CINA POPOLARE, tensioni nello Stretto di Taiwan. Pechino e i venti di guerra sull’isola di Formosa

Non è ipotizzabile che la democratica Taiwan sia sacrificabile in nome dei traffici commerciali con Pechino; quest’ultima vuole acquisire soprattutto le capacità raggiunte a Formosa nella produzione di eccellenza dei semiconduttori, componenti vitali per l’industria odierna

di Giuseppe Morabito, generale dell’Esercito italiano e membro del Direttorio della NATO Defence College Foundation – Alcuni anni  or sono il cantautore napoletano Edoardo Bennato scrisse una canzone ispirata alla favola di Peter Pan: “L’Isola che non c’è”, dove si diceva che «non può esistere una isola che non c’è». Ovviamente questa è una metafora che rappresenta un «mondo che non c’è (…) senza guerre, ne’ soldati, ne’ armi», un mondo che «non può esistere nella realtà».

Nella canzone, c’è un invito a cercare quest’isola che non c’è, anche se nessuno crede che esista, o almeno pochi ancora vi credono.  Un invito a cercarla con tutte le forze e con il coraggio di andare contro corrente. Cercarla, sempre.

PECHINO E «UNA SOLA CINA»

In queste ore anche (a similitudine di quando accaduto a metà agosto per la crisi in Afghanistan) molti scrivono, di Taiwan e i problemi con il regime comunista cinese anche se, nella quasi totalità, chi scrive non ha mai messo piede a Taipei o sa dove sia l’ufficio di rappresentanza di Taiwan a Roma.

Questo “fiorire di esperti” da un punto di vista puramente informativo è comunque positivo perché quasi tutti possono scrivere su varie testate giornalistiche e danno notizia all’opinione pubblica di quanto il regime di Pechino sta minacciando, in disprezzo dei principi democratici, e soprattutto fanno salire alla ribalta dell’opinione pubblica l’isola di ventitré milioni di abitanti di cui molti, a causa della politica di chiusura e censura di Pechino, non conoscevano neppure l’esistenza.

I fatti sono quelli per cui negli ultimi giorni un numero record di aerei da guerra della Repubblica Popolare cinese ha «invaso» lo spazio aereo di Taiwan, che Pechino considera una sua provincia. La possibilità che Taiwan venga invasa dall’esercito comunista cinese, e quindi “annessa con la forza alla madre patria”, cesserebbe  di essere un’ipotesi fantascientifica perché  in questi giorni, centocinquanta aerei da guerra di Pechino hanno operato nei pressi dell’isola, pur non spingendosi oltre il limite delle dodici miglia nautiche dalla costa, limite che Taipei considera il proprio spazio aereo sovrano (ufficialmente solo il governo di Taiwan afferma tale sovranità a causa delle azioni di prevaricazione in ambito internazionale, in tale specifico aspetto, da parte del governo comunista cinese). Infatti, Pechino ha isolato quasi completamente, sul piano diplomatico, Taiwan e dal 1972 insiste sulla dichiarazione di principio che esiste «una sola Cina».

UNA QUESTIONE INTERNA ALLA REPUBBLICA POPOLARE

Il presidente Xi Jinping, alle celebrazioni per i centodieci anni dalla Rivoluzione del 1911, ha affermato che Taiwan è «una questione interna alla Cina e non ammette interferenze esterne». Xi ha quindi aggiunto che: «Il secessionismo di Taiwan è il più grande ostacolo alla riunificazione nazionale, una seria minaccia al ringiovanimento nazionale. Chiunque voglia tradire e separare il Paese sarà giudicato dalla storia e non farà una buona fine»,  confermando che «la riunificazione completa del nostro Paese ci sarà e potrà essere realizzata».

Per Pechino la soluzione del contenzioso con Taiwan «è determinata dalla tendenza generale della storia cinese, ma, cosa più importante, è la volontà comune di tutto il popolo cinese. La riunificazione nazionale con mezzi pacifici serve al meglio gli interessi della nazione cinese nel suo insieme, compresi i connazionali di Taiwan».

Il presidente Xi ha infine concluso affermando che: «I compatrioti su entrambi i lati dello Stretto di Taiwan dovrebbero stare dalla parte giusta della storia e unire le mani per ottenere la completa riunificazione della Cina e il ringiovanimento della nazione cinese», ma coloro che dimenticano la loro eredità «tradiscono la loro madrepatria e cercano di dividere il paese, non avranno una buona fine», aggiungendo che saranno disprezzati dalla gente e condannati dalla storia. «Nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione, la volontà e la capacità del popolo cinese nel salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale».

TAIPEI NON CEDE

Sempre in queste ore, il Consiglio di Taipei per gli affari con la Cina, in risposta ai giudizi sulla riunificazione rilanciati da Xi Jinping, ha replicato che di fronte alle ambizioni del partito comunista cinese la presidente Tsai Ing-wen ha più volte ribadito che «non cederà né avanzerà», difendendo con forza sovranità e sicurezza nazionali e continuando ad approfondire la cooperazione con i paesi amici. La sintesi è che solo i ventitré milioni di taiwanesi hanno il diritto di decidere «il futuro e lo sviluppo» dell’isola.

Nella dichiarazione della presidente viene sottolineato che il governo di Taipei si «sforzerà di mantenere lo status quo di pace e stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan». L’invito alle autorità di Pechino è semplicemente quello di abbandonare le misure provocatorie e pensare sempre più apertamente alla chiave dell’interazione tra «pace, reciprocità, democrazia e dialogo».  Anche se questo infastidisce il regime comunista è ormai una evidenza che  il popolo di Taiwan è sia democratico sia libero e vive in una società prospera che fa di tutto per mantenere la pace attraverso lo Stretto di Taiwan. Gli sforzi di stabilità sono stati affermati all’unanimità dalla comunità internazionale, il che dimostra che «la tendenza storica non è dalla parte dell’egemonia autocratica».

Nelle dichiarazioni finali il Consiglio taiwanese ha inoltre sottolineato che «il punto cruciale delle attuali relazioni attraverso lo Stretto risiede nella riluttanza di Pechino ad affrontare Taiwan, la Repubblica di Cina, senza rinunciare all’uso della forza contro Taiwan».

L’AMBIGUITÀ DI WASHINGTON

Il vero problema di Taiwan, tuttavia, è l’atteggiamento assai ambiguo degli Stati Uniti al riguardo della problematica. Washington infatti ha troncato le relazioni diplomatiche con la Cina nazionalista dopo la storica visita del presidente Richard Nixon a Pechino, pur impegnandosi a difenderla in caso di aggressione esterna anche se non esiste un vero e proprio trattato in merito.

Comunque, negli anni Washington ha aumentato la fornitura di armamenti a Taipei e si è attivata   per addestrare l’esercito taiwanese affinché sia in grado quantomeno di contrastare  un tentativo di invasione e , quindi, attivare tutta la deterrenza possibile. Il presidente Biden, non proprio il prototipo della fermezza statunitense, come dimostrato tragicamente in Afghanistan,  cercherebbe oggi un dialogo con Xi Jinping, consapevole che un intervento militare deciso ed efficace nello Stretto di Taiwan non verrebbe visto con favore da gran parte dell’opinione pubblica americana. Washington sta cercando di coinvolgere giapponesi, britannici e australiani nel contenzioso con Pechino con iniziative tipo quella di AUKUS, l’alleanza tripartita tra Usa, Gran Bretagna e Australia (per ora) finalizzata alla fornitura a Canberra di sottomarini a propulsione nucleare.

L’ISOLA CHE NON C’È

Dopo la disfatta di Kabul la capacità d’influenza di quello che un tempo si chiamava «Occidente» ha conosciuto un calo esponenziale, con lo Stato comunista cinese che da questa debolezza sta cercando di trarre il massimo vantaggio. Non credo che sia ipotizzabile che la democratica Taiwan sia sacrificabile in nome dei traffici commerciali con Pechino, che guarda soprattutto ad acquisire le capacità taiwanesi di produzione di eccellenza per quantità e qualità nel campo dei, vitali per l’industria odierna, semiconduttori.

Nella canzone di Bennato l’isola è il simbolo della ricerca della felicità, di un’armonia che non si può raggiungere, ma, malgrado ciò, sembra sempre a portata di mano. In fondo abbiamo un po’ tutti bisogno di crederci, di pensare che al di là di tutto ci sono momenti, situazioni nelle quali in qualche modo, anche se per poco, possiamo davvero «sperare di vivere in un mondo libero». L’isola che non c’è: roba da favolette per bambini o, forse, solo roba da canzonette. Ma chissà, magari è vero il contrario…

Condividi: