CULTURA, società. Storie di amicizia: Rosario Sprovieri e Gaspare Giansanti

Una vicenda d’altri tempi che oggi è divenuta un saggio di storia dell’arte italiana. Una vita per l’arte, la Nuova Pesa nella Roma degli anni Sessanta nel racconto

a cura di Pino Nano – Appena fresco di stampa l’ultimo saggio d’arte di Rosario Sprovieri, 175 pagine, per la Editoriale Progetto 2000 di Demetrio Guzzardi, e in cui l’intellettuale calabrese (lui è originario di San Pietro in Guarano, un paesino della provincia di Cosenza) ricostruisce una fetta importante della storia dell’arte a Roma, partendo proprio dal racconto intimo che gli fa il suo amico più caro, Gaspare Giansanti, che oggi purtroppo non c’è più. La prefazione che gli fa il prof. Francesco Gallo Mazzeo, che uno dei grandi critici d’arte italiani di questo secolo, è un inno alla Storia dell’Arte e a quanto nel saggio di Sprovieri si possa trovare.

SCRIVERE UNA MEMORIA

«Scrivere una memoria vuol dire ricordare persone, fatti, avvenimenti, costruendo una cronologia che faccia da struttura, da impalcatura, necessaria per dare un senso alle cose; potremo descrivere la genealogia che li rende comprensibili, leggibili, al fine di connettere la tramatura con una scienza di significati. La memoria non è storia, nel senso pieno del termine, perché manca di necessario orizzonte e di soggettività fattuale, ma serve a essa, in quanto consegna tasselli di conoscenza, non importa se minori o parziali, al tessuto connettivante di un’epoca. La storia infatti, come sottolinea il professor Francesco Gallo Mazzeo, non è fatta solo di cifrari roboanti, ma anche di punti di vista imprevisti, detti minori, che permettono, a volte di risolvere i rebus delle incoerenze, delle interferenze, delle inspiegabilità, nella vicenda di persone e strutture importanti, che hanno avuto una funzione maieutica, nella vita di individui protagonisti, così come in figure d’appoggio, che in apparenza dovevano solo fare, eseguire, senza mai interferire, ma poi in effetti non è mai così».

PERSONALITÀ DI RILIEVO

Per il famoso critico d’arte italiano «il libro memoriale di Giansanti e Sprovieri rientra pienamente in questa perimetrazione in cui prendono vita personalità rilevanti, come quelle di Antonello Trombadori, Alvaro Marchini e Fernando Terenzi, che con la presenza debordante e fascinosa di Renato Guttuso, hanno impresso un segno preciso, nell’aver delineato un aspetto della linea culturale italiana nel campo delle arti visive, intersecandosi con artisti, critici, collezionisti, politici e tutto quanto emergeva da una scena romana, dove apparivano, e non fugacemente, Pablo Picasso, Daniel-Henry Kahnweiler, due colossi del secolo; ma non solo, tanti italiani, i cui nomi ci sono familiari e tanti stranieri, di quella Parigi che ancora faceva la differenza, di quella potente America, che fa capolino con la figura di Burt Lancaster, interprete del personaggio di don Fabrizio Solima del romanzo di Tomasi di Lampedusa».

UNA SOCIETÀ APERTA

«Quella che emerge dalla leggerezza composita delle memorie di Giansanti e dalla scrittura di Sprovieri – sottolinea l’illustre critico d’arte -, è una fraseologia, che dimostra un’apertura della società romana al parlarsi degli uni con gli altri e non al chiudersi, come avviene in questo inizio di secolo e di millennio, entrando senza il trauma con cui il Settecento aveva introdotto l’Ottocento e quello con cui l’Ottocento aveva lasciato al tempo del Novecento». Le gallerie di cui si parla nel saggio di Rosario Sprovieri non ci sono più e quelle che ci sono appartengono a categorie «che non ci sono consanguinee (chiaramente, questo vale, solo per lo scrivente) votate a un mercato di cui non si sottovaluta l’importanza ma che non può essere tutto: ci devono essere valori, significati, moralità, senza di cui tutto diventa senza cuore, senza anima, senza arte», mi verrebbe da dire.

UN PRESAGIO NON BENEVOLO

A scorrere i nomi, mi viene in mente un presagio non benevolo, quello dell’oblio che molti di loro rischiano e che bisogna scongiurare; faccio un esempio per tutti: quello di Giuseppe Mazzullo, di cui a parte una marginale fondazione taorminese, non c’è nulla che lo ricordi, ma con lui, voglio citare Cordio, Virduzzo, Verrusio, Viaggio; ma tanti che, non nomino, perché sarebbe un libro intero a cui dobbiamo dedicare attenzione e rispetto. Ecco come un saggio di storia dell’arte può anche diventare «altare della memoria», «bisogno di storicizzare chi sta per essere dimenticato per sempre», o chi viene invece surclassato e schiacciato dalla modernità dei social che non ricordano molto del nostro passato. È vero, lo diciamo spesso, riconosce il grande Francesco Gallo Mazzeo: «Chi non ha storia non ha futuro, ma la storia siamo noi tutti, coscienza e consapevolezza, istituzioni e accadimenti a cui scritture come questa ci possono stimolare, per capire meglio quali possano essere le strategie dell’oggi, per avere un domani e non essere destinati all’oblio anche noi».

CHI NON HA STORIA NON HA FUTURO

Ma quello che invece non ti aspetteresti mai da un critico d’arte famoso come lui è questa sorta di confessione pubblica che l’illustre cattedratico siciliano fa nella sua prefazione al saggio di Rosario Sprovieri: «Gaspare Giansanti negli ultimi anni è stato un assiduo frequentatore dei miei mercoledì di Unum e Signum di Bibliothè, a Roma, ma devo dire che la lettura di queste pagine, mi consegnano una brillantezza e una vivacità, che non avevo sospettato e di ciò gli chiedo scusa». Questo libro, dunque, non è rivoluzionario, non è sensazionalistico, non svela segreti e impertinenze, ma rivela il volto di un costruttore che nell’ombra e nella tenacia, si è costruito una consapevolezza, una cultura e ha voluto che tutto questo non rimanesse confinato nella sua testa, ma diventasse di tanti, di quegli altri tanti che non hanno pensato di mettere nero su bianco; tutte quelle persone che sono state a fianco di protagonisti, di cui hanno carpito le segretezze, le sottigliezze e l’umanità.

UN’UMANITÀ CHE NON HA MEDAGLIE DA MOSTRARE

Ha ragione il professore Francesco Gallo Mazzeo quando scrive che «queste pagine, sono pagine di un’umanità che non ha medaglie da mostrare, che non ha benemerenze da chiedere, ma cose da dire, completando un quadro, che non ha solo luminarie e soli danzanti, ma sotterranei, officine, cucine e laboratori da cui fare uscire nuovi sapori: vita». Attenzione, stiamo parlando non di un libro d’arte, non di un saggio di storia dell’arte, non di una biografia di un artista in particolare, ma del grande romanzo dell’arte romana del secolo scorso, «che vale la pena di indagare e di fare propria, afferma l’editore Demetrio Guzzardi, perché solo così potremo dare valore agli artisti più veri di questo Paese».

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