SCUOLA, digitalizzazione. Registro elettronico e «falso ideologico digitale» la responsabilità dell’insegnante e la natura dello strumento

L’insegnante che acceda al registro personale elettronico per modificare una votazione precedentemente assegnata all’allievo commette il reato di falso ideologico in atto pubblico

a cura dell’avvocato Valentina Guerrisi, pubblicato in “De Vita Law”, https://www.devita.law/il-falso-ideologico-digitale/ Con la sentenza in commento la Suprema Corte si sofferma sulla natura del registro elettronico e del suo contenuto, ritenendo sussistente la responsabilità penale del docente/pubblico ufficiale che, nel far ricorso ad una scala di voti predeterminata, non si limita ad esprimere un giudizio meramente discrezionale ma effettua una valutazione di natura tecnica, sicché la sua successiva alterazione integra il reato di falso ideologico (Nota a Cass. Pen., Sez. V, 4.06.2021 n. 34479)

IL CASO

La Corte d’Appello confermava la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato un’insegnante per il reato di falso ideologico in atto pubblico ex art. 476 c.p., aggravato ai sensi del secondo comma perché compiuto su atto ritenuto fidefacente. In particolare, si contestava alla docente di aver fatto accesso al registro elettronico personale, in prossimità degli scrutini finali ed in due diverse occasioni, per modificare in senso peggiore le votazioni già attribuite ad un’allieva sia nella verifica scritta che in quella orale.

La difesa dell’imputata ricorreva innanzi la Corte chiedendo l’annullamento della sentenza sulla base, principalmente, di tre motivi.

Anzitutto, lamentava l’erronea qualificazione del registro elettronico del professore quale «atto pubblico fidefacente» in assenza di una specifica previsione normativa sul punto; ed infatti, l’art. 41 del r.d. 965/1924  farebbe riferimento al solo «giornale di classe» quale atto pubblico fidefacente, mentre il registro del singolo professore, non oggetto di disciplina specifica, non avrebbe alcuna rilevanza giuridica, atteggiandosi al più quale «strumento di promemoria del docente, con lo scopo di supportare più agevolmente la sua funzione didattico-educativa e valutativa».

Con il secondo motivo, si censurava la mancata valutazione dei requisiti tecnici specifici del registro in questione, i quali non consentirebbero di qualificarlo come «documento informatico pubblico avente efficacia probatoria» ai sensi di quanto previsto dall’art. 491 bis c.p. . Secondo la difesa, infatti, può considerarsi tale esclusivamente l’atto sottoscritto con firma elettronica qualificata o firma digitale, mentre i registri utilizzati dalla ricorrente erano privi di tali requisiti e vi si accedeva esclusivamente tramite nome utente e password, attribuiti dall’istituto ad ogni singolo docente.

Infine, si denunciava l’insussistenza della immutatio veri tipica del falso ideologico in ragione della concreta attività svolta: ed infatti, poiché i criteri di valutazione delle prove sono liberamente determinati dalla docente, la sua attività sarebbe consistita in una valutazione puramente discrezionale; pertanto, il documento espressivo di tale giudizio – sia esso un voto su una prova scritta o su un registro – non sarebbe destinato a provare la verità di alcun fatto.

LA DECISIONE DELLA CORTE

Nel rigettare il ricorso con articolata motivazione, la Corte ha colto l’occasione per affrontare il tema delle falsità ideologiche commesse su atti informatici, chiarendo le caratteristiche ed i requisiti che tali documenti devono possedere per essere considerati «atti pubblici» rilevanti a fini penali. Di particolare interesse, inoltre, appare la disamina sul ruolo dell’insegnante e la natura delle diverse valutazioni che questo esprime, laddove i Giudici attribuiscono peculiare rilievo al giudizio che, se ancorato a precisi ed oggettivi riferimenti, non può essere considerato puramente discrezionale e, dunque, scevro di conseguenze.

In ordine all’asserita diversità tra il registro di classe e quello del singolo docente di cui al primo motivo ricorso, dopo aver evidenziato come l’alterazione risultasse apportata in realtà su entrambi i documenti (come provato, peraltro, dai dati contenuti nella copia di salvataggio dell’archivio dell’istituto) i Giudici hanno osservato come anche il registro del professore rientri pienamente nell’accezione di “giornale di classe” di cui all’art. 41 r.d. 965/1924; in quest’ultimo, infatti, vengono annotate le assenze, le attività svolte, i voti o le materie spiegate, e quindi tutte le attività compiute dal pubblico ufficiale che attesta «fatti avvenuti alla sua presenza o da lui percepiti».

Non vi è dubbio, pertanto, sulla natura pubblicistica di tale atto, come ribadito già in altre pronunce della Corte . Analogamente, anche sul registro personale del professore vengono riportate le attività compiute (es. argomento della lezione) ed i fatti avvenuti in sua presenza, di talché «il registro di classe e il registro dei professori costituiscono atti pubblici di fede privilegiata, in relazione a quei fatti che gli insegnanti di una scuola pubblica o ad essa equiparata, cui compete la qualifica di pubblici ufficiali, attestano essere avvenuti in loro presenza o essere stati da loro compiuti».

Pertanto, non appare dirimente il riferimento al contenuto letterale della norma – evidentemente formulata in tempi in cui il sistema scolastico era organizzato in maniera differente  – e la presunta mancanza di una disciplina specifica, dovendosi invece prediligere una interpretazione sistematica e funzionale, che tenga conto dello specifico fine cui tali strumenti sono tesi (ovvero quello di documentare l’attività posta in essere o accaduta in presenza del docente/pubblico ufficiale), a prescindere dalla loro denominazione.

IL REATO DI «FALSO INFORMATICO»

Anche in relazione alla presunta impossibilità di considerare il registro elettronico in uso alla ricorrente quale documento pubblico informatico con efficacia probatoria, la Corte predilige una interpretazione sostanziale che valorizza la funzione specifica svolta dall’atto, piuttosto che le sue qualità estrinseche. La rilevanza penale della condotta di falso, pertanto, è necessariamente subordinata alla funzione cui l’atto informatico è destinato (in ragione dei dati e le informazioni ivi contenuti) e non anche ai suoi requisiti tecnici.

Ed infatti, con l’art. 491 bis c.p. nel 1993 il legislatore ha inteso introdurre il falso informatico per tutelare la fede pubblica «attraverso la salvaguardia del documento informatico nella sua valenza probatoria. La lesione o la messa in pericolo del bene tutelato, infatti, si realizzano solo quando la falsificazione […] fa venir meno la prova in ordine a un dato o informazione contenuta nel documento». Sebbene l’art. 491 bis non contenga una definizione di documento informatico pubblico o privato, essa può facilmente desumersi dall’art. 1, lett. p) del Codice dell’amministrazione digitale  secondo cui deve intendersi documento informatico «la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti»; rappresentazione che sussiste anche nel caso del registro elettronico.

Il medesimo Codice dell’Amministrazione digitale contiene poi disposizioni specifiche sulla validità ed efficacia probatoria di tali documenti (in particolare gli artt. 20-23), secondo le quali gli atti sui quali risulti apposta una firma digitale o altro tipo di firma elettronica qualificata hanno un’efficacia probatoria privilegiata. Tuttavia, secondo la Corte, ciò non esclude automaticamente l’efficacia probatoria di quei documenti che, pur potendosi definire “informatici”, non siano dotati delle predette modalità di sottoscrizione. Pertanto, il registro elettronico del professore, la cui natura pubblica è indubbia, rientra sicuramente tra gli atti la cui efficacia probatoria è liberamente valutabile dal giudice.

GLI «ATTI INTERNI» SONO «ATTI PUBBLICI»

Peraltro, anche qualora si volesse operare una distinzione tra il registro personale del docente e quello di classe, il primo assumerebbe comunque rilievo, atteso che «per orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, devono considerarsi atti pubblici dotati di efficacia probatoria anche gli atti cosiddetti interni, ovvero quelli destinati a inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza e valutazione, nonché quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale […]».

Tali caratteristiche si rinvengono, appunto, nel registro del docente in quanto «esso contiene attestazioni rilevanti e anzi essenziali nel procedimento amministrativo diretto al risultato dello scrutinio finale e della produzione di effetti rispetto a situazioni soggettive di rilevanza pubblicistica, quali il conseguimento del titolo di studio».

Da ultimo, la Corte affronta le censure contenute nel terzo motivo di ricorso, afferenti alla natura del giudizio espresso dalla docente, ribadendo in maniera ancora più netta principi ormai consolidati in tema di falsità e responsabilità conseguenti. A differenza della falsità materiale (che compromette la forma del documento, in termini di genuinità dello stesso) la falsità ideologica incide sul suo contenuto, configurandosi tutte le volte in cui l’immutatio veri inerisca a fatti di cui il documento è destinato a provare la verità. La rilevanza della condotta, tuttavia, muta in base al tipo di rappresentazione (e conseguente valutazione) che il pubblico ufficiale è chiamato a dare, escludendosi che possa configurarsi il reato di falso ideologico nel caso in cui questi, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione; in tal caso infatti la sua attività è da considerarsi assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non sarà destinato a provare la verità di alcun fatto .

L’ELABORAZIONE GIURISPRUDENZIALE

Tali principi, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale formatasi in tema di fattispecie (anche controverse) quali le false comunicazioni sociali , il falso in bilancio o, perfino, in punto di responsabilità medica, vengono ampiamente condivisi dalla Corte ma ritenuti non aderenti al caso in commento.

Il giudizio specifico espresso dalla ricorrente non può qualificarsi quale valutazione assolutamente discrezionale sostanziandosi, al contrario, in una manifestazione di discrezionalità tecnica. E infatti, ai sensi di quanto previsto da numerose e dettagliate norme in materia, le valutazioni effettuate dai docenti devono consistere in manifestazioni trasparenti e tempestive del livello di rendimento e del raggiungimento di specifici obiettivi da parte degli alunni; ad ognuno di questi livelli corrisponderà una votazione alfanumerica o di altro tipo (es. con giudizi quali buono, ottimo, etc.) che di volta in volta verrà assegnata e che concorrerà alla valutazione finale per il passaggio alla classe successiva.

Pertanto, tutte le volte in cui il docente/pubblico ufficiale ricorrerà a tale scala di valori per elaborare il proprio giudizio non si limiterà ad esprimere una propria opinione, ma attribuirà uno specifico significato all’operato dell’allievo, valutabile in maniera oggettiva e trasparente.

Orbene, tale è l’ipotesi che ricorre secondo i Giudici nel caso in commento atteso che la docente «era tenuta a uniformarsi a obiettivi e standard formativi predeterminati, che escludevano in radice la possibilità di formulare giudizi in termini assolutamente discrezionali e arbitrari, dovendo in ogni caso tali valutazioni, espresse in voti prefissati, essere rispettose, nell’interesse degli alunni, delle esigenze di trasparenza e tempestività», esigenze che, secondo la Corte, sarebbero state compromesse dalla condotta dell’imputata.

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