MEDIO ORIENTE, Giordania. Analisi: le rivalità di un regno (forse) sull’orlo di una crisi

Qualche giorno fa le ultime parole pubbliche del Re Abdullah II: «La crisi è finita». Ma se invece tutto fosse soltanto all’inizio? Secondo Michele Marsiglia (FederPetroli Italia) e Massimo Lavezzo Cassinelli (diplomatico) e scelte dinastiche del defunto Re Hussein alla radice dello scontro

Pubblicato dal periodico online “l’Indro” il 12 Aprile 2021 nella sezione Opinioni/Politica/Esteri; introduzione del Presidente di FederPetroli Italia – Per me questa uscita editoriale su “L’Indro” è particolarmente importante, perché ho avuto l’onore di essere affiancato da un diplomatico di lunga carriera che negli ultimi anni è sempre stato una persona con la quale ho avuto l’opportunità di confrontarmi su diverse tematiche di politica estera, specialmente mediorientali. Poche parole per mostrare il piacere nel poter parlare di Medio Oriente con un uomo che ha rappresentato l’Italia in diversi Paesi del mondo, l’ambasciatore Massimo Lavezzo Cassinelli, a cui va tutta la mia stima ed un particolare ringraziamento.

Michele Marsiglia – Nei miei viaggi in anni passati e durante le mie conversazioni con le popolazioni del Medio Oriente, a Beirut, nel Libano sotto la “protezione” dell’Onu con il contingente UNIFIL, spesso si udivano frasi del tipo: «È preferibile arrivare in Giordania e lì guardare il futuro». Parole pronunciate in anni non lontani i una città ancora sconvolta per l’assassinio del primo ministro Rafik Hariri.

Quando parliamo della Giordania ci riferiamo a un regno per anni considerato, a volte anche con superficialità, un paese calmo che non creava disturbi.

Un limbo di terra non piccolo, circondato da fulcri dominanti di un continente delicato, particolare e di notevole interesse, sia sul piano culturale che economico, confinante con paesi quali l’Arabia Saudita, l’Iraq, la Siria e Israele, con un pezzo di terra, seppur piccola, ma tra le più note a livello mondiale, quel West Bank, popolato dai Palestinesi. Infine, un Regno che è stato tra i primi Stati arabi a riconoscere Israele.

Non particolarmente ricco di idrocarburi, nonostante si trovi in una regione ricca di petrolio e gas, è comunque interessante in ragione delle sue riserve di shale oil e scisti da sabbie bituminose. Diverse compagnie petrolifere internazionali, come la Royal Ducht Shell, hanno siglato accordi per la fornitura di milioni di metri cubi di gas naturale liquido (LNG) dal terminale di Aqaba.  Non meno importanti le attività esplorative finalizzate a determinare la consistenza dei giacimenti di gas al confine con l’Iraq.

Oggi, però, la situazione è diversa, perché nel Regno hashemita gli scontri intestini, a differenza del passato, sono divenuti di pubblico dominio. Un regno arabo che ha riconosciuto per primo la centralità delle donne nelle diverse iniziative internazionali e che con il tempo hanno inondato quel glamour delle riviste di moda con la consorte del sovrano, la regina Rania, nata in Kuwait da genitori palestinesi.

Alla luce di quanto accaduto qualche mese fa alla famiglia reale saudita e a seguito delle vicissitudini che da anni segnano la Turchia, adesso anche in Giordania si grida al complotto. Un complotto, un colpo di Stato, qualcosa che espone la monarchia dal lato della sua intrinseca debolezza, mantenuta nascosta per anni dal silenzio diplomatico.

La Giordania è in Medio Oriente, luogo che, come non mi stancherò mai di ripetere, è bello ma difficile, dove l’idea di democrazia e del potere è ben lontana e diversa da quella che si ha in Occidente, un mondo che pensa essere moderno.

Un fratellastro del Re, il principe Hamzah bin Hussein, è stato accusato dallo stesso Abdallah II di aver ordito un colpo di stato ai suoi danni.

Non è tanto la piccola vicenda, che a alcuni tratti assume le forma di una messa in scena sul piano internazionale, una saga tragica, quasi una telenovela, bensì come una tale notizia o un non meglio definito membro di corte o di famiglia per discendenza, che bisbiglia con persone poco raccomandabili da mettere in serio pericolo un regno.

Se il rischio di colpo di Stato c’è, dovremmo allora percepire anche un malcontento popolare nel Paese, oppure è tutta una montatura da parte di ritiene il Regno di Abdallah II «ingombrante»?

E qui la trama si infittisce. Come accede in Libia, dove agiscono leader tribali e terze persone in un contesto nel suo insieme frammentato. Un luogo di importanza strategica anche sul piano internazionale, intriso però di rivalità familiari che originano lontano. Forse, come affermano in molti, causate dalle scelte dinastiche di Re Hussein.

Oggi ad Amman convivono due fratellastri di madri diverse, uno è il Re, l’altro viene dipinto come un «carismatico esponente della famiglia reale, in ottimi rapporti con i capi tribali beduini», cioè di quelle figure dominanti nel sistema di potere locale, che compongono buona parte dell’esercito e dei servizi di sicurezza del Paese.

Qualche giorno fa Re Abdullah II pronuncio in pubblico le seguenti parole: «La crisi è finita». Forse. O forse la Giordania è soltanto all’inizio.

Massimo Lavezzo Cassinelli – Ho prestato servizio all’Ambasciata d’Italia presso il Regno hashemita di Giordania fra il 1989 e il 1991. Si è trattato della mia seconda esperienza all’estero e della prima nel mondo arabo. Un mondo molto complesso, dove non sempre ciò che appare corrisponde alla vera sostanza delle cose. Tuttavia, allo stesso tempo affascinante e capace di impartire lezioni di grande importanza dal punto di vista umano e professionale.

La Giordania è sempre stata il «vaso di coccio» fra i «vasi di ferro» delle varie potenze regionali: non solo per le dimensioni relativamente piccole, ma anche e soprattutto per le limitate risorse economiche.

La sua stessa nascita come Stato, avvenuta dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948, quando l’Emirato di Transgiordania guidato dalla dinastia hashemita occupò la Cisgiordania e Gerusalemme Est, fu molto controversa e costò fra l’altro la vita al Re Abdullah I, bisnonno dell’attuale sovrano, assassinato nel 1951 da un’attivista palestinese.

Sotto la risoluta guida di Re Hussein, nipote di Abdullah I, che regnò dal 1952 al 1999, il Regno hashemita di Giordania consolidò a poco a poco la sua statualità, malgrado le guerre e i sommovimenti che sconvolgevano frequentemente l’intero Medio Oriente.

Il principale problema che Hussein dovette affrontare, al di là delle relazioni formalmente conflittuali (ma spesso sostanzialmente collaborative) con Israele, fu quello palestinese. La Palestina fu infatti l’unico degli ex Mandati britannici e francesi a non ottenere un proprio Stato: moltissimi profughi si riversarono quindi in Giordania, dove i Palestinesi continuarono ad affluire anche nei decenni seguenti, fino a costituirne almeno la metà della popolazione. Hussein riuscì peraltro a mantenere la stabilità del Regno, a volte con metodi molto duri come in occasione del Settembre nero del 1970, ma più spesso con grande abilità di mediazione fra i Palestinesi stessi e le tribù beduine che costituivano e costituiscono l’autentica base della monarchia hashemita.

Sono stato testimone ad Amman degli avvenimenti di una breve porzione del regno di Hussein. Breve ma di grande importanza, in quanto la monarchia hashemita fu costretta a subire le conseguenze dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, avvenuta il 2 agosto 1990: un nuovo forte afflusso di profughi, l’intervento militare di una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti sotto l’egida dell’Onu e la susseguente prima Guerra del Golfo.

La Giordania non partecipò come altri Stati arabi al conflitto contro l’Iraq, né avrebbe potuto farlo in quanto la stragrande maggioranza della popolazione, soprattutto quella di origine palestinese, sosteneva Baghdad; tuttavia il sovrano riuscì comunque a dare al proprio popolo l’impressione di non venir meno all’amicizia con il potente vicino, pur non abbandonando la collocazione filooccidentale della Giordania. Fondamentale fu ovviamente la decisione israeliana di non reagire ai missili iracheni, che causarono gravi danni a varie città dello Stato ebraico: qualora Tel Aviv fosse intervenuta, infatti, sarebbe stato ben difficile per Amman, geograficamente schiacciata fra i due contendenti, evitare di essere coinvolta.

Dopo la guerra, con l’accresciuto afflusso di persone (ma anche di capitali) di origine palestinese, si aprì un nuovo capitolo anche per la Giordania. Il re nominò per la prima volta come primo ministro un palestinese, Taher Al Masri, e, in generale, l’importanza della popolazione palestinese si accrebbe in tutti i settori della vita politica ed economica, spesso con disappunto della componente beduina, la cui prevalenza nell’immediata cerchia del sovrano venne comunque confermata.

Giungiamo qui al diretto contatto con i fatti dell’attualità. Poco prima di morire, nel 1999, re Hussein aveva tolto al fratello Hassan il titolo di principe ereditario attribuendolo al figlio Abdullah, che aveva sposato sei anni prima la palestinese Rania Al Yassin, futura icona glamour non solo per il mondo arabo. Hassan, pur ovviamente deluso da questa decisione arrivata in extremis (ma sostanzialmente logica) l’aveva accettata di buon grado, dimostrando assoluta fedeltà al sovrano, evitando così di trasformarsi nel punto di riferimento per i non pochi giordani preoccupati dalla possibile trasformazione del Regno in uno Stato palestinese de facto, soluzione per altro da tempo appoggiata da vari circoli israeliani.

Oggi la storia si ripete: Re Abdullah II ha tolto (in realtà già da qualche anno) il titolo di principe ereditario al fratellastro Hamzah, attribuendolo al proprio figlio maggiore, anch’egli di nome Hussein. Hamzah non ha probabilmente mostrato, in proposito, la stessa docilità dello zio Hassan, accarezzando forse per qualche tempo l’idea di prendere il posto di Abdullah con il possibile appoggio di parte della corte e, soprattutto, grazie al sostegno di alcune importanti tribù beduine.

Ma, venuto alla luce il piano, Abdullah lo ha rapidamente stroncato con una raffica di arresti e con l’eufemistica «protezione» accordata ad Hamzah, incaricando contestualmente proprio il vecchio zio Hassan (protagonista in prima persona, come si era visto) di una vicenda simile, di risolvere la disputa familiare.

Decisione ferme ma sagge, che indicano come Abdullah II abbia ereditato dal padre molte delle sue capacità: un viatico, questo, da considerare positivo per il futuro della fragile Giordania.

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