa 450 quadrimotori pesanti Handley Page Halifax, ritenuta a posteriori di scarsa utilità ai fini pratici della risoluzione dello stallo terrestre, ma che per contro provocò numerose vittime fra i civili del luogo e la quasi totale distruzione del capoluogo del Calvados. Quella volta accadde che i piloti, proprio per evitare di colpire le proprie linee (a ridosso dello schieramento avanzato nemico) sganciarono il loro carico di bombe molto più avanti rispetto al previsto, cagionando così soltanto lievi danni al dispositivo difensivo tedesco. L’Halifax era un bombardiere pesante che venne impiegato dai britannici per tutto il corso della loro guerra contro i tedeschi e in Normandia trovò un impiego sia nelle fasi immediatamente precedenti allo sbarco anfibio che in quelle successive della battaglia. Insieme all’Avro 683 Lancaster costituì uno dei due principali bombardieri strategici a disposizione del Bomber Command e utilizzati principalmente nelle missioni notturne sulla Germania. Il Lancaster entrò in linea a partire dal marzo 1942 e restò anche lui in servizio fino al termine del conflitto, prendendo parte a oltre il 60% delle missioni di bombardamento sulla Germania; di esso ne vennero prodotti oltre 7.300 esemplari dei quali, a causa dell’intenso impiego in difficili condizioni operative, ne andarono perduti in combattimento più della metà. Va rilevato che nel 1939 la RAF si trovò ad entrare in guerra praticamente priva di bombardieri pesanti, restando in questa situazione deficitaria almeno fino al 1941, quando l’industria nazionale e quella canadese riuscirono a consegnare i primi Short Stirling e gli Halifax. Ma fino a quel momento il vuoto nelle linee di volo di Londra dovettero venire colmate attraverso le forniture di materiali da parte americana. Fu così che gli equipaggi del Bomber Command iniziarono a operare sulla Germania dapprima con i B-26, poi successivamente con i B-17.
Il Boeing B-17 Flying Fortress (fortezza volante), bombardiere pesante quadrimotore, volò per la prima volta nel luglio del 1935 e fu il primo aereo prodotto in grandi quantitativi che si evolvette in seguito attraverso sue numerose varianti. Caratterizzato da un elevata autonomia (oltre 4.800 chilometri) e da una notevole capacità di carico (più di 1.100 chilogrammi di armamento di caduta trasportati nella sua stiva), venne impiegato dai britannici fin dal 1941 (poi a partire dal 1942 anche dall’VIII Forza aerea americana) principalmente nella campagna di bombardamento strategico sulla Germania. Le prime incursioni della RAF effettuate sulle città di Wilhelmshaven e Brest si rivelarono però un fiasco completo, in quanto mancarono i bersagli perché effettuate da quote eccessivamente elevate per ragioni di sicurezza. Inizialmente i bombardieri decollarono dalle basi inglesi, poi, con l’avanzata lungo la penisola, la XV Forza aerea statunitense fu nelle condizioni di utilizzare anche gli aeroporti italiani. Sulla Normandia trovò impiego nelle missioni di preparazione del terreno invista dell’attacco terrestre alleato. Come affermato, nel corso della sua vita operativa il B-17 venne interessato da numerosi interventi finalizzati al miglioramento delle sue prestazioni. Gli americani vi installarono il Norden, un segretissimo sistema di puntamento avanzato di tipo tachimetrico. Il Norden M7 era un apparato giro-stabilizzato sugli assi verticale e orizzontale che consentiva una relativa libertà di manovra al velivolo; i dati balistici degli ordigni di caduta, la velocità al suolo e la deriva venivano preiseriti dal puntatore del B-17, quindi elaborati e corretti fino alla determinazione del punto di sgancio delle bombe da un calcolatore che riceveva impulsi elettrici proporzionali alle variazioni angolari generate dal movimento del collimatore giroscopico; le indicazioni relative venivano trasmesse a uno strumento posto sul cruscotto dei piloti e, in seguito, sul modello successivo Norden M9, direttamente sull’autopilota, con la possibilità per il puntatore stesso di condurre il velivolo al punto di sgancio. Durante i test nei poligoni americani il Norden diede ottimi risultati anche alle alte quote, però una volta misuratane l’efficacia in un teatro operativo come quello europeo, perturbato dalle difficili condimeteo e dai caccia della Luftwaffe, la sua efficacia dovette essere in parte ridimensionata. Il 17 agosto 1942, scortati dagli Spitfire della RAF, i B-17 dell’USAAF effettuarono con successo la loro prima missione nella zona di Rouen-Sotteville contro la rete ferroviaria francese utilizzata dall’occupante tedesco. Diversamente, però, si configurava l’andamento delle missioni nello spazio aereo sopra la Germania, dove privati della scorta dei caccia i bombardieri statunitensi subirono elevate perdite per tutto il 1943, al punto che il comando dell’USAAF non ritenne più sostenibili questo genere di missioni e si vide costretto a sospenderle fino all’introduzione dei caccia P-51 Mustang e P-47 Thunderbolt. Queste ultime erano macchine dotate di serbatoi ausiliari sganciabili che ne incrementavano il raggio d’azione permettendogli di permanere aderenti alle formazioni di bombardieri per l’intera durata delle missioni a lungo raggio, fatto che portò a una sensibile riduzione delle perdite di B-17. Questo tipo di bombardiere, oltre a essere un ottimo “incassatore di colpi”, si avvalse anche delle proprie consistenti difese costituite da un buon numero di mitragliatrici Browning M2 in calibro .50 BMG (12,7 millimetri) installate a bordo, un armamento efficace anche nei confronti dei moderni e veloci Focke Wulf FW-190, che si trovarono spesso svantaggiati nel corso degli attacchi portati da tergo. Maturata questa negativa esperienza, i piloti tedeschi presero dunque ad affrontare le formazioni di B-17 frontalmente, dove erano presenti meno armi difensive, modalità che gli consentì di abbattere i pesanti bombardieri americani con meno colpi. Ma non bastarono l’esperienza e l’inventiva dei piloti della Luftwaffe per misurarsi efficacemente con i B-17, infatti, per rendere idonei gli FW-190 a questo tipo di azioni i tecnici tedeschi dovettero apportarvi alcune sensibili migliorie nel numero e nel calibro dei cannoni. Solo cinque gruppi di B-17 operarono sul fronte del Pacifico, il resto venne impiegato tutto in Europa. Alcuni di questi velivoli, catturati dai tedeschi, vennero successivamente utilizzati dalla Luftwaffe con la denominazione di copertura di Dornier Do-200 in missioni di aviolancio di agenti segreti dietro le linee nemiche.
Il B-26 Marauder, bimotore prodotto dalla Glenn L. Martin Company, fu il primo bombardiere medio impiegato dagli Stati Uniti nella guerra del Pacifico agli inizi del 1942, ma operò anche sul Mediterraneo e sul fronte dell’Europa occidentale. Con un’autonomia di circa 1.750 chilometri e una capacità in termini di armamento di caduta di 1.360 chilogrammi (successivamente incrementati a 1.800), si caratterizzò nelle sue prime versioni per l’elevato numero di incidenti occorsigli all’atto dei decolli e degli atterraggi. Per questa ragione subì una serie di modifiche nei settori dell’aerodinamica (incremento della superficie alare e dell’angolo di incidenza dell’ala, oltre all’ampliamento delle superfici di coda) e della propulsione (adozione di nuovi motori Pratt & Whitney), migliorie che alla fine della Seconda guerra mondiale lo portarono a essere il bombardiere americano per il quale si era registrata la minore percentuale di perdite. A partire dal 1941 diversi esemplari di questa macchina vennero consegnati alla RAF, che affiancò alla denominazione originaria del velivolo anche il codice alfanumerico standard britannico.
Il B-24 Liberator, bombardiere pesante quadrimotore prodotto dalla Consolidated Aircraft Corporation fu il velivolo da guerra costruito dagli Stati Uniti nel maggior numero di esemplari nel corso del Secondo conflitto mondiale. Pesante da manovrare e difficile da mantenere nel volo in formazione serrata, il Liberator era una macchina meno robusta del B-17 e la sua fusoliera tendeva a spezzarsi durante gli atterraggi di fortuna e negli ammaraggi a accusa del notevole peso delle ali strette e allungate. Il primo ingaggio di questo mastodontico bombardiere da parte della caccia tedesca avvenne nel 1943, i Messerschmidt Bf-109 incontrarono comunque delle difficoltà nell’abbatterlo e, in ogni caso, nelle statistiche elaborate dopo la fine della guerra risultò che, in proporzione alle missioni effettuate, andavano registrate un numero maggiore di perdite fra gli equipaggi dei B-17 rispetto a quelli dei B-24. Insieme alle Fortezze volanti, i Liberator costituirono la punta di lancia della linea bombardieri statunitense. Il B-24 operava a quote più basse del B-17, quindi risapetto a questi era maggiormente esposto al fuoco della contraerea tedesca. Concepito e sviluppato al fine di ottenere ua macchina avente prestazioni più brillanti del B-17, si rivelò sicuramente eccellente, versatile e robusto, ma strutturalmente debole.
Il North American P-51 Mustang in Europa venne impiegato prevalentemente nelle missioni di scorta dei bombardieri pesanti B-17 sulla Germania. Prodotto in oltre 15.000 esemplari, venne ceduto nella versione “D” (quella maggiormente diffusa) anche alla RAF, divenendo a quei tempi il più moderno velivolo in linea con la forza aerea britannica, in grado di raggiungere dall’Inghilterra la zona di Berlino. I caccia tedeschi meno veloci non erano in grado di competergli, seppure il P-51 D non fosse poi invulnerabile agli attacchi dei Messerschmidt Bf-109 e dei Focke Wulf Fw-190, ovviamente, però, non ci fu partita quando incontrò gli avveniristici caccia a reazione tedeschi Messerschmidt 262. Il P-51 operò solo nella seconda metà del conflitto, ma il suo apporto si rivelò comunque importante, al punto che viene considerato fra i migliori velivoli da caccia della Seconda guerra mondiale.
Le armi della fanteria
Nell’estate del 1944 in Francia l’arma di fanteria fu quella che si fece carico del maggior contributo di perdite, con elevate percentuali registrate nel campo alleato, uno schieramento nel quale, paradossalmente, alcune unità statunitensi inviate in teatro di operazioni a causa delle dinamiche belliche non vennero neppure impiegate in combattimento. Furono infatti numerose le divisioni dell’US Army che attesero in Inghilterra di raggiungere la linea del fronte, questo a differenza delle unità britanniche, ormai messe a dura prova dai precedenti quattro anni di guerra e da quelle cruente prime settimane in Normandia. Alla metà del mese di luglio Londra aveva perduto in combattimento circa 40.000 uomini, in buona parte appartenenti alla fanteria, una situazione al limite del collasso che presentava seri problemi di rimpiazzo dei caduti attraverso i rincalzi nel suo collaudato sistema reggimentale. In Normandia le principali armi impiegate dalle fanterie di entrambi gli schieramenti furono i fucili (sia semiautomatici che automatici), armi in possesso di portate e cadenze di tiro superiori a quelle realmente necessarie ai fucilieri in quel teatro operativo, infatti, raramente gli scontri a fuoco si svolsero a distanze superiori ai 3-400 metri. Una situazione, questa, che in realtà si era ampiamente manifestata già durante la Prima guerra mondiale, che aveva indotto alla sperimentazione e alla produzione di sistemi d’arma idonei all’impiego a distanze ravvicinate, come nel corso degli assalti alle trincee. Nel Secondo conflitto mondiale i soldati della fanteria, seppure in un contesto dottrinale e operativo completamente diverso dal precedente, si trovarono comunque a impiegare gli eredi perfezionati di quegli stessi fucili impiegati nel 1914-18.
Gli americani, per esempio, nel 1941 entrarono in guerra con il Garand, che altro non era che un fucile semiautomatico al passo con i tempi, ma per comprendere meglio la transizione da questo tipo di arma verso quella più moderna rappresentata dal fucile automatico d’assalto è possibile fare riferimento al paradigma rappresentato dall’evoluzione dei fucili tedeschi. Nella Prima guerra mondiale i militari del Kaiser vennero dotati del Gewehr 98, un fucile criticato a causa della sua difficile maneggevolezza in ambienti angusti come le trincee, al contrario, la cavalleria tedesca ricevette un arma che meglio rispose alle specifiche necessità che aveva manifestato, arma però più costosa in ragione della sua maggiore elaborazione. Gli inconvenienti registrati durante l’impiego bellico, negli anni Venti condussero la Mauser Werke Oberdorf a studiare un fucile avente una canna di dimensioni più contenute che potesse venire utilmente impiegato dai soldati di fanteria. Il risultato fu la realizzazione dell’Original Mauser Standard Gewehr Karabine 98 Kurz (noto anche come K98k), un’arma in calibro 7,92 millimetri alimentata da un caricatore di cinque colpi che entrò in produzione nel 1934 e che venne ufficialmente adottato dall’esercito tedesco come arma standard per tutte le armi (fanteria, cavalleria e artiglieria) nel gennaio dell’anno seguente. Quella a cavallo degli anni Trenta fu una fase di grandi innovazioni in campo militare, in particolare nelle armi individuali lunghe, infatti, in parallelo alle indefettibili migliorie che dovettero essere apportate ai fucili direttamente derivati da quelli della Prima guerra mondiale (come gli incrementi delle potenze delle cartucce da camerare e le variazioni nei sistemi di mira), si registrò la tendenza degli eserciti più moderni all’abbandono della tradizionale arma lunga da fanteria in favore dell’adozione di un sistema d’arma di concezione (relativamente) rivoluzionaria che incorporasse le caratteristiche di un vero e prorpio fucile d’assalto camerato per una cartuccia adeguata. Una tendenza, questa, che avrebbe conosciuto la sua accentuazione a guerra ormai inoltrata, nel 1943. Si assistette quindi a un graduale passaggio dal vecchio fucile semiautomatico a riarmo manuale a qualcosa che si avvicinava ai moderni fucili d’assalto per la fanteria. Armi come lo statunitense M-14 (al quale, comunque, nel corso della sua vita operativa vennero apportate delle sostanziali modifiche) consentivano infatti lo sparo mentre il soldato si trovava in movimento, senza che questi dovesse provvedere manualmente all’operazione di riarmo agendo sull’otturatore girevole/scorrevole tipico dei fucili bolt-action, perdendo così l’allineamento col bersaglio. Inoltre, l’incrementata autonomia di tiro garantita dai caricatori maggiormente capienti, permise una copertura di fuoco più estesa durante l’azione. A differenza delle pistole mitragliatrici , in uso presso tutti gli eserciti allora impegnati nel conflitto, il cui sviluppo era stato basato su calibri disponibili e collaudati, il nuovo fucile d’assalto per la fanteria si evolvette in simbiosi con la munizione che avrebbe dovuto camerare.
Alla fine degli anni Trenta il concetto prevalente nella maggior parte degli eserciti (a eccezione di quelli giapponese e italiano) era quello di dotare la forza combattente di armi camerate per due diversi calibri, uno da pistola che fosse adatto anche alle pistole mitragliatrici, l’altro da fucile che fosse comune anche alle mitragliatrici. Però, col mutare delle dottrine militari di impiego della fanteria, che esaltavano la guerra di movimento discostandosi, così, sensibilmente da quelle applicate in precedenza durante la Prima guerra mondiale, si impose l’adozione di sistemi d’arma specificamente destinati a scenari nei quali la maggior parte dei combattimenti avrebbe avuto luogo a distanze di ingaggio assai ravvicinate, di rado oltre i 400 metri. Dunque, adesso c’era bisogno di un tipo di arma automatica leggera che sparasse anche a raffica e che possedesse una elevata autonomia di fuoco e di gittata, adeguata a quel nuovo modo di combattere e alle distanze tipiche di ingaggio che esso avrebbe imposto. Per ottenere questo risultato si fece ricorso a munizioni meno potenti di quelle utilizzate fino a quel momento dai vecchi fucili da fanteria e dai loro derivati, cioè di una munizione cosiddetta intermedia. I tedeschi ci arrivarono con la cartuccia in calibro 7,92X33 prodotta dalla Polte, che nel 1943 venne classificata come Infanterie Kurz Patrone 43 e in seguito camerata nel nuovo MP43/44, o Sturmgewehr 44 (StG-44), considerato il primo fucile automatico d’assalto per la fanteria di concezione moderna. Nel dopoguerra lo Sturmgewehr 44 sarebbe stato il capostipite di intere famiglie di armi automatiche d’assalto, parecchie delle quali in uso ancora oggi dopo tanti anni, fra le quali spiccano per fama e diffusione quelle che vennero progettate in Unione Sovietica da Mikhail Timofejevich Kalashnikov. Pesante oltre cinque chilogrammi, il sistema d’arma Sturmgewehr 44/Infanterie Kurz patrone 43 offriva al tiratore una gittata utile di oltre 300 metri, un ottimo potere di arresto sul bersaglio e una discreta controllabilità all’atto del fuoco a raffica. A un moderno fucile d’assalto veniva richiesta la rispondenza a tutta una serie di parametri quali la leggerezza, un sufficiente livello di precisione, semplicità sia nella costruzione che nell’addestramento del personale destinato al suo utilizzo, l’amovibilità di un capiente caricatore e la possibilità di effettuare un tiro selettivo. Il munizionamento di tipo intermedio soddisfece in buona parte questi requisiti, dato che il munizionamento da pistola risultava scarsamente potente e con una gittata ridotta, mentre al contrario, quello da fucile forniva prestazioni balistiche eccessive con l’effetto di rendere difficilmente controllabile l’arma durante il tiro a raffica. Dunque, i moschetti automatici e le pistole mitragliatrici, dati i loro elevati volumi di fuoco erogabile e la loro facilità nel maneggio, continuarono a dimostrarsi armi ideali nei combattimenti in spazi ristretti come, ad esempio, le aree urbanizzate, mentre armi come la carabina statunitense M1, date le sue caratteristiche, si collocò invece in una posizione intermedia tra il mitra il calibro .45 ACP e il fucile da fanteria Garand, infatti, la sua cartuccia era balisticamente simile a quella della pistola, quindi avente delle caratteristiche diverse da quelle dei fucili d’assalto. In ogni caso, al pari del MAB italiano e del PPSh-41 sovietico, fu un’arma polivalente che trovò comunque largo impiego durante il Secondo conflitto mondiale. La filosofia del munizionamento intermedio rinveniva le sue basi nell’assunto che difficilmente un combattimento comportava scambi di fuoco tra fucilieri a distanze eccedenti i 400 metri e che, di risulta, sarebbe stato parimenti difficile che un normale soldato di fanteria (che non era la stessa cosa di un tiratore scelto) potesse impegnare con speranze di successo bersagli puntiformi situati a distanze superiori; ergo, risultava sufficiente una munizione avente una gittata inferiore a quelle normalmente usate, una cartuccia più piccola e leggera che il fante avrebbe potuto così reacare al seguito in maggiori quantità a parità di peso. Una soluzione che, contestualmente, permetteva un incremento del volume di fuoco del singolo combattente e una diminuzione sia dei costi complessivi della singola cartuccia, sia del gravame sul treno logistico; infine, per la sua fabbricazione una siffatta cartuccia necessitava di minori quantità di materiali pregiati. I medesimi concetti della semplicità e della rapidità nella produzione in serie e dell’immediatezza dell’apprendimento dell’utilizzatore durante la fase di addestramento erano concetti risieduti anche alla base dello sviluppo di armi automatiche leggere come la Sten britannica e alla M3 e M3 A1 statunitensi. Nel caso della prima, oltre a equipaggiare le forze di Churchill, un diffuso ed efficace impiego ne venne fatto anche dalla resistenza francese nell’imminenza dello sbarco alleato in Normandia, nel quadro di una campagna su larga scala di sabotaggi e imboscate mirante all’interruzione delle vie di comunicazione della Wehrmacht con le zone costiere della Francia settentrionale. I nuclei partigiani erano spesso armati di Sten, arma facile da occultare anche sotto abiti borghesi che venne utilizzata per la difesa personale e negli attacchi contro il nemico. Da Londra il SOE, Special Operations Executive, ne fece aviolanciare o sbarcare in gran numero in territorio francese durante gli anni dell’occupazione tedesca. Anche il moschetto automatico Thompson trovò estesa diffusione con l’inizio della Seconda guerra mondiale, nel momento in cui numerosi eserciti europei, trovatisi di fronte all’impiego da parte tedesca di efficaci armi automatiche individuali, si rivolsero agli americani per l’acquisto di armi simili, dato che allora, nella sua versione originaria, il Thompson era l’unica disponibile sul mercato.
Con ogni probabilità, il binomio potenza di fuoco alle brevi distanze e mobilità, durante la Seconda guerra mondiale venne incarnato nelle due “icone” della jeep e del bazooka. Le armi controcarro portatili, usate da entrambi i belligeranti anche durante la battaglia di Normandia, rappresentarono senza dubbio un altro aspetto innovativo che caratterizzò l’azione della fanteria. Esse furono realizzate grazie ai progressi della tecnologia nel settore delle cariche cave, che permettendo la riduzione del volume delle testate esplosive resero queste ultime applicabili anche a razzi e proietti di calibro minore come quelli del Bazooka e del Panzerfaust. Infatti, i due principali tipi di munizionamento controcarri erano (e sono tuttora) il penetratore a energia cinetica e, appunto, la carica cava. Nel primo caso, un proiettile inerte viene sparato ad elevatissima velocità iniziale mediante un cannone che sviluppa al suo interno alte pressioni e il suo potere perforante dipende unicamente dall’energia cinetica che lo anima; nel secondo caso, una carica esplosiva viene disposta attorno a una cavità di rame a forma di cono (il rivestimento di tale cavità può essere ottenuto anche attraverso l’utilizzo di altri metalli parimenti idonei allo scopo). Al momento dell’impatto con il bersaglio la carica esplosiva detona e il fronte d’onda della detonazione trasforma il cono di metallo in una sorta di lungo “jet” che avanza a velocità estremamente elevate, nell’ordine degli 8.000 metri al secondo. A questo punto, il contatto tra il jet e la corazza del bersaglio genera pressioni di grandezza superiore a quella della resistenza intrinseca del metallo della corazza, di risulta, il modello di penetrazione corrisponde in pratica a un flusso idrodinamico che agisce sulla corazza facendo fluire via il metallo che la compone, come farebbe un violento getto d’acqua erogato da un idrante con un muro di terra o di fango secco. I numerosi vantaggi derivanti dall’impiego della carica cava in combattimento vennero immediatamente colti dagli scienziati che vi si erano applicati già a partire dagli anni Trenta, tra questi quello di rendere indipendente il grado di potere perforante del proietto dalla sua velocità al momento dell’impatto sul bersaglio: le cariche cave si rivelarono quindi l’ideale munizionamento per le rivoluzionarie armi controcarro portatili da fanteria come i lanciarazzi e i cannoni senza rinculo, infatti bazooka, Piat, Panzerscherek e Panzerfaust utilizzarono tutti, in diverso modo, la carica cava.
Il bazooka, lanciarazzi portatile americano, fu particolarmente adatto ai tiri contro i carri armati, i veicoli corazzati in genere e le postazioni fortificate come i bunker. Esso era un tubo metallico aperto alle due estremità entro il quale scorreva una granata autopropulsa. Il tubo, oltre a formare la camera di lancio, forniva anche la direzione alla granata all’atto del lancio. L’accensione del razzo aveniva mediante un contatto elettrico provocato da un piccolo generatore di corrente contenuto nell’impugnatura dell’arma, che trasmetteva il suo impulso alla granata per mezzo di un cavo. Il concetto alla base di questa specie di armi non è certamente recente, dato che durante il sacco di Roma del 1527 i lanzichenecchi già disponevano di lanciarazzi trasportabili in cuoio di forma tubolare, mentre più di due secoli dopo nel Massachussets strumenti del genere (arpioni-razzo fatti scorrere all’interno di tubi) venivano utilizzati in mare per la caccia alle balene. Nel 1918,lo scienziato americano Robert Goddard, noto per le sue realizzazioni nel campo dei razzi a propellenti lliquidi, progettò un lanciarazzi portatile per la fanteria, nel frattempo, però, la guerra in Europa era cessata e il suo progetto rimase quindi nel cassetto. Ma venne ripreso in seguito da uno dei suoi collaboratori, tale Hickman, un ingegnere della Bell Telephone Laboratories che con lui aveva lavorato allo sviluppo dell’arma. Il progetto venne sottoposto alla National Defense Research Committee (organismo istituito per volere del presidente americano Roosevelt allo scopo di mobilitare i migliori cervelli del paese in previsione di un possibile futuro conflitto), che lo approvò avviandone lo sviluppo. Il primo modello di bazooka, che aveva un diametro di 60 millimetri, venne impiegato dalle truppe statunitensi nelle operazioni in Tunisia e durante la campagna di Sicilia, però non soddisfece le aspettative dei suoi utilizzatori in quanto risultato insufficiente alla messa fuori uso dei pesanti e ben protetti carri nemici. Accadde che, nel frattempo, i tedeschi, rifacendosi ai modelli di bazooka catturati agli avversari durante i combattimenti, realizzarono un primo modello di arma simile, chiamata ufficiosamente “Ofenrohr” (tubo di stufa), che rappresentò il primo esemplare di lanciarazzi anticarro impiegato dalle forze di Berlino nel Secondo conflitto mondiale. Gli americani ne vennero in possesso di alcuni esemplari durante la campagna d’Italia e, a loro volta, constatata la maggiore efficacia dell’arma in ragione del suo calibro più elevato, apportarono immediatamente alcune migliorie al bazooka, che a questo punto registrò un successo al di sopra di ogni aspettativa, divenendo l’armamento fondamentale della fanteria nella lotta controcarro.
Sempre dal bazooka, attraverso le prime versioni sperimentali del citato Ofenrohr, incrementate nel calibro a 88 millimetri, derivo il Panzerscherek (letteralmente: terrore dei Panzer o paura per i Panzer), arma impiegata nel corso della campagna d’Italia e nella battaglia di Normandia. Nella nomenclatura ufficiale tedesca il nuovo lanciarazzi portatile venne denominato Raketenpanzerbüchse 43 (fucilone a razzo controcarro 43, con il numerico finale con ogni probabilità a indicare l’anno di avvio della produzione in serie). Dall’evoluzione del modello originario videro poi la luce delle versioni più perfezionate , la 54 e la 54/1, aventi una gittata incrementata a 200 metri. Allo scopo di riparare il tiratore dalla vampata generata dello sparo del razzo e proiettata al di fuori della bocca posteriore dell’arma, il lanciarazzi venne fornito di un piccolo scudo protettivo dotato di finestrino in mica. Il modello 54/1 venne anche installato nel numero di quattro unità di lancio su dei minuscoli veicoli corazzati “suicidi”, veicoli cingolati telecomandati a distanza derivati da quelli normalmente impiegati nella demolizione delle opere difensive. Infine, un lanciarazzi da 88 millimetri dalla gittata di sei metri e mezzo, installato su uno scafo ruotato e dotato di scudo di protezione e retrocarica, venne prodotto nelle ultime fasi del conflitto in pochi esemplari.
La Wehrmacht distribuì diffusamente alle unità di fanteria (e in seguito anche ai paramilitari della Volksturm) anche un’altra specie di arma controcarri spalleggiabile, il lanciagranate Faustpatrone (cartuccia di pugno), denominazione mutata però ben presto in Panzerfaust (pugno corazzato), quella attraverso la quale il lanciagranate è poi stato universalmente conosciuto. I lanciagranate erano armi relativamente moderne utilizzate come alternativa semplificata del mortaio leggero, che subirono un’evoluzione accelerata a causa dell’intervenuta esigenza di una fornitura alla fanteria di armi controcarro individuali. La differenza fondamentale tra un lanciagranate e un lanciarazzi è quella che il proietto del primo non è autopropulso e per recapitarlo sul bersaglio è quindi necessaria una carica di lancio. Tra i vari tipi di lanciagranate utilizzati nel corso della Seconda guerra mondiale il più semplice fu quello consistente in un fucile dotato di tromboncino alla volata al quale veniva innestata la granata, tirata successivamente per mezzo dello sfruttamento dei gas generati della deflagrazione prodotta dallo sparo di un’apposita cartuccia da innesco (priva quindi di ogiva metallica). Nel caso specifico del Faustpatrone/Panzerfaust, il lanciarazzi era invece un tubo nel quale si trovava già inserita una granata avente una voluminosa testata a carica cava. Un rudimentale congegno di mira consentiva un tiro sufficientemente preciso contro bersagli posti a distanze ravvicinate (non più di 30 metri). Le versioni successive di quest’arma, Panzerfaust 60 e Panzerfaust 100, furono in grado di raggiungere gittate maggiori. Il Panzerfaust era un’arma a colpo singolo, quindi una volta fatto fuoco il tubo veniva gettato via. Di impiego estremamente semplice, pesava circa cinque chilogrammi e la sua granata lasciava il tubo a una velocità iniziale di 45 metri al secondo. A un angolo di inclinazione di 30°, la testata a carica cava del Panzerfaust era in grado di penetrare dai 14 ai 20 centimetri di corazza.
Il PIAT (Projector, Infantry, Anti-Tank), successore del fucilone controcarro Boys, fu il lanciagranate controcarro per la fanteria utilizzato dalle truppe britanniche durante la Seconda guerra mondiale, arma in grado di tirare una granata a carica cava a una distanza massima di circa cento metri. Era afflitta però da due gravi difetti: il primo era quello del peso eccessivo, oltre quattordici chili, l’altro quello della complessità di azione sul meccanismo di sparo, che veniva provocato da un durissimo mollone che risultava comprimibile per il caricamento soltanto mediante l’azione di due uomini. Il ricaricamento avveniva grazie all’azione di rinculo dopo lo sparo, tuttavia le non indifferenti difficoltà non permisero un impiego di quest’arma con la prontezza richiesta in combattimento.
Durante la Seconda guerra mondiale si registrò un esteso incremento della mobilità degli eserciti, frutto della motorizzazione di intere unità impegnate nel conflitto, alle quali vennero assegnati in dotazione un gran numero di veicoli di specie e tipi diversi. Il fuoristrada Jeep fu presente in tutti i teatri bellici nei quali operarono le forze alleate, dove fornì delle prestazioni eccellenti. Nel corso della disastrosa ritirata di Dunquerque i britannici lasciarono sul suolo francese buona parte dei loro veicoli tattici e logistici, trovandosi quindi da quel momento in poi a dover fare affidamento quasi totale sulla produzione degli Stati Uniti, che rifornirono le forze armate di Londra di una gran quantità di materiali. Tra questi anche la Jeep, un veicolo precedentemente sviluppato dagli americani allo scopo di soddisfare le esigenze del loro strumento militare nel settore dei mezzi leggeri multiruolo e delle autovetture da ricognizione a trazione integrale. Il Truck ¼ Utility 4X4 meglio noto come Jeep (che dovette il suo nome all’acronimo “GP”, General Purpose), nel tempo non si limitò a soddisfare i requisiti specifici inizialmente richiesti all’industria civile dal committente (la ricognizione e il collegamento tattico), bensì spaziò nell’ambito di numerosi altri ruoli. Infatti venne impiegata nelle versioni ambulanza, posto osservazione, posto radio, mezzo di recupero e trasporto materiali, configurata come mezzo di ricognizione armato o destinata ai reparti commando (come quelle assegnate al Long Range Desert Group e allo Special Air Service britannici); alcuni esemplari di Jeep dotati di cabina di guida parzialmente corazzata svolsero la funzione di piattaforma mobile di lancio per le batterie a dodici tubi di lanciarazzi da 112 millimetri e per cannoni senza rinculo, numerosi altri furono trattori di artiglieria accoppiate ai cannoni leggeri controcarri (come gli M-3 da 37 millimetri), mentre in situazioni di necessità un dispositivo “a tandem” rendeva addirittura possibile l’impiego di due Jeep di un pezzo di artiglieria pesante; era comunque frequente che le unità di fanteria vi installassero a bordo mediante un affusto fissato al telaio la potente mitragliatrice Browning M2 HB da 12,7 millimetri. La Jeep era in grado di effettuare guadi della profondità massima di quasi due metri, quindi sufficienti a permettere motu proprio il compimento dell’ultimo breve tratto degli sbarchi anfibi. Per farlo si rendeva però necessaria l’installazione sul mezzo di un tubo flessibile che convogliasse aria al motore e di un prolungamento del tubo di scarico. Della Jeep ne venne realizzata anche una versione completamente anfibia, la GPA (General Purpose Amphibious), propulsa in acqua da un’elica azionata dalla trasmissione del veicolo. Dall’autotelaio Willys MA venne sviluppato il veicolo esplorante sperimentale parzialmente corazzato T25, che era protetto da una piastra corazzata sullo scomparto motore e da uno scudo corazzato che sostituiva il parabrezza, sul quale si aprivano delle feritoie per l’osservazione e degli attacchi sferici predisposti per il tiro con armi leggere dall’interno dell’abitacolo. Partendo dalla Jeep vennero infine sperimentate diverse versioni di veicoli semicingolati e cingolati. Aviotrasportabile negli alianti Horsa, fin dalle fasi preliminari allo sbarco venne ampiamente utilizzata nel corso della battaglia di Normandia.
Artiglierie
Le artiglierie vengono comunemente definite come il complesso delle armi da fuoco pesanti, distinte quindi dalle armi da fuoco leggere (individuali come le pistole e i fucili o di squadra come le mitragliatrici), che sono invece portatili. Le varie artiglierie vengono classificate in relazione alla lunghezza delle loro bocche da fuoco e dal rapporto di questa con il calibro della loro anima, inoltre, un’altra classificazione deriva loro dall’uso per il quale sono state progettate o del quale se ne fa in battaglia. Nel corso della Seconda guerra mondiale il grosso dell’artiglieria che venne impiegata fu a traino meccanico (o animale), pochi, infatti, furono i semoventi utilizzati in battaglia; quando svolse il ruolo di arma di supporto per le unità corazzate, allo scopo di ottenere il necessario grado di mobilità sul terreno, l’artiglieria fece ricorso a veicoli semicingolati che fungevano da trattori. Raramente obici e cannoni dovettero muoversi sulla linea del fronte, quindi non necessitarono di particolari protezioni, quanto a differenza della specialità controcarri, che operando a contatto col nemico dovette invece servirsi (quando possibile) di trattori corazzati. Alcuni semicingolati di artiglieria corazzati svolsero poi anche la funzione di posto di osservazione mobile avanzato per la direzione del tiro. In Normandia le linee tedesche venivano attaccate dalle truppe alleate soltanto a seguito di una prolungata azione dell’artiglieria campale e delle incursioni dei bombardieri (dell’USAAF, della RAF e della RCAF), che preparavano il terreno per le successive operazioni condotte dalle divisioni corazzate e di fanteria. Un esempio di impiego polivalente di uno stesso pezzo di artiglieria fu quello del ben noto cannone da 88 millimetri tedesco impiegato in funzione anticarro nelle versioni Pak 43 e KwK 43 (quest’ultimo installato in torretta su alcuni tipi di panzer) e in funzione sia anticarro che antiaerea, utilizzato in Normandia dai reparti della 16ª Divisione della Luftwaffe. Sempre nella Francia settentrionale, entrambi gli schieramenti impiegarono artiglierie medie e pesanti di vario tipo, in massima parte a traino meccanico, quali quelli da 25 pdr, 7,2in, 5,5in e 4,5in britannici, da 155, 105 e 75 millimetri statunitensi e da 210, 150 e 105 millimetri tedeschi. Cannoni anticarro a traino meccanico furono quelli statunitensi da 76 e da 55 millimetri (il primo installato anche sul cingolato cacciacarri M-18 Hellcat e sui modelli più avanzati del carro Sherman) e quello da 3 (installato anche sul cacciacarri M-10 Wolverine); nella stessa funzione di Tank-Destroyer i britannici utilizzarono invece i pezzi da 6 e da 17 pdr (quest’ultimo, venne installato dai tecnici britannici nella torretta del carro M4 Sherman, realizzandone così la versione Firefly); i tedeschi, ormai divenuto praticamente inefficace il vecchio cannone da 37 millimetri, impiegarono prevalentemente gli ottimi pezzi da 75 (Pak 40) e 88 millimetri (Pak 43). Durante la Seconda mondiale invalse poi l’uso di installare gli obici e i pezzi anticarro (Pak, Panzerabwehrkanone) in casematte corazzate fissate su scafi di carri da combattimento ottenendo in questo modo i cosiddetti semoventi di artiglieria. Due esempi di questa specie di mezzi corazzati, che trovarono impiego anche in Normandia, furono il cannone semovente americano da 105 millimetri e il cannone d’assalto (cacciacarri) tedesco Sturmgeschütz nelle sue varie versioni. Nell’esercito tedesco, artefice insieme all’industria di numerose valide realizzazioni di mezzi di tale specie, generalmente i semoventi “puri” venivano indicati mediante il tipo di cannone installato seguito dalla specifica dello scafo (ad esempio 37 mm Flak 43 auf Pz IV, cioè cannone contraereo da 37 millimetri su scafo del carro Panzer IV). Lo Sturmgeschütz III, cannone d’assalto, concepito inizialmente nelle forme di un veicolo corazzato armato destinato all’appoggio della fanteria, venne poi rapidamente convertito in un sistema d’arma anticarro dotato di notevole mobilità e dalla sagoma relativamente sfuggente che sul campo si rivelò nettamente superiore ai pezzi controcarro campali; il suo sviluppo e la sua pratica produzione si rese possibile al momento in cui i tedeschi avviarono la produzione del Pz.Kpfw. IV (Panzekampfwagen, carro armato) installandovi i pezzi da 75/43 e da 75/48, segnando così la fine della vita operativa del Pz.Kpfw. III come carro medio. Associando le componenti di quest’ultimo (scafo, gruppo propulsore e treno di rotolamento) a un cannone installato in casamatta (che però aveva delle capacità di brandeggio limitate) si pervenne alla realizzazione dello Sturmgeschütz, un semovente d’assalto successivamente adattato a cacciatore di carri mediante l’adozione di un pezzo controcarro da 75/46 millimetri. Lo Sturmgeschütz, prodotto dal 1942 al 1945, si rivelò particolarmente efficace nell’ingaggio dei carri medi nemici alle medie distanze e venne realizzato anche in una variante armata di obice da 105/28; sebbene concepito nel ruolo di semovente di artiglieria destinato al sostegno ravvicinato della fanteria (distruzione di capisaldi nemici, ricoveri protetti, eccetera), data la carenza di carri armati che a un certo punto del conflitto afflisse la Wehrmacht, lo Sturmgeschütz III venne sempre più frequentemente impiegato in alcune divisioni corazzate nel ruolo caccia carri o, addirittura, come sostituto degli stessi Panzer. Utilizzato nei combattimenti alle brevi distanze, per quanto micidiale risentì comunque pesantemente delle limitazioni imposte dalla sua impossibilità di brandeggio del cannone in casamatta, nonché dall’incapacità per l’equipaggio di effettuare rapidi spostamenti del puntamento da un obiettivo all’atro. A causa dell’incrementato livello di minaccia costituito dalle testate a carica cava che armavano le nuove armi controcarro portatili della fanteria, al pari dei carri armati, alle fiancate degli Sturmgeschütz, distanziate dall’opera viva del semovente, vennero applicate delle piastre di corazzatura leggera (Schürzen) che facevano detonare prematuramente le ogive nemiche andate a segno destabilizzandone il jet della carica cava con l’effetto di ridurne sensibilmente il potere perforante. Quello dello Sturmgeschütz non rappresentò l’unico esemplare della categoria, infatti, uno degli effetti riflessi dal graduale processo di meccanizzazione degli eserciti avvenuto durante la Seconda guerra mondiale fu la realizzazione di cannoni semoventi attraverso l’installazione di preesistenti (oppure anche modificati alla bisogna) pezzi di artiglieria da campagna su scafi di carri armati. Questi mezzi andarono ad affiancarsi al resto dell’artiglieria a traino meccanico e animale, più lenta e meno mobile sul campo di battaglia. I cannoni semoventi fornirono alle unità corazzate e di fanteria sia il classico supporto di fuoco indiretto, già funzione dell’artiglieria trainata, sia del fuoco diretto, erogato mediante tiri da distanza ravvicinata dal bersaglio, in quest’ultimo caso caso (come nel caso del noto Wespe tedesco da 105 millimetri), spesso nelle azioni condotte in cooperazione con gli altri mezzi corazzati. Da parte alleata, dismesso definitivamente dopo la campagna d’Italia perché ritenuto fonte di eccessivi inconvenienti il loro semovente Bishop, i britannici dovettero fare affidamento sui Sexton prodotti dall’industria canadese e sugli M7 statunitensi (sviluppati sulla base dello scafo del carro armato medio M3 e da loro denominati “Priest”); i primi erano armati con un cannone inglese da 25-pdr (libbre), i secondi con un obice da 105 millimetri. Sia gli M7 (distribuiti anche ai reparti dell’US Army) che i Priest trovarono impiego nel corso dei combattimenti in Normandia (il primo, in modo particolare, si rivelò molto affidabile su qualsiasi tipo di terreno), dove svolsero prevalentemente la funzione di semovente campale “puro”, cioè utilizzato nel tiro indiretto a lunga gittata e non nel combattimento ravvicinato o nella lotta controcarri, ragione per cui la loro protezione venne limitata a una leggera corazzatura anteriore e laterale e non venne adottata una copertura per la casamatta.
I semoventi cacciacarri (Jagdpanzer 38t, Hetzer, Jagdpanther, M18 Hellcat, eccetera) furono mezzi corazzati diversi dai semoventi di artiglieria che videro privilegiare la componente “armamento” a discapito di quelle della protezione e della mobilità. Essi, nella loro massima parte, risultarono dunque eccessivamente squilibrati nelle tre componenti fondamentali rispetto alla classica configurazione di un carro armato, fatto che ne comportò evidenti limitazioni durante l’impiego sul campo di battaglia. Ma alla base degli orientamenti verso soluzioni del genere da parte degli stati maggiori degli eserciti belligeranti e dei progettisti delle industrie risedettero ragioni diverse: infatti, per quanto concernette i tedeschi, tale indirizzo fu la conseguenza di un disagio attraversato in quella fase del conflitto sui piani militare ed economico-industriale, mentre nel caso degli americani si trattò del frutto deliberato di una dottrina elaborata a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta. In quel periodo, negli Stati Uniti il semovente di artiglieria controcarri veniva considerato come l’elemento centrale dell’azione di un’unità corazzata impegnata contro forze similari nemiche. Allo stato maggiore americano si riteneva possibile un valido contrasto delle divisioni panzer attraverso massicce formazioni di artiglieria, sia trainata che semovente, che disponessero di bocche da fuoco di calibro elevato in grado di sparare proietti ad alta velocità iniziale. Si trattò dunque di una scelta guidata da concetti operativi nuovi e non, come nel caso dei tedeschi, dettata da esigenze contingenti quali l’insufficiente ritmo di produzione dei mezzi corazzati più sofisticati, la difficoltà di approvvigionamento dei materiali necessari alla loro costruzione o ai costi troppo elevati. Al fine di ovviare alle gravi e sempre maggiori deficienze, in Germania si dovette optare per la realizzazione dei Panzerjäger, cioè di semoventi che sfruttavano la disponibilità di scafi e sistemi di sospensione in produzione di serie già da tempo e quindi anche perfettamente affidabili in quanto collaudati in combattimento. La fabbricazione di una torretta di carro armato e il suo assemblaggio con lo scafo destinato a ospitarla risultavano infatti fasi industriali molto più onerose in tutti i sensi: in termini economici, di ingegnerizzazione di sistema e di tempi di produzione sulla catena di montaggio. Di risulta, la realizzazione di semoventi caccia carri parve a tutti, oltreché pratica, estremamente vantaggiosa, anche per la ragione che tali mezzi a differenza dei carri armati (questo nei primi anni del conflitto) potevano essere dotati di armi più potenti e pesanti. I tedeschi realizzarono dunque i Jagdpanzer e i Jagdpanther derivandoli dai più moderni e potenti Tigre e Panther, armando il primo del cannone KwK 43 da 88 millimetri e il secondo del Pak 44 da 128 millimetri. Tra i due, senza dubbio il secondo si affermò per le sue brillanti prestazioni. Prodotto a partire dal febbraio del 1944, il Jagdpanther segnò il passaggio dall’era del cacciacarri realizzato sulla spinta emergenziale mediante l’adattamento e/o la trasformazione di materiali già in linea a quella dei semoventi controcarri concepiti specificamente allo scopo. Il mezzo era basato sullo scafo di uno dei migliori carri armati realizzati durante la Seconda guerra mondiale, il Panther, sul quale venne montata una sovrastruttura corazzata a pareti inclinate sulla cui parte frontale appoggiava un cannone da 88 millimetri e una mitragliatrice MG34 in calibro 7,92 millimetri per la difesa ravvicinata. Veloce e ben protetto, date le caratteristiche del suo armamento principale e del munizionamento impiegato (in grado di perforare una corazza dello spessore di 159 millimetri a distanze incluse fra i 500 e i 2.500 metri), lo Jagdpanther poteva mettere fuori combattimento qualsiasi tipo di carro avversario. In talune condizioni propizie, piccoli nuclei formati da questo semovente riuscirono ad arrestare intere colonne corazzate alleate in avanzata. A causa dei continui bombardamenti angloamericani sulla Germania, le industrie del Reich riuscirono a produrne soltanto 382 esemplari. I primi Jagdpanther consegnati alla Wehrmacht vennero immediatamente inviati nella Francia settentrionale, dove presero parte alla battaglia di Normandia fina dalle sue prime fasi. Malgrado la supremazia numerica alleata nel settore dei corazzati, questi semoventi cacciacarri conseguirono comunque notevoli successi in combattimento. Occultati nelle loro postazioni all’interno del fitto bocage, anche in cooperazione con i reparti Panzergrenadieren e con le unità carri, tesero numerose imboscate ai mezzi corazzati nemici, spesso da distanze estremamente ravvicinate. Da ultimo, alcune considerazioni vanno spese anche riguardo all’altro mezzo corazzato tedesco specificamente progettato come caccia carri, lo Jagdtiger, risultato però, a differenza dello Jagdpanther, scarsamente manovrabile. Esso, a partire dal 1943, venne derivato dal carro armato pesante Tigre II (Königstiger) e rappresentò il mezzo più pesante e potentemente armato della sua categoria, ma proprio per queste sue intrinseche caratteristiche non dette i risultati auspicati e, quindi, il suo impiego pratico venne limitato a quello di piattaforma mobile per il pezzo da 128 millimetri Pak 44. Nella spasmodica ricerca di mezzi corazzati da inviare al fronte per contrastare l’offensiva alleata in Normandia, i tedeschi fecero anche un ampio ricorso a semoventi cacciacarri ottenuti attraverso la trasformazione di materiali di preda bellica, come nel caso dell’installazione del cannone Pak 40 da 75 millimetri sullo scafo del vecchio carro armato francese Hotchkiss H39.
Analogamente a quanto fatto in Germania, ma come visto ispirati da una diversa filosofia, anche gli americani e i britannici ricavarono dei semoventi cacciacarri (Tank-Destroyers) da carri armati già in produzione, come nel caso dello statunitense M-10 Wolverine, che però ebbe il vantaggio di possedere una torretta a cielo aperto armata di cannone a elevate prestazioni, che era quindi brandeggiabile con maggiore libertà rispetto ai semoventi dotati di pezzo in casamatta. Il semovente cacciacarri M10, ricavato dallo scafo del carro armato medio M4 A2 e armato di cannone ad alta velocità in calibro 76,2 millimetri, nel corso del conflitto fu schierato sia dall’US Army che dagli altri eserciti alleati. Dato il peso ridotto, frutto dell’adozione di una protezione balistica sottile, fornì prestazioni brillanti soprattutto in velocità. L’M18 Hellcat era un semovente cacciacarri specificamente sviluppato per questo ruolo che derivava lo scafo e il sistema di sospensioni dell’M4 A2 Sherman. Costruito in oltre 2.500 nel biennio 1943-44, appariva esteriormente simile a un carro armato per via della torretta brandeggiabile su 360°, inizialmente assegnato ai battaglioni semoventi controcarri dell’US Army, si distinse per la sua notevole efficacia, dimostrata in combattimento, quando si rivelò in grado di distruggere o di mettere fuori uso tutti i panzer tedeschi eccettuati quelli maggiormente pesanti e protetti. L’Hellcat (strega) fu anche il più veloce veicolo corazzato da combattimento che operò durante la Seconda guerra mondiale. Al pari degli M10 e degli M36, con la riduzione dell’importanza attribuita ai caccia carri, anche l’M18 venne gradualmente assegnato alle divisioni corazzate col ruolo di semovente di artiglieria o di cannone d’assalto. Negli ultimi mesi del conflitto i mezzi di questa specie, sempre meno utilizzati nel ruolo di Tank-Destroyers, trovarono principale impiego come supporto alla fanteria in quelle azioni che prevedevano il trasporto all’esterno di squadre di militari appiedati, soprattutto nell’avvicinamento alle linee nemiche. Accadde che gli alti comandi presero coscienza del fatto che in combattimento l’avversario ideale di un carro armato non avrebbe potuto essere che un altro carro armato, cioè una sistema d’arma equivalente nei termini della mobilità, della protezione e della potenza di fuoco, caratteristiche che i semoventi cacciacarri non possedevano. Quando divenne possibile installare sui carri bocche da fuoco di calibro e pressioni interne più elevate l’esigenza di disporre di semoventi cacciacarri decadde e, alla fine del 1944, gli americani giunsero alla conclusione che questi mezzi dovessero venire impiegati esclusivamente come cannoni d’assalto oppure come pezzi di artiglieria destinati all’erogazione del fuoco di sostegno.
Veicoli corazzati: semicingolati e carri da combattimento
Con la graduale meccanizzazione degli eserciti un ruolo importante venne a essere svolto dai veicoli semicingolati per il combattimento, che ovviarono all’intervenuto problema del trasporto delle squadre di fanteria e delle armi di sostegno sul campo di battaglia che dovevano seguire dappresso i sempre più veloci carri armati. Nella guerra moderna che si combatté tra il 1939 e il 1945 per le forze di terra di alcuni dei maggiori paesi belligeranti questi mezzi divennero un indefettibile complemento delle unità corazzate. La Blitzkrieg tedesca rese immediatamente chiaro che in quel conflitto appena iniziato il carro armato si sarebbe prepotentemente imposto come sistema d’arma principale, ma esso per attualizzare appieno le sue potenzialità avrebbe si sarebbe dovuto “combinare” con altri strumenti in grado di accompagnarlo nel corso delle operazioni fornendogli tutti i supporti e i sostegni necessari. Fu così che negli eserciti, in varia misura e con diverse modalità, vennero introdotti i veicoli semicingolati, allo stesso tempo vettori e piattaforme per il tiro dei numerosi sistemi d’arma che furono in grado di ospitare. Infatti, i semicingolati non vennero utilizzati esclusivamente dalla fanteria come taxi da battaglia, ma anche dai reparti del genio, dell’artiglieria, delle trasmissioni e della sanità militare come ambulanze blindate, fungendo ovunque anche da posti comando per gli ufficiali che dirigevano le operazioni delle loro unità. Erano veicoli che, di solito, possedevano il medesimo grado di mobilità e di velocità dei carri armati insieme ai quali dovettero operare muovendo su terreni di vario tipo. Una mobilità neanche lontanamente immaginabile da quei soldati che, durante la Prima guerra mondiale, erano stati costretti a procedere nel fango o nella neve quasi sempre appiedati e, solamente in alcuni rari casi, a bordo di lentissimi autocarri. I semicingolati furono mezzi relativamente costosi che vennero comunque prodotti in migliaia di esemplari sia dal complesso industriale statunitense sia da quello tedesco, che ne realizzò numerose varianti che spaziavano dalla piccola motocarrozzetta SdKfz 2 Kleines Kettenrad, pesante 1.200 chilogrammi, al mastodontico trattore di artiglieria Schwerer Zugkraftwagen, pesante 18 tonnellate. Per quanto protetti, mobili e potenti, i carri armati non erano però in grado di operare da soli sul campo di battaglia, essi necessitavano della cooperazione della fanteria che, dunque li avrebbe dovuti accompagnare in ogni situazione tattica nella quale si fossero venuti a trovare, sia negli impetuosi assalti che nelle manovre difensive, soprattutto negli angusti spazi costituiti dalle aree urbanizzate, all’interno delle quali erano molto più elevate le probabilità di incappare in centri di fuoco nemico. Abbiamo visto come, grazie agli sviluppi tecnologici delle testate esplosive a carica cava, le armi controcarro portatili per la fanteria si fossero affermate come uno strumento micidiale alle brevi distanze, situazioni nelle quali i capicarro, chiusi nelle loro torrette, fossero praticamente ciechi e sordi riguardo all’esterno del mezzo. Per sopperire a questa deficienza si rese dunque la cooperazione con la fanteria meccanizzata (o molto spesso trasportata sul carro stesso al suo esterno), che svolse la funzione di “occhi” e di “orecchie” per gli equipaggi dei mezzi corazzati, aprendo direttamente il fuoco sui nuclei nemici oppure dirigendo su di essi quello dei carri che accompagnavano. Questi compiti non avrebbero potuto certamente essere svolti utilizzando dei normali autocarri, veicoli privi di protezione nei confronti del fuoco delle armi leggere del nemico e delle schegge provocate dall’esplosione delle granate, inoltre, i camion erano totalmente inadatti alla marcia su terreno vario, quindi la soluzione venne rinvenuta nel semicingolati, mezzi che divennero inoltre valide piattaforme per sistemi d’arma quali i cannoncini contraerei e gli obici di calibro minore.
Nonostante gli sforzi profusi dall’industria tedesca, nel corso del conflitto la Wehrmacht non ricevette mai quantità adeguate di semicingolati e quindi si vide costretta a distribuire questo tipo di veicolo (principalmente il Sd.Kfz. 251 nelle sue varie versioni) solo a parte delle sue unità meccanizzate assegnate alle divisioni corazzate, col risultato che, sovente, dei due battaglioni che formavano un reggimento Panzegrenadier uno soltanto risultava montato su semicingolati, mentre l’altro era semplicemente autocarrato. Nell’esercito tedesco, la disponibilità di semicingolati protetti da corazzature era funzione dello schieramento della divisione motorizzata prima dell’appiedamento degli uomini, una soluzione resa possibile dall’adattabilità dei nuovi mezzi introdotti in linea (gli SdKfz) al terreno vario e dalla messa in sicurezza della grande unità in tale fase da parte di reparti cacciatori corazzati spintisi in avanti. Fu il feldmaresciallo Guderian, da poco nominato ispettore generale delle truppe corazzate, a trasformare nel giugno del 1943 tutti i reparti di fanteria motorizzata in Panzergranadiere, articolandone le divisioni su due reggimenti di fanteria (granatieri) in vista dell’assegnazione a essi di sistemi d’arma più pesanti e mezzi da trasporto meccanizzati maggiormente idonei alle operazioni combinate con le unità carri. Ma, in ogni caso, le carenze tedesche fecero sì che fino al termine del conflitto l’autocarro rimanesse il mezzo da trasporto più utilizzato dalla fanteria. Comunque, con il mutare degli scenari bellici, non rispondendo più in aderenza ai canonici schemi di impiego in formazione previsti dalla dottrina, le unità Panzergrenadier, quelle di artiglieria e le divisioni corazzate, operarono sulla bese delle esigenze di volta in volta imposte dalla situazione contingente combinandosi in differenti tipologie di raggruppamenti tattici. Il semicingolato statunitense più diffuso durante la Seconda guerra mondiale fu l’Half Track nelle sue versioni Car M2 e Personnel Carrier M3, mezzo ottenuto attraverso l’accoppiamento dello scafo del veicolo blindato ruotato Scout Car M3 della White con il sistema di sospensioni costruito dalla francese Kégresse. Realizzato in migliaia di esemplari, oltre a quello per il trasporto della truppa, venne impiegato anche in ampio spettro di ruoli, compreso quello di piattaforma per i cannoni controcarri da 57 millimetri, per quelli campali da 75 e per gli obici da 105; nella sua tipica configurazione per la fanteria installava frontalmente, su di un supporto anulare per il brandeggio, una mitragliatrice Browning M2 HB in calibro 12,7 millimetri. Solitamente in Normandia, nel corso delle azioni di perlustrazione delle direttrici di avanzata, questi mezzi seguivano le squadre esploranti a bordo delle jeep precedendo i carri armati e il resto della colonna. Prodotto in oltre 40.000 esemplari, l’Half Track venne fornito anche agli eserciti dei paesi alleati degli Stati Uniti nella guerra contro la Germania e il Giappone.
Durante la Seconda guerra mondiale le proporzioni intercorrenti tra le unità corazzate e quelle della fanteria meccanizzata variarono a seconda degli eserciti e della conformazione dei teatri operativi nei quali questi vennero impiegati (aperto, boscoso, urbanizzato, eccetera). In Normandia l’esercito britannico schierò i suoi battaglioni carri indipendenti all’interno di divisioni dove però, a volte, si verificarono problemi derivanti dallo scarso livello di collaborazione tra carristi e fanteria. Anche le forze canadesi e la I Divisione corazzata polacca vennero strutturate sul modello britannico. Una divisione corazzata del Royal Army si articolava due brigate, una corazzata e una di fanteria; la prima, su tre battaglioni carri e un battaglione di fanteria montato su veicoli semicingolati o cingolette, la seconda su tre battaglioni di fanteria oltre ovviamente ai supporti tattici; generalmente, un’unità del genere schierava all’incirca 15.000 uomini e oltre 280 carri armati tra Cromwell e Sherman. Il Cromwell apparteneva alla categoria dei carri cruiser, o carri incrociatori, mezzi concepiti per l’esplorazione e l’inseguimento, quindi per compiti propri della cavalleria. I cruiser possedevano un armamento principale troppo debole e la corazzatura insufficiente a fornire la protezione necessaria nei confronti dei panzer tedeschi. Durante la rotta di Dunquerque i britannici furono costretti ad abbandonarne numerosi esemplari sul suolo francese, mentre altri vennero in seguito impiegati (fino al 1941) in Africa settentrionale. La filosofia alla base dello sviluppo e della produzione di mezzi corazzati che si era affermata in Gran Bretagna prima della guerra, prevedeva l’impiego di due tipi di carro armato, uno lento e ben corazzato destinato a fornire un sostegno diretto alla fanteria, l’altro molto più veloce ma meno protetto, destinato invece al tempestivo sfruttamento dei varchi creati dalla fanteria nello schieramento avversario e la successiva azione in profondità dietro le linee nemiche. A differenza dei primi deficitari cruiser britannici, i Cromwell erano invece protetti da corazze di spessore maggiore e meglio armati dei loro predecessori (inizialmente con un cannone da 57 millimetri, poi, prima dello sbarco anfibio in Normandia, dotati di un pezzo da 75), inoltre sfruttarono pienamente i loro sistemi di sospensione a barre di torsione (del tipo ideato dallo statunitense J. Walter Christie) associate a un treno di rotolamento a grandi ruote portanti, che gli consentirono di raggiungere superiori velocità e migliori prestazioni su terreno vario. I primi carri Cromwell armati col pezzo da 75 millimetri (versione Mk IV) vennero distribuiti alle unità a partire dall’ottobre 1943, ma al momento del loro concreto impiego operativo si trovarono ormai in procinto di venire sostituiti dagli Sherman americani. In massima parte nelle fila della 7ª Divisione corazzata (i famosi Desert Rats o “topi del deserto”), combatterono comunque in Francia dallo sbarco in Normandia in poi, pagando però, malgrado la loro corazzatura incrementata, costi elevati in termini di perdite nelle azioni di attacco alle posizioni tedesche meglio organizzate.
Una divisione di fanteria del Royal Army si articolava invece su tre brigate di fanteria (a loro volta su tre battaglioni di arma base) e una brigata di artiglieria, per un totale di 18.500 uomini. Nelle brigate di artiglieria i comandanti dimostrarono la loro proverbiale efficienza fino ai livelli minori, dove gli ufficiali di casato inferiore furono in grado di dirigere il fuoco di tutti i pezzi, di vario tipo e calibro, sugli obiettivi assegnati. In teatro di operazioni il supporto avanzato ai fanti veniva invece fornito dai carri pesanti Churchill e da altri speciali mezzi corazzati raggruppati nella 79ª Divisione corazzata e da essa distribuiti all’intera II Armata del generale Dempsey. Il Churchill era un carro armato lento e pesantemente corazzato progettato in previsione di un ritorno alla guerra di trincea sotto i devastanti interventi dell’artiglieria nemica, quindi un mezzo capace di operare sotto un fuoco intenso e di superare fossati a modeste velocità assicurando il necessario appoggio alla fanteria col suo cannone che sparava proietti ad alto esplosivo. Ma nel tempo il suo armamento variò in senso incrementale: infatti dapprima installò un cannone da 40 millimetri, poi uno da 57 e, infine, uno da 75, ma anche obici da 76,2 e da 95 millimetri. Pur non entusiasmante dal lato delle prestazioni, nella battaglia di Normandia le sue varianti specializzate risultarono spesso indispensabili; dal modello base vennero realizzate versioni per l’arma del genio (AVRE, dotato di gru e verricello), recupero (ARV, Armoured Recovery Vehicle), dotato di mortaio Petard e di dispositivo per la posa di fascine per il superamento di terreni paludosi (Carpet-layer), lanciafiamme (Crocodile), gittaponte (Bridgelayer), per il superamento di fossati e trincee (ARC, Armoured Ramp Carrier), sminatore a flagelli (AVRE/CIRD) o a tubi esplosivi (Snake). L’introduzione del proietto tipo APDS (Armour Piercing Discarding Sabot) sparato dal cannone da 76,2 millimetri (17-pdr), che aveva dimostrato notevoli capacità perforanti nei confronti delle corazze dei veicoli nemici alle distanze medie di ingaggio (intorno ai 1.000 metri), avviò in Gran Bretagna, anche in previsione dello sbarco in Normandia, un processo di sostituzione dell’armamento principale su numerosi carri da battaglia del Royal Army. In quell’occasione gli organi tecnico-militari di Londra ritennero però opportuno mantenere sulle ultime versioni dei carri Cromwell il loro pezzo da 57 millimetri, armamento che, seppure appartenente a un mezzo ormai superato, si era comunque dimostrato migliore del 76,2 sviluppato dagli americani per l’ultima versione dello Sherman fornita ai britannici, il Firefly, versione dell’M4 appositamente modificata a questo scopo che venne proficuamente impiegata nella Francia settentrionale contro panzer e cacciacarri tedeschi. Gli americani, invece, continuarono a produrre lo Sherman, al quale apportarono nel tempo varie migliorie, immettendolo in linea con l’US Army in una gran quantità di esemplari. Infatti, nel confronto con i Tigre, i Panther e i Jagdpanther, Washington decise di puntare sul fattore “quantità” a discapito di quello della “qualità”, che invece caratterizzava i mezzi corazzati del nemico.
A questo punto è utile approfondire brevemente gli aspetti relativi al modello di sviluppo e della produzione dei carri armati che venne seguito negli Stati Uniti, la maggiore potenza industriale dell’epoca. Al riguardo, uno studioso della materia, James A. Blackwell, ha affermato che ogni generazione di carri americani ha conosciuto quattro fasi. Nella prima, quella dell’elaborazione del progetto, sono stati applicati i concetti tecnologici e dottrinari via via emersi allo scopo di moltiplicare l’efficacia del mezzo stesso in combattimento. Tali progetti, però, raramente riuscirono a catturare le attenzioni dei massimi dirigenti politici e militari del Paese fino a quando non si venne a creare una situazione di reale possibilità di conflitto nella quale gli Stati Uniti avrebbero potuto trovarsi coinvolti. Questo stimolo fece quindi scattare la seconda fase, consistente nella decisione di dare avvio allo sviluppo di alcuni prototipi per poi giungere alle importanti decisioni riguardo alla produzione in massa. La terza fase iniziò a seguito dell’esplosione del conflitto mondiale e sfociò nella produzione a pieno ritmo di carri armati, successivamente distribuiti in gran numero alle divisioni dell’US Army schierate sui vari fronti di guerra. Questi mezzi corazzati non furono né il risultato dello sfruttamento delle migliori tecnologie al momento disponibili in America e neppure il modello di tank ideale del quale necessitavano i reparti impegnati in combattimento sui vari fronti, Francia settentrionale inclusa, però offrirono il grande vantaggio di poter venire prodotti in massa presentando al contempo spiccate caratteristiche di adattabilità alle mutevoli condizioni dei diversi teatri operativi. Infine, la quarta fase fu quella sperimentale post-bellica effettuata sul modello migliore realizzato durante il conflitto precedente. Blackwell conclude criticamente la sua analisi affermando che Washington non scelse mai in maniera deliberata di produrre in massa un carro armato a meno che non fosse imminente un conflitto, con la conseguenza che la produzione in grande serie dei carri maggiormente utilizzati dall’US Army nel corso della seconda guerra mondiale non ebbe inizio se non prima del 1942, ossia tre anni dopo la blitz-krieg di Hitler in Polonia. Il risultato pratico fu che i militari delle divisioni corazzate americane che combatterono in Europa, invece di disporre del carro di cui avrebbero avuto bisogno (l’M-26 Pershing, del quale nella primavera del 1945 risultarono presenti sul suolo europeo solo 326 esemplari e che trovò un concreto impiego soltanto cinque anni dopo, nella successiva Guerra di Corea) continuarono fino alla fine della guerra ad affrontare i Tigre e i Panther con i loro M3 Stuart ed M4 Sherman. Tornando al D-Day, sta di fatto che gli Alleati, in diversa misura tra loro, sbarcarono per prima la loro componente corazzata, cogliendo così ancor più di sorpresa i tedeschi. I primi a immergersi nelle acque degli ultimi metri di quell’ultimo tratto del canale della Manica che li separava dalla costa francese furono i carri anfibi, o meglio: adattati per esprimere le sufficienti capacità anfibie che gli avrebbero consentito di prendere terra, aprendo così la strada alla fanteria sul bagnasciuga. Furono soprattutto i britannici ad adattare molti dei loro carri da combattimento alle peculiari necessità poste da un’operazione come quella, ottenendo in questo campo risultati di gran lunga migliori di quelli degli americani. Del poliedrico, ancorché concettualmente superato, carro per la fanteria Churchill si è già trattato, in questa sede basterà ricordare che l’impiego su larga scala di tali mezzi consentì alle truppe di Montgomery migliori capacità nel superamento o nell’eliminazione degli ostacoli e delle mine disseminate dai tedeschi lungo quel segmento normanno del Vallo Atlantico. Forti anche dei vantaggi offerti dalle spiagge sabbiose, britannici e canadesi riuscirono a penetrare relativamente in profondità nell’entroterra continentale prima del crepuscolo di quella prima giornata di attacco. Al contrario, le truppe statunitensi si trovarono a dover affrontare grossi problemi nei settori di sbarco loro assegnati che, invece, si caratterizzavano per il profilo costiero scoglioso, dove sostanzialmente priva del supporto di fuoco dei carri, la fanteria si trovò esposta alla quasi sempre determinata reazione tedesca riportando gravi perdite. In vista del D-Day erano state sperimentate diverse soluzioni adatte a rendere anfibio un carro armato, il più semplice dei quali era stato quello di sigillare la totalità delle aperture presenti nello scafo corazzato del mezzo in guisa da permettergli di guadare dei corsi d’acqua. Un’altra soluzione a cui pervennero i tecnici alleati fu quella di far muovere il carro armato completamente immerso sul fondale del basso litorale marino per mezzo di snorkel simili a quelli utilizzati nei sottomarini. Gli snorkel consistevano in due tubi uno che alimentava di aria il vano equipaggio e quello motore, l’altro che espelleva l’aria viziata e i prodotti della combustione generati dal propulsore del mezzo. In precedenza, nel 1940, erano stati i tedeschi a ricorrere per primi a tale sistema nel corso dei preparativi dell’operazione Leone Marino, l’invasione delle isole britanniche che poi non ebbe seguito, attrezzando però in seguito i loro panzer con questi dispositivi allo scopo di velocizzare gli attraversamenti dei corsi d’acqua durante i combattimenti contro l’Armata rossa sul fronte orientale. Anche gli americani realizzarono dei “kit” anfibi da applicare ai loro carri armati, principalmente agli Sherman. Il sistema Deep Wading, una volta applicato consentiva al carro di muovere in acque profonde fino a 1,80 metri (si trattava quindi sostanzialmente di un guado e non di un galleggiamento); per ottenere questo risultato l’equipaggio doveva sigillare preventivamente tutte le prese d’aria e le feritoie delle mitragliatrici poste al di sotto di quest’altezza, mentre le prese d’aria e lo scarico del motore venivano convogliate in due condotte (dette “comignoli”) posti sul retro dello scafo al di sopra del gruppo propulsore. Una terza soluzione adottata che trovò largo impiego in Normandia fu quella di dotare i carri di dispositivi per il vero e proprio galleggiamento, come quello consistente in cassoni metallici a tenuta stagna che venivano asportati al momento in cui il mezzo prendeva terra. Ma la soluzione che si dimostrò più efficace e pratica fu l’installazione di scafi di tela al carro. Sperimentati per la prima volta nel 1941, i carri Duplex Drive (DD) erano mezzi corazzati completamente contenuti all’interno di scafi pieghevoli realizzati in tela molto resistente agli strappi applicati ai carri e mantenuti in posizione eretta per mezzo di un’intelaiatura pneumatica; attraverso di essi si realizzava una sorta di imbarcazione di tela che permetteva al mezzo corazzato di galleggiare e che veniva propulsa in acqua da un’elica associata al motore di questo. Questo ingegnoso tipo di kit, applicato sia agli Sherman che ai Valentine, presentava però gli inconvenienti di consentire un movimento in acqua estremamente lento e di non poter essere utilizzato col mare agitato, inoltre, dato che le fiancate di tela superavano in altezza la torretta del carro, questo non poteva fare fuoco col proprio cannone se non una volta presa terra, quando lo scafo aggiuntivo in tela veniva rapidamente asportato. Vennero studiate delle alternative per mettere nelle condizioni il carro di sparare in tempi rapidi e, allo scopo, si testarono degli artifizi esplosivi che proiettavano via la tela liberando così la bocca da fuoco. In Normandia non furono soltanto le acque della costa a creare problemi agli Alleati, ma anche la fitta vegetazione del bocage, al punto che per muoversi con maggiore facilità al suo interno vennero realizzati dei dispositivi trincia siepi come il Cullins, da applicare alla parte bassa del frontale degli scafi dei carri armati.
In Normandia l’esercito degli Stati Uniti schierò sul campo un gran numero di divisioni, unità che inquadravano poco meno di 15.000 uomini, che per quella specifica operazione vennero rinforzate attraverso l’incremento quantitativo dei battaglioni inquadrati al loro interno. Cosicché, una normale divisione di fanteria, oltre ad articolarsi sui suoi tre reggimenti di arma base e sui reparti di artiglieria (un reggimento e un gruppo, quest’ultimo dotato di cannoni pesanti), aggregò anche delle unità indipendenti (corazzate, fanteria o di artiglieria). Quando venivano uniti ai battaglioni corazzati, quelli di fanteria assumevano la conformazione di una forza da combattimento bilanciata denominata Regimental Combat Taems (RCT), che si differenziava dai Battle Groups (BG) per la maggiore flessibilità di formazione e impiego di questi ultimi, che erano invece gruppi di combattimento ottenuti dall’unione di due o tre battaglioni sulla base delle necessità contingenti dei comandi. La divisione corazzata “tipo” dell’US Army, che inquadrava 11.000 uomini e schierava quasi 250 mezzi corazzati), si articolava su tre battaglioni carri montati su M4 Sherman, tre battaglioni di fanteria meccanizzata su semicingolati Half Track, un battaglione carri leggeri su M3 Stuart, reparti esploranti montati su blindo ruotate M8, tre battaglioni di artiglieria (cannoni semoventi e caccia carri) e sui supporti tattici e logistici divisionali.
Sia nelle unità statunitensi che in quelle britanniche i compiti di ricognizione ed esplorazione vennero espletati dalle autoblindo, mezzi ruotati a trazione integrale leggermente corazzati tuttavia dotati di velocità e maneggevolezza di molto superiori a quelle dei carri armati; generalmente, il loro armamento era difensivo, seppure blindo come la tedesca Puma che l’americana M8 Light Armored Car installassero cannoni, rispettivamente, di medio e piccolo calibro risultati di elevato rendimento sul piano balistico. Nelle prime fasi della campagna di Normandia i reggimenti esploranti operarono con estrema difficoltà a causa della fitta compartimentazione del terreno e dell’organizzazione delle difese tedesche, una situazione critica che si ripropose anche nel corso dell’azione di avvicinamento al nemico delle unità anglocanadesi nel settore di Caen e che ebbe termine con il crollo del fronte tedesco, che aprì ampi spazi di azione per le unità esploranti. A quel tempo i reggimenti esploranti del Royal Army erano strutturati su un comando e quattro gruppi operativi e montavano prevalentemente autoblindo Daimler e Scout Car. I britannici, seppur considerandola debolmente protetta, a partire dal 1943 utilizzarono anche l’autoblindo M8 (alla quale diedero il nome Greyhound), già in distribuzione ai reparti esploranti delle unità dell’US Army. Dotata di un cannone da 37 millimetri e di mitragliatrice coassiale Browning M2 HB, col suo armamento principale era nelle condizioni di confrontarsi validamente con quasi tutti i veicoli esploranti nemici. Il carro leggero americano M3 fu un altro mezzo impiegato prevalentemente per l’esplorazione del campo di battaglia. Prodotto a partire dal 1940 e successivamente ceduto alle forze dei paesi alleati degli Stati Uniti, installava un armamento principale costituito da un cannone da 37 millimetri, inoltre era dotato di mitragliatrice coassiale a esso e di un’altra mitragliatrice installata per la difesa ravvicinata installata all’esterno della torretta.
Dai tempi della loro prima apparizione sul campo di battaglia, avvenuta nel 1942 in Africa settentrionale, l’infinita rincorsa nei confronti dei più potenti cannoni e delle più efficaci corazze dei carri armati tedeschi fatta dagli M4 Sherman, finì praticamente con la realizzazione della versione “Firefly” (lucciola) armata di pezzo da 76 millimetri, che sui carri britannici andò a sostituire il preesistente cannone da 75 proprio poco prima del D-Day. Fu una scelta azzeccata, in quanto il Firefly si sarebbe dimostrato l’unico carro alleato in grado di porre fuori combattimento i panzer tedeschi da ragionevoli distanze di sicurezza. Gli Sherman vennero utilizzati da tutte le unità corazzate alleate impegnate in Europa, modificato per lo sbarco anfibio attraverso l’applicazione di diversi kit, sempre durante la campagna militare in Francia settentrionale venne modificato mediante il fissaggio sul cielo della torretta di improvvisate rampe idonee al lancio degli stessi razzi da 76,2 millimetri utilizzati per l’attacco al suolo dai velivoli Hawker Typhoon, soluzioni artigianali che però si rivelarono inaffidabili a causa dell’incontrollabilità e dell’imprecisione del sistema. Diversamente, quella che fu la soluzione “figlia” di questo raffazzonato lanciarazzi, cioè il T34 Calliope, ottenne risultati estremamente soddisfacenti. Il Calliope derivava da una semplice trasformazione dell’M4 Sherman mediante l’installazione sul cielo della torretta di 60 tubi di lancio per razzi da 117 millimetri. Una configurazione di questo carro armato medio particolarmente efficace nell’appoggio ravvicinato, che si rendeva possibile attraverso il brandeggio della torretta, determinando l’elevazione di lancio della rampa per mezzo di un tirante collegato alla bocca da fuoco.
In Normandia i tedeschi schierarono degli ottimi carri armati, frutto dell’evoluzione dei concetti progettuali maturata in cinque anni di combattimenti. Mezzi come il Panzerkampfawagen IV, che trovò impiego nelle sue varie versioni di volta in volta migliorate per l’intera durata della guerra, o il Tigre e il Panther formarono l’ossatura delle sei divisioni corazzate della Wehrmacht che contrastarono l’avanzata alleata dopo lo sbarco. Il Panzerkampfwagen VI Tigre, carro la cui produzione venne avviata nell’agosto 1942 per terminare due anni dopo, era un mezzo corazzato che, a perte le sue dimensioni e il suo peso, entrambi notevoli, non presentava novità di rilievo, dato che riprese buona parte delle soluzioni concettuali precedentemente applicate su altri modelli di panzer, come lo scafo e la sovrastruttura a piastre piane, il vano motore posizionato posteriormente e la camera di combattimento dell’equipaggio centrale ricavata al di sotto della torretta, possedeva un complesso trasmissione-differenziale situato nella parte frontale dello scafo associato a un treno di rotolamento con corona motrice anteriore e sospensioni a barre di torsione. L’armamento era il potente cannone da 88 millimetri (da 8,8, in quanto i tedeschi usavano misurare i loro calibri in centimetri) si rivelò un mezzo molto pesante e di scarsa mobilità operativa penalizzato fortemente dalle sue 57 tonnellate di peso e dai suoi ingombri, che ne limitavano anche la mobilità strategica per ferrovia e per via ordinaria. Nonostante tutti questi aspetti negativi, il Tigre rinvenne comunque i suoi punti di forza nella spessa corazzatura e nell’armamento, quindi, pur non essendo particolarmente agile fu comunque in grado di dominare il campo di battaglia, soprattutto negli ampi teatri operativi del fronte orientale, dove l’assenza di ostacoli naturali gli consentiva di sfruttare la massimo la portata della sua bocca da fuoco e la resistenza delle sue imperforabili piastre di acciaio ai colpi sparati dal nemico. Grazie anche a imprese quali quella del 13 giugno 1944 a Villers-Bocage compiuta dal capitano Michael Wittmann, che con alcuni carri Tigre della sua compagnia distrusse numerosi Cromwell e Sherman nemici (compresi alcuni Firefly), arrestando praticamente l’avanzata della 7ª Divisione corazzata britannica, il Panzerkampfwagen VI divenne lo spauracchio dei carristi alleati.
Realmente innovativo sul piano concettuale fu invece il Panzerkampfwagen V Panther, concepito sulla spinta emergenziale provocata dall’introduzione da parte sovietica dell’ottimo T-34, fatto che per i tedeschi rese urgente l’immissione in linea di un carro medio che fosse in grado di contrastarlo efficacemente, dato che il PzKpfw IV non era all’altezza del compito. Prodotto a partire dalla fine del 1942, il Panther aveva una corazza spessa e bene inclinata e un lungo cannone ad alta velocità da 75 millimetri, fattori che fecero la differenza ponendolo nelle concrete condizioni di misurarsi con elevate probabilità di successo con quasi tutti i tipi di carro armato al tempo schierati dal nemico. Il suo primo impiego operativo di rilievo fu l’attacco al saliente di Kursk nel luglio 1943 (operazione Zitadelle). Se viene eccettuata la fase iniziale di impiego, durante la quale a causa dell’affrettata immissione in linea con le unità carri tedesche vennero registrati numerosi difetti che portarono a casi di avaria o malfunzionamento, il Panther si dimostrò un ottimo carro, probabilmente il migliore prodotto nel corso della Seconda guerra mondiale. Il suo particolare treno di rotolamento, sebbene di difficile manutenzione, assicurò tuttavia al mezzo un’eccellente grado di aderenza su terreno vario, mentre il suo propulsore si caratterizzò per le più che brillanti prestazioni. In Normandia, avendone avuta contezza delle capacità, i comandi alleati concentrarono sulle formazioni di Panther i lanci di razzi a ogiva perforante dei cacciabombardieri Typhoon, velivoli armati di otto razzi da 76,2 in grado di esprimere una irresistibile potenza di fuoco.
È stato affermato che se i tedeschi avessero avuto la possibilità di contrattaccare con le loro divisioni corazzate nelle fasi iniziali dei combattimenti seguite allo sbarco, probabilmente avrebbero ricacciato in mare gli angloamericani. Si tratta di un aspetto estremamente controverso sul quale non incise soltanto la profonda differenza di vedute che intercorse tra von Rundstedt e Rommel, ma soprattutto il gravissimo handicap costituito dalla Luftwaffe, che non era ormai più in grado di controllare lo spazio aereo sovrastante la Francia lasciando così l’assoluto dominio dei cieli ai caccia Thunderbolt e Mustang americani e agli Spitfire e ai Typhoon britannici, che consentirono ai pesanti bombardieri che scortavano di avere mano libera nel distruggere tutto ciò che di militare si trovò al disotto delle loro capienti fusoliere. Infatti, laddove le unità panzer e caccia carri poterono adeguatamente occultarsi e tendere imboscate al nemico, cioè nel fitto bocage normanno, le cose andarono diversamente e le divisioni alleate vennero inchiodate per giorni. In quel particolare contesto operativo agirono spesso anche i semicingolati contraerei, armati con cannoncini di vario tipo e calibro (anche di preda bellica) e configurati nelle versioni ad arma singola, binata o quadrinata, sistemi in grado di erogare notevoli volumi e concentrazioni di fuoco che vennero frequentemente utilizzati anche contro bersagli terrestri in funzione di arresto. Quando le unità corazzate della Wehrmacht e delle Waffen SS furono in grado di assumere e mantenere l’iniziativa su un terreno che si prestava in maniera ideale all’azione difensiva (effettuata con un numero di carri inferiori a quello dell’avversario ma superiori tecnologicamente) riuscirono a rallentare temporaneamente l’avanzata del nemico contenendone la testa di ponte. I tedeschi sfruttarono al massimo le potenzialità insite nel bocage, dai ridotti campi di tiro imposti dalla fitta vegetazione alla mimetizzazione dei propri mezzi ottenuta mediante l’adozione delle caratteristiche livree color verde medio e marrone su fondo sabbia verniciate sugli strati di pasta a-magnetica antimina Zimmerit che ricopriva le corazze dei carri e degli Jagdpanther. Ma la pesante inferiorità sul piano numerico permaneva comunque e, quando alla fine del mese di giugno, Rommel fu in grado di ammassare i seicento panzer delle sue sei divisioni corazzate scagliandole in formazioni ad armi combinate con la fanteria contro il nemico, malgrado le loro evidenti carenze gli Sherman e i Cromwell vanificarono ben presto il disperato contrattacco tedesco teso a riguadagnare terreno nel tentativo di ridurre ulteriormente la testa di ponte alleata. In Normandia un’altra importante battaglia combattuta in massa da forze corazzate fu quella a sud di Caen nel corso dell’operazione Goodwood, un evento paragonato a quello che ebbe luogo un anno prima al saliente di Kursk, sul fronte orientale, con la differenza però che in Francia settentrionale i semoventi Jagdpanther e le altre armi anticarro tedesche furono determinanti nella distruzione e nella messa fuori uso di 300 mezzi corazzati nemici. In Normandia venne registrato un elevato tasso di carri distrutti, diretta funzione di due fattori: l’impiego in massa di questo sistema d’arma da parte di entrambi i belligeranti e la particolarità dell’ambiente che caratterizzava il teatro operativo. Ma con il graduale allargamento della testa di ponte alleata, che conseguentemente per i tedeschi comportò una conseguente dispersione delle forze su una linea del fronte sempre più estesa, efficaci forme di resistenza come quella posta in essere all’interno del bocage non fu più possibile. A seguito dello sfondamento americano a Saint-Lô e del successivo dilagare delle divisioni di Patton per la Wehrmacht cessarono le residue speranze di rimanere nella Francia settentrionale. La battaglia di Mortain rappresentò il canto del cigno delle divisioni panzer dell’OB West, un dramma che rinvenne la sua ultima drammatica appendice alcuni giorni dopo più a est, nella tenace resistenza a difesa dell’unica via di fuga dalla sacca di Falaise.
L’ultima grande battaglia combattuta dalle divisioni panzer di Hitler sarebbe stata quella delle Ardenne, alla fine del mese di dicembre, con la Francia ormai definitivamente alle spalle e lo spettro della difesa del territorio del Reich che iniziava a materializzarsi sempre di più nelle coscienze dei soldati tedeschi.
In memory
Ogni anno sulla costa settentrionale della Francia hanno luogo numerose cerimonie di celebrazione del grande sbarco alleato del giugno 1944. La Normandia – col suo gran numero di cimiteri militari e di musei, oltreché, lungo tutta la sua costa, la serie di fortificazioni in cemento armato dette blockhaus, bunker e postazioni un tempo facenti parte del Vallo Atlantico realizzato dai tedeschi – è meta continua di turisti, reduci e appassionati di storia militare. Ogni cinque anni si svolge addirittura un raduno di ampie proporzioni che richiama da tutta Europa e non solo collezionisti di mezzi militari e di uniformi dell’epoca. In quei giorni la costa settentrionale francese è come se tornasse indietro nel tempo: colonne di autoveicoli e carri armati degli eserciti alleati sfilano attraverso le vie centrali dei villaggi fra ali di gente festante. I più applauditi sono quelli della “Francia Libera” di De Gaulle, appassionati e comparse che vestono l’uniforme della marina o quella della dei carristi della divisione di Leclerc. Poi gli americani, i britannici, i canadesi, tutti tranne i tedeschi. Infatti, per il nemico un tempo occupante, ancora oggi a tanti anni di distanza dalla fine della guerra le leggi della Repubblica proibiscono di sfilare pubblicamente, anche in occasioni come queste.
Tra la folla e gli avventori dei bistrò, seduti ai tavolini imbandierati a festa a sorseggiare un Ricard, qualche gendarme della locale stazione discretamente, seppure con piglio severo, controlla che tutto si svolga in una cornice di legalità. E così è, ed è sempre stato. Si tratta di eventi conviviali tutto sommato spensierati, tuttavia dall’elevato significato simbolico, nonché economico. Infatti, ricorrenze del genere fanno la felicità degli esercenti e degli amministratori dei vari dipartimenti interessati, poiché oltre a rinsaldare nei cuori l’amor patrio, quel copioso afflusso di turisti e appassionati reca anche un bel po’ di quattrini nelle casse di commercianti e albergatori. Ogni tanto accade che tra la gente in festa capiti anche qualche esaltato, qualcuno di quelli che alla guerra vorrebbe andarci e farci andare pure gli altri al suono dei pifferi e sventolando le bandiere. Ma non fa niente e, in ogni caso è inevitabile. In fondo queste ricorrenze sono, a tutto diritto, anche le loro.
Il passato è passato. La Normandia adesso è una moderna e piacevole regione della Francia. Una regione dell’Europa e del mondo. I francesi nel dopoguerra si affrettarono a ricostruire per bene i loro centri cittadini e le infrastrutture, tuttavia non perdettero la memoria storica di quei drammatici giorni. Nel corso dell’ultima fase della guerra, in quei luoghi numerosi centri urbani, anche di pregio storico, rimasero devastati dalla furia dei combattimenti tra gli eserciti contrapposti e dei bombardamenti a tappeto dagli aerei angloamericani. Nella città di Rouen andarono distrutti numerosi edifici medievali, come le case dalle travature di legno e la stessa cattedrale, che rischiò di venire completamente rasa al suolo. Scomparve anche il centro di Lisieux, che fortunatamente vide scampare alla distruzione la sua cattedrale di San Pietro e la nuova basilica a quei tempi in costruzione. A essere quasi interamente distrutto fu anche il grosso centro agricolo di Saint-Lô, mentre la martoriata città di Caen subì la distruzione di numerosi suoi edifici. Solo Bayeux, nella Bassa Normandia, ebbe la fortuna di seguire una sorte differente degli altri centri a lei limitrofi, venendo risparmiata dalle bombe degli aerei alleati. Soltanto per il frutto del caso, poiché i tedeschi si ritirarono frettolosamente senza combattere già nella giornata del 7 giugno, consentendone così l’occupazione da parte della 50ª Divisione di fanteria britannica Northumbria del generale Graham.
In quei luoghi i segni del conflitto permangono tuttora, malgrado alle migliaia di caduti di quella lontana estate del 1944 adesso questo non interessi più. Le loro furono vite prematuramente spezzate dalla follia tutt’altro che irrazionale della guerra. Essi non potranno più tornare indietro a parlare con noi, a bere un aperitivo al tramonto, oppure a corteggiare una bella ragazza francese. Resteranno lì sotto per sempre, coperti da quella terra dove combatterono duramente, amici e nemici assieme, mentre i loro compagni e tutti gli altri sopravvissuti a quella tremenda carneficina poterono tornare a ubriacarsi e a fare l’amore. A vivere insomma.
Cronologia degli eventi
15 maggio 1944 – Lo SHAEF si riunisce per la pianificazione finale dell’operazione Overlord.
6 giugno 1944 – È il D-Day, con l’avvio dell’operazione Overlord inizia la battaglia di Normandia.
11 giugno 1944 – Dal suo quartier generale di Rastenburg, in Germania, Hitler emana una direttiva con la quale vieta in qualsiasi forma un ritiro delle unità della Wehrmacht.
12 giugno 1944 – La I Armata statunitense conquista la cittadina francese di Carentan; il premier britannico Winston Churchill si reca in visita al fronte, presso la testa di ponte alleata, come osservatore.
13 giugno 1944 – La II Armata britannica occupa il villaggio di Villers Bocage, lo stesso giorno le prime V1 colpiscono Londra e il sud dell’Inghilterra.
16 giugno 1944 – Iniziano i movimenti delle unità della Wehrmacht e delle Waffen SS inviate in rinforzo all’OB West di von Rundstedt.
17 giugno 1944 – La I Armata statunitense fa il suo ingresso a Barneville, villaggio sito sulla costa occidentale della penisola del Cotentin; lo stesso giorno Hitler giunge in aereo a Soissons per incontrare Rommel e von Rundstedt.
19-22 giugno 1944 – Sul canale della Manica e sulla Francia settentrionale si abbatte una violenta tempesta che, impedendo ulteriori sbarchi di uomini e materiali, blocca temporaneamente la progressione alleata; alla fine del furibondo fortunale il porto Mulberry A risulterà distrutto.
25 giugno 1944 – L’operazione Dauntless viene condotta dal XXX Corpo d’armata britannico.
26-30 giugno 1944 – Scatta l’operazione Epsom, che vede impegnato l’VIII Corpo d’armata britannico.
27 giugno 1944 – Il VII Corpo d’armata statunitense conquista il porto di Cherbourg, nella penisola del Cotentin.
28 giugno 1944 – Il Generaloberst Friedrich Dollmann, comandante della VII Armata tedesca e responsabile della piazza di Cherbourg si toglie la vita; viene sostituito dall’Oberstgruppenfürer Paul Hausser.
2 luglio 1944 – Il feldmaresciallo Gerd von Rundstedt viene sostituito al comando dell’OB West dal feldmaresciallo Günther von Kluge.
3 luglio 1944 – La I Armata statunitense dà avvio a un’offensiva in direzione sud con l’obiettivo della conquista del nodo stradale di Saint-Lô.
6 luglio 1944 – Il generale Leo Freiherr Geyr von Schweppenburg viene sostituito al comando del Panzergruppe West dal generale Heinrich Eberbach.
7-8 luglio 1944 – Ha luogo l’operazione Charnwood, il I Corpo d’armata britannico conquista la zona settentrionale di Caen.
10 luglio 1944 – Prende avvio l’operazione Jupiter, condotta dall’VIII Corpo d’armata britannico; lo stesso giorno Montgomery emana una direttiva riguardante lo sfondamento in direzione della regione francese della Bretagna.
15 luglio 1944 – Il XXX e il XII Corpo d’armata britannico prendono parte all’operazione Greenline.
17 luglio 1944 – Il feldmaresciallo Erwin Rommel rimane ferito e viene sostituito al comando del Gruppo Armate B dal feldmaresciallo Günther von Kluge, che comunque continua a restare alla guida dell’OB West.
18-20 luglio 1944 – Con l’operazione Goodwood, che vede la partecipazione del I e dell’VIII Corpo d’armata britannico e del II Corpo canadese, gli Alleati conquistano anche la rimanente parte dell’area di Caen ancora in mano tedesca.
19 luglio 1944 – La I Armata statunitense occupa Saint-Lô.
20 luglio 1944 – A Rastenburg, nella tana del lupo, viene compiuto un attentato ai danni di Hitler, ma il Führer sopravvive, riportando solo lievi ferite.
6 luglio 1944 – Diviene operativa la I Armata canadese.
25-28 luglio 1944 – Dopo una serie di iniziali difficoltà il VII Corpo d’armata statunitense da avvio all’operazione Cobra irrompendo nel bocage.
25 luglio 1944 – Il II corpo canadese viene impegnato nell’operazione Spring.
30 luglio 1944 – La II Armata britannica avvia l’operazione Bluecoat; lo stesso giorno la I Armata statunitense conquista la città di Avranches.
1 agosto 1944 – Il XII Gruppo di Armate e la III Armata statunitensi divengono operativi.
3 agosto 1944 – Hitler ordina un contrattacco in Normandia.
5 agosto 1944 – Il Panzergruppe West assume la denominazione di V Armata Panzer.
6 agosto 1944 – Montgomery ordina l’accerchiamento del Gruppo Armate B.
6-8 agosto 1944 – Prende avvio l’operazione Lüttich, il XLVII Corpo Panzer contrattacca a Mortain.
8-11 agosto 1944 – Viene lanciata l’operazione Totalize, condotta dalla I Armata canadese; il generale Bradley ordina al XV Corpo d’armata statunitense di virare in direzione nord allo scopo di effettuare un accerchiamento del nemico.
9 agosto 1944 – Hitler ordina la creazione del Panzergruppe Eberbach, disponendo che il XLVII Corpo Panzer mantenga le proprie posizioni; l’Oberstgruppenfürer «Sepp» Dietrich prende temporaneamente il comando della V Armata Panzer.
12 agosto 1944 – Il XV Corpo d’armata statunitense conquista Argentan.
14-17 agosto 1944 – Operazione Tractable condotta dalla I Armata canadese.
15 agosto 1944 – Prende avvio l’operazione Dragoon, sbarco anfibio alleato nel sud della Francia.
16 agosto 1944 – Hitler permette il ritiro della VII Armata tedesca.
17 agosto 1944 – La I Armata canadese conquista Falaise.
18 agosto 1944 – A seguito della sua rimozione dal comando dell’OB West e del Gruppo Armate B, il feldmaresciallo Günther von Kluge si toglie la vita; verrà sostituito dal feldmaresciallo Walther Model.
19 agosto 1944 – La III Armata statunitense inizia l’attraversamento del fiume Senna.
20 agosto 1944 – La I Armata canadese e la I Armata statunitense chiudono i tedeschi nella “sacca” di Falaise; l’Oberstgruppenführer Paul Hausser viene ferito; il generale Heinrich Eberbach prende temporaneamente il comando della VIII Armata.
22 agosto 1944 – La sacca di Falaise viene annientata.
25 agosto 1944 – La 2éme Division blindée del generale Leclerc entra trionfante in una Parigi liberata dall’occupante tedesco; ha termine la battaglia di Normandia.
29 agosto 1944 – La III Armata statunitense attraversa il fiume Marna.
29 agosto 1944 – La III Armata statunitense attraversa il fiume Mosa: gli Alleati penetrano in territorio tedesco.
1 settembre 1944 – Il generale Eisenhower assume il comando delle forze di terra dello SHAEF; il generale Montgomery riceve la promozione al grado di feldmaresciallo.
3 e 4 settembre 1944 – Unità della II Armata britannica liberano le città belghe di Bruxelles e Anversa.
11 settembre 1944 – Le prime forze alleate entrano in territorio tedesco.
Dicembre 1944 – A seguito dell’ultima grande controffensiva tedesca nelle Ardenne viene combattuta l’omonima battaglia.
Aprile 1945 – Con la caduta di Berlino e la morte di Adolf Hitler in Europa si conclude la Seconda guerra mondiale. La resa incondizionata della Germania verrà firmata l’8 maggio seguente.
Agosto 1945 – Cessati i combattimenti sul suo fronte occidentale, l’8 agosto l’Unione Sovietica dichiara guerra al Giappone; alcuni giorni dopo, il 15 agosto, anche a seguito dello sganciamento da parte americana degli ordigni all’uranio e al plutonio sulle città di Hiroshima e Nagasaki, il Giappone accetta la resa incondizionata. |
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Indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli
37 mm Flak 43 auf Pz. IV “Ostwind”, cannone contraereo
Abilene
Acate
Accordo navale anglo-tedesco (1935)
AFHQ (Allied Forces Headquarters)
Africa
Afrika Korps
Afrique Équatoriale Française (AEF)
Afrique Occidentale Française (AOF)
Air Corps Tactical School
Alençon
Alexander Harold
Algeria
Allied Inter-Service Head Quarter
Alpha Beach
Alsazia
Alta Sassonia
Amburgo
Anfa, Conferenza di
Anglo-Iraniana Oil company
Antifer, Capo di
Anversa
Anvil, operazione
Argentan
Arlington National Cemetery
Armata rossa
Army Air Corps (US)
Army Ground Forces (US)
Army School of Line
Army Staff College
Arnheim
Arnold, Henry Harley
AS-51 Horsa, aliante
Aschersleben
Atlantico, battaglia del
Atlantico, oceano
Aube, Hyacinthe Laurent Théophile
Auckinleck, Claude
Aulock, Andreas von
Austria-Ungheria
Avola
Avranches
Avro 683 Lancaster, velivolo da bombardamento
B-24 Liberator, quadrimotore da bombardamento
B-26 Marauder, bimotore da bombardamento
Bagnères-de-Bigorre
Bagration, operazione
Balcani
balcanica, Penisola
Banstead
Barbarossa, operazione
Barneval
Barneville
BARV (Beach Armoured Recovery Vehicle), veicolo corazzato recupero per le spiagge
Battle Group (BG)
Baviera
Bayerlein, Fritz
Bazooka, lanciarazzi anticarro portatile
Beck, Ludwig
Bedell Smith, Walter
Beirut
Belfast Banking Company
Belgio
Bell Telephone Laboratories
Bengasi
Bénouville
Berchtesgaden
Berlino
Bertoldi, Silvio
Bielorussia
Birmania
Biscari
Bishop (Mounting, Valentine,25-pdr Gun Mk I), semovente di artiglieria
Blauberen
Blitzkrieg (guerra lampo)
Block Ship (porti Mulberry)
Bluecoat, operazione
bocage
Bodyguard, operazione
Boeing B-17 Flying Fortress, velivolo da bombardamento
Bofors 40/70, cannone antiaereo
Bombardoon (porti Mulberry)
Bomber Command (RAF)
Borneo
Boulogne
Bourget
Bourguébus
Boys, fucilone controcarro
Bradley Roberts, Geoge Philip
Bradley, Omar Nelson
Brereton, Lewis H.
Brest
Brest-Litovsk (Brześć nad Bugiem)
Bretagna
Bretteville
Brigate internazionali
British Air Council
Bronte
Brooke, Sir Alan, I visconte Alanbrooke
Browning M2 HB, mitragliatrice
Bucknall, Gerard Corfield
Bulgaria
Burgdorf, Wilhelm
Cagny
Calais
Calgary, 14° Reggimento corazzato canadese
California
Cambridge
Camel Beach
Camerun
Campo di Marte (Parigi)
Canada
Canaris, Wilhelm
Canne, battaglia di
Cap Barfleur
Caporetto
Carentan
Carpiquet
Carter Coles, Elizabeth
Casablanca, Conferenza di
Cassibile
Castro, Fidel
Catania
Cavalaire-sur-Mer
Cavallero, Ugo
CEOA (Central Europe Operating Agency)
CEPS (Central Europe Pipeline System)
Cezembre
CFLN (Comitato Francese di Liberazione Nazionale)
CG-4A Waco, aliante
Chalons-sur-Marne
Chambois
Champs Elysées
Chang Kaishek
Charnwood, operazione
Cherbourg
Choltitz, Dietrich von
Christie, J. Walter
Churchill, carro armato
Churchill, Winston
Ciad
Cina Popolare
Cirenaica
Civilian Conservation Corps
Clark
Clausewitz, Karl von
Cobra, operazione
Collina 317
Collins, Joseph Lawton
Colombelles
Colonial Service
Colonna Leclerc
COMAC (Comitato di azione militare)
Comitato dei XX
Commonwealth
Compton, John
Conigham, Sir Arthur “Mary”
Consolidated Aircraft Corporation, industria aeronautica
Corea, Guerra di
Corsica
COSSAC (Chief of Staff to the Supreme Allied Commander)
Cotentin, penisola del
Coutances
CPL (Comitato Parigino di Liberazione)
creeping barrage
Crimea
Crittemberger, Willis D.
Croce Rossa
Croce Rossa americana
Cromwell, Tank Cruiser Mk VIII (carro armato)
Cuba
Daimler, autoblindo da esplorazione
Daimler Scout Car, veicolo blindato da esplorazione
Danimarca, Stretto di
danubiana, regione
Dardanelli, Stretto dei
Datchworth
Dauntless, operazione
Deep Wading, kit anfibio per carri armati
De Gaulle, Charles
De Lattre de Tassigny, Jean
de Seton Black, Marie “Toppy”
Delta Beach
Dempsey, sir Miles Christopher
Department of Defense (Usa)
Desert Air Force (RAF)
Devers, Jacob L.
Dewey, Thomas E.
Dieppe
Dietrich, Josef “Sepp”
Digione
Dill, John
dispersione, strategia della (1939)
Distinguished Service Order (decorazione militare britannica)
Dives, fiume
Dodecanneso, isole del
Dollmann, Friedrich
Dönitz, Karl
Doolittle, James H.
Dornier Do-200, velivolo
Douglas Aircraft Company
Douglas C-47 Dakota, velivolo da trasporto
Dover, stretto di
Dowding, Hugh
Dragoon, operazione
Dresda
Dukw (zattera porti Mulberry)
Dulles, John Foster
Dunquerque
Duplex Drive (DD), carro armato anfibio (Sherman)
Eberbach, Heinrich
École de Cavalerie (Saumur)
École Militaire (Parigi)
Edimburgo
Egitto
Eisenhower, Dwight David
el-Alamein, battaglia di
el-Guettar, battaglia di
Elisabetta II
ENIGMA
Epsom, operazione
Erskine, George
Estonia
Éterville
Europa
European Recovery Program (Piano Marshall)
Fahrmbacher, Wilhelm
Falaise
Faustpatrone, lanciagranate controcarro portatile (vedere: Panzerfaust)
Feuchtinger, Edgar
Fezzan
FFI (Forze francesi dell’interno)
Fiji, isole
Filippine
Focke-Wulf 190, velivolo da caccia
Fort Benning
Fort Leavenworth
Fortitude, operazione
Forward Air Control (RAF)
Forza L
Francia
Francia Libera
Franco, Francisco
Fritsch, Werner von
Fuchs, Werner
FUSAG (First United States Army Group)
Gabon
Gagarin, Jury
Gale, Nelson
Gallipoli (Gelibölü)
Garand, fucile semiautomatico
Gazala
Gela
Gela, Golfo di
Gerhard-Fieseler-Werke, industrie
Germania
Germania Ovest
Gerow, Leonard T.
Gestapo
Gettysburg
Gewehr 98, fucile per la fanteria
Giappone
Giraud, Henry
Glenguin
Glenn L. Martin Company, industria aeronautica
Goddard, Robert Hutchings
Goodwood, operazione
Gooseberry (porti Mulberry)
Göring, Hermann
GPA (General Purpose Amphibious), veicolo fuoristrada anfibio
Graffham, operazione
Grecia
Greenline, operazione
Groenlandia
Groß-Paris
Guderian, Heinz
Guernesey, isola
guerriglia navale insidiosa (teoria della)
Half Track (Car M2 e Personnel Carrier M3), veicolo semicingolato
Halle
Handley Page Halifax, bombardiere quadrimotore pesante
Hannover
Harris, Sir Arthur Travers (Bomber Harris)
Hartley Wintney
Hausser, Paul
Hautot-sur-Mer
Hawker Typhoon, velivolo da combattimento
Heidenheim
Heinkel He-111, velivolo bombardiere
Hellmich, Heinz
Herrlingen
Higgins Boat (mezzo da sbarco per la fanteria)
Higgins, Andrew
Hill, Sir Roderick M.
Hitler, Adolf
HMS Berkeley, cacciatorpediniere
HMS Calpe, cacciatorpediniere
HMS Illustrious, portaerei
Hodges, Courtney H.
Hofacker, Cezar von
Hong Kong
Hotchkiss H39, carro armato
Hôtel de Ville (Parigi)
Hôtel Meurice
Hudson’s Bay Company
Huff-Duff (H/F D/F, High Frequency Direction Finder)
Husky, operazione
Infanterie Kurz Patrone 43, munizione da fucile
Ile-de-France
Ile-de-la-cité
Inghilterra
Inghilterra, battaglia di
Iran
Irlanda
Islanda
Italia
Ivanov, Sergej
Jagdpanther, semovente cacciacarri
Jagdtiger, semovente cacciacarri
Jeep (Truck, ¼ t, Utility 4X4 – General Purpose), autovettura fuoristrada
Jersey, isola di
Jodl, Alfred
Jubilee, operazione
Jupiter, operazione
K98k (Original Mauser Standard Gewehr Karabine 98), fucile per la fanteria
Kalashnikov, Mikhail Timofejevich
Kansas
Kégresse
Keitel, Wilhelm
Keller, Rod
Kennedy, John Fitzgerald
Kesserling, Albert
Keyes, Roger sir
Kharkov
Khrushchev, Nikita Sergeyevich
Kiev
Kim Il Sung
King, Ernest Joseph
Kleines Kettenrad (Sd.Kfz. 2), motocarrozzetta semicingolata
Kluge, Günther, von
König, Eugen
Kriegsmarine
Kufra, oasi di
Kursk, saliente di (battaglia)
Laize-la-Ville
Lampedusa, isola di
Lampione, isola di
Laval, Pierre
Lavandou
LCH (Landing Craft, Headquarters)
LCI (Landing Craft, Infantry)
LCT (Landing Craft, Tank)
LCVP (Landing Craft Vehicle Personnel)
Le Havre
Le Mans
Leclerc, Philippe-François-Marie de Hauteclocque
Leigh-Mallory, Sir Trafford
Lenin, Vladimir Ilich
Leone Marino, operazione
Lettonia
Lexington
Libano
Libia
Libreville
Licata
Liegi
Linosa, isola di
Livarot
Lofoten, isole
Loira, valle della
Longjumeau
Longmore, Sir Arthur
Lorena
Lorient
Loustalot, Edwin V.
LRDG (Long Range Desert Group)
LST (Landing Ship, Tank)
Lubecca
Lubiana (Ljubljana)
Ludendorff, Erich von
Luftflotte 2
Luftflotte 3
Luftwaffe
Lussemburgo
Lussemburgo, Giardini del (Parigi)
Lüttich, operazione
M1, carabina
M3, pistola mitragliatrice
M3 Scout Car, veicolo blindato ruotato
M3 Stuart, carro armato leggero
M4 Sherman, carro armato medio
M4 Sherman Firefly, carro armato medio
M7 (Carriage, Motor, 105 mm Howitzer), semovente di artiglieria
M7 Priest, semovente di artiglieria
M8 Greyhound (Light Armored Car M8), autoblindo
M10 Wolverine (Gun Motor Carriage), semovente cacciacarri
M14, carabina
M18 Hellcat (Gun Motor Carriage), semovente cacciacarri
M-26 Pershing, carro armato
M36 Jackson (Gun Motor Carriage), semovente cacciacarri
MAB (Moschetto automatico Beretta)
MacArthur, Douglas
Macchi MC 202, velivolo da caccia
Mackenzie King, W.L.
MaClardy, Rosalinde
Maczek, Stanisław
Madrid
Magdalene College (Cambridge)
Mahan, Alfred Thayer
Maisel, Ernst
Mallory, Leigh
Malta
Maltot
Manica, canale della
Mantes-la-Joile
Maquis, movimento di resistenza francese
Market Garden, operazione
Marly
Marna, battaglia della
Marna, fiume
Marocco
Marshall, George C.
Marshall, George Catlett
Marsiglia
Massachussets
Mauser Werke Oberdorf
McCarthy, Joseph R.
McMillan, Gordon Holmes
McNair, Lesley
Mediterraneo, mare
Meindl, Eugen
Messerschmidt 262, velivolo da caccia a reazione
Messerschmidt Bf-109, velivolo da caccia
Messico
Messina
Messina, Stretto di
Meuse-Argonne, battaglia di
Meyer, Kurt
MG34, mitragliatrice
Midland Bank
Midway, battaglia delle
Mincemeat, operazione
Mödel, Walther
Molotov, Vyacheslav Mikhailovich
Monaco, Conferenza di
Montana
Monte Cassino
Montgomery, Sir Bernard Law
Montmorency
Morgan, Sir Frederick Edgeworth
Mortain
Mosa, fiume
Mosca
Mosca, battaglia di
Mountbatten, Louis lord
Mulberry (A e B), porti artificiali
Mussolini, Benito
Namur
NASA (National Aeronautics and Space Administration)
National Discount Company
National Security Act (1947)
NATO (North Atlantic Treaty Organisation)
NDRC (National Defense Research Committee)
Nebelwerfer, lanciarazzi multicanna
Nixon, Richard Milhouse
Nord, mare del
Norden, sistema di puntamento stabilizzato giroscopicamente
Nordling, Raoul
Norfolk House (Londra)
Norimberga
Normandia
North American, industria aeronautica
Norvegia
Nôtre Dame, cattedrale
O’Connor, sir Richard
Ofenrohr, lanciarazzi anticarro portatile
Olanda (Paesi Bassi)
ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite)
Orch, modello 1938 (autovettura)
Orne, fiume
Ortona
Ostenda
Ostendorff, Werner
Osttruppen (volontari “Ost”)
Ottawa
ottomano, Impero
Overlord, operazione
P-38 Lighting, velivolo da caccia
P-47 Thunderbolt, velivolo da caccia
P-51 Mustang, velivolo da caccia
Pachino
Pacifico, oceano
Paesi Bassi (Olanda)
Palermo
Palestina
panamericana, zona di sicurezza
Pantelleria, isola di
Panther (Pz.Kpfw. V), carro armato
Panzer IV (Pz.Kpfw IV, Panzekampfwagen IV), carro armato
Panzerfaust, arma controcarro per la fanteria
Panzerscherek (Raketenpanzerbüchse 43), lanciarazzi anticarro portatile
Papen, Franz von
Parigi
Patto di Varsavia
Patto Tripartito
Paulus, Friedrich von
PCF (Partito comunista francese)
Pennsylvania
Percy
Perl Harbour
Pershing, John Joseph
Pescara
Pétain, Henry Philippe
Phoenix (porti Mulberry)
PIAT (Projector, Infantry, Anti-Tank), lanciagranate conbtrocarro portatile
Piccardia
Pinçon, mont
Piramidi
Pirenei, Alti
Pittsburgh
Place de la Concorde (Parigi)
Place de la République (Parigi)
PLUTO (Pipe Line Under the Ocean)
Pointbreak, operazione
Polonia
Pont de Sevres
Pontaubault
Porte d’Orléans
Potsdam
Potsdam, Conferenza di
Pound, Dudley sir
Pourville
Pozzalla
PPSh-41, moschetto automatico
Pratt & Whitney, propulsori aeronautici
Provenza
Puma (Sd.Kfz 234/2), autoblindo
Puys
Quadrant (Conferenza di Québec)
Queen Elizabeth, nave da crociera
Queen Mary, nave da crociera
Quemoy, isole
RAF (Royal Air Force)
Rambouillet
Ramsey, Sir Bertram
Rankin, piano di operazione
Raruray
Rastenburg
RCAF (Royal Canadian Air Force)
Rëder, Erich Johann Albert
Regia Aeronautica italiana
Regio Esercito italiano
Regimental Combat Team (RCT)
Reichswehr
Rennes
Reno, fiume
Rhinoferry (zattera porti Mulberry)
Ribbentrop, Joachim von
Ridgway, Matthew
Rivoli, rue de (Parigi)
Rodano
Röhm, Ernst
Rol-Tanguy
Roma
Roma, sacco di (1527)
Rommel, Erwin
Rommel, Lucie
Rommel, Manfred
Roosevelt, Franklin Delano
Rosenberg, Ethel
Rosenberg, Julius
Rosso, mare
Rostov, battaglia di
Rotterdam
Rouen
Rouen-Sotteville
Royal Flying Corps
Royal Navy
Royal Society for the Protection of Birds
Royal Tank Regiment
Ruhr, bacino minerario
Rundstedt, Karl, von
Rutter, operazione
SA (Sturmabteilung)
Saint-Cyr
Saint-Foy
Saint-Germain
Saint-Lô
Saint-Malo
Saint-Mihiel
Saint-Nazaire
Saint-Raphaël
Saint-Tropez
Salerno
Salmuth, Hans, von
San Gabriel (California)
Sandhurst, accademia militare
Sant’Agata (Sicilia)
Sardegna
SAS (Special Air Service)
Saumur
Scandinavia
Schwerer Zugkraftwagen, trattore di artiglieria semicingolato
Schlieben, Karl-Wilhelm, von
Schweppenburg, Leo Freiherr Geyr, von
Scie, fiume
Scoglitti
Scozia
Sd.Kfz. 251, veicolo semicingolato
SEATO (Southeast Asia Treaty Organization)Sélune, fiume
Sedan
Seelöwe, operazione
Senna, fiume
Services of Supply (U.S. Army)
Sexton, semovente di artiglieria
SHAEF (Supreme Headquarters Allied Expeditionary Forces)
SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe).
Sherman, carro armato
Short of War
Sicilia
Siracusa
Siracusa
Sledgehammer, piano di operazione
SOE (Special Operations Executive)
Soissons
Somme, battaglia della
Southampton
Spaatz, Carl Andrew
Spagna
Speer, Albert
Speidel, Hans
Sperrle, Hugo
Spitzberg, isole
Spring, operazione
St George’s Chapel
St Mary, chiesa di
Stalin, Josif Vissarionović Djugašvili
Stalingrado
Starkey, piano di operazione
Stauffemberg, Claus Schenk, von
Stegmann, Rudolf
Sten, pistola mitragliatrice
Sterlingshire
Stevenson, Adilai E.
StG-44 (Sturmgewehr), fucile automatico d’assalto
Stoccarda
Strasburgo
Stülpnagel, Heinrich von
Sturmgeschütz, semovente di artiglieria cacciacarri
Sudest asiatico
Sudeti
Suez, canale di
Suisse normande
Supermarine Vickers Spitfire, velivolo da caccia
Surrey
T25, veicolo esplorante parzialmente corazzato
T34 Calliope, sistema lanciarazzi
T-34, carro armato medio
Taft, Robert Alphonso
Taiwan
Taylor, Maxwell D.
Tedder, Sir Arthur
Teheran, Conferenza di
Tennant, sir William George “Bill”
Terranova
Thomas, Gwilym Ivor
Thorez, Maurice
Tibesti
Tigre (Panzerkampfwagen VI Tiger), carro armato
Tigre II (Panzerkampfwagen VI Tiger II, Königstiger), carro armato pesante
Tirreno, mare
TN5 (Transportation 5)
Tobruk
Tolone
Thompson, moschetto automatico
Torch, operazione
Tossus-le-Noble
Totalize, operazione
Tractable, operazione
Trapani
Tredinnick Crocker, sir John
Tripoli
Truman, Harry S.
Trun
Tunisia
Tupper Brown, Katherine
Turchia
Typhoon, velivolo da caccia
Ucraina
Ulm
Ulster
ULTRA
Unione sovietica (URSS)
Uniontown (Pennsylvania)
US Navy
USAAF (United States Army Air Force)
USAF (United States Air Force)
USS Niblack, cacciatorpediniere
V1 (Vergeltungswaffen), Fieseler Fi-103 (FZG-76 Flakzielgerät)
Vagsoy
Valchiria, piano (complotto ai danni di Hitler)
Valentine (Mk III), carro armato
Vallo atlantico
Vanderberg, Joit S.
Varengeville-sur-Mer
Varsavia
Vasilevskij, Aleksandr
Verdun
Versailles, Trattato di
Vesinet
Vesterval
Vichy
Vicino Oriente
Vienna
Villa, Francisco, “Pancho”
Villacoublay
Villers Bocage
Vimoutiers
Vire, fiume
Virginia Military Institute
Vlassov, Andrej
Volkov, paludi del
Vosgi, catena montuosa
Walter Reed General Hospital (Washington D.C.)
Washington D.C.
Weimar, Repubblica di
Wellesley Arthur, duca di Wellington
Wespe (Sd.Kfz. 124), semovente di artiglieria
Whale Pier (molo d’atttracco porti Mulberry)
Wilson, Sir Henry Maitland
Windsor, castello di
Wirsch, Theodor
Wittmann, Michael
Wolfsschanze (tana del lupo)
Woolwich
Württemberg
Wurzburg-Freya, apparato radiolocalizzatore
Y Plan (1937)
Yalta, Conferenza di
Z Plan (1937)
Zagorodnij, capitano cosacco delle Osttruppen
Zimmerit, pasta a-magnetica antimina
Zitadelle, operazione
Zoological Society of London
Žukov, Georgij