MEDIO ORIENTE, Giordania, Amman, complotto a palazzo: ai «domiciliari» il fratellastro di Re Abdullah II

La vicenda ha luogo in una fase di crescenti difficoltà per la monarchia hashemita, sia sul piano economico che sanitario. Essa si inquadra inoltre nella complessa dinamica regionale, caratterizzata dall’instabilità, ed è concomitante con il battage funzionale al consolidamento nell’opinione pubblica locale dell’immagine del successore al trono del sovrano attualmente regnante. Immediato il pieno sostegno degli alleati

Se il presunto complotto ordito ai danni di Re Abdallah II e di suo figlio, l’erede al trono, ha rappresentato (almeno all’esterno del palazzo reale di Amman) un raro segno di disunione della famiglia reale hashemita, non vi è dubbio che la monarchia al potere in Giordania abbia comunque ricevuto immediatamente la solidarietà e il sostegno da parte dei suoi principali alleati internazionali.

A cominciare dagli Usa, che per bocca del portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price si sono affrettati di definire la Giordania «un partner strategico inestimabile e” indispensabile», lodando l’integrità e l’azione lungimirante del sovrano, del quale Washington «apprezza immensamente il rapporto e la leadership».

Pieno sostegno americano dunque, ma non solo, poiché anche le petromonarchie del Golfo Persico si sono subito schierate a sostegno di Abdallah II, con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman che ha espresso la sua «piena solidarietà» al collega giordano nel corso di una conversazione telefonica avuta con lui domenica scorsa, gesto anticipato il giorno prima da una dichiarazione emessa dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, nella quale veniva confermata la cooperazione con la Giordania.

Il tentato golpe di Hamza

Hamza bin Hussein, fratellastro di Re Abdullah II, in precedenza anche erede al trono, è stato posto nelle condizioni di non nuocere e (evidentemente grazie ad argomenti convincenti e per intercessione dei buoni uffici da pare dello zio, il principe el-Hassan bin Talal) la disputa ha dunque avuto apparentemente termine. Egli ha firmato una dichiarazione poi resa pubblica nella quale ha affermato la propria fedeltà al sovrano.

Tuttavia, il suo gesto ha riportato alla ribalta un paese che vive da sempre una condizione di precarietà, nonostante la sua collocazione nel campo occidentale e la storica pace firmata con il confinante Stato di Israele, maldigerita da non pochi arabi nonché dalla componente palestinese, che rappresenta ormai la maggioranza della popolazione del Regno.

La Giordania, che è un’indispensabile alleato degli Stati Uniti d’America in Medio Oriente, a partire dai giorni dalle Primavere arabe ha conosciuto una crescente fase di crisi, aggravata dalle difficili condizioni economiche e occupazionali interne, seppure, a differenza di altri paesi della regione, abbia finora evitato il dramma del conflitto interno e il concretizzarsi della minaccia jihadista. Ora, questo incidente si è verificato in un momento del tutto particolare, proprio quando le infezioni da virus Covid-19 venivano registrate in aumento, aspetto che ha depresso ulteriormente la già debole economia a causa delle restrizioni di natura sanitaria che si è reso necessario imporre.

Un trono «difficile» da mantenere

Non è quindi escluso che Hamza e i suoi sodali, incluso quel Bassam Awadallah, uomo d’affari ed ex consigliere del sovrano, abbiano pensato di cavalcare il malcontento popolare per agire contro Abdallah II, «mirando ai gangli vitali della sicurezza nazionale allo scopo di minarne la stabilità», così come in seguito ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale Petra citando fonti dell’intelligence giordana.

Tutto o quasi andrebbe dunque apparentemente ricondotto alla lotta di successione a palazzo reale, questo, appunto senza prodursi in illazioni sulla nuova fase di buone relazioni intrattenute da Amman con Doha e Teheran, aspetto quest’ultimo che ha però messo in discussione una clausola del trattato di pace stipulato dal Regno hashemita con lo Stato ebraico.

A questo punto, se così davvero è andata, risulterebbe corretta la lettura del recente incidente provocato dal viaggio al Monte del tempio di Gerusalemme negato al principe ereditario Hussein dalle autorità israeliane, cioè tutto rientrerebbe nella cornice di una operazione propagandistica finalizzata a proiettare una immagine del principe ereditario come difensore dei luoghi sacri all’Islam in vista della sua successione al trono in Giordania.

Gli hashemiti, difensori della moschea di al-Aqsa

Quella che non poté avere luogo l’11 marzo scorso era qualcosa che nella città santa alle tre religioni monoteiste non avveniva dal 1967, anno dell’ingresso a Gerusalemme dell’esercito israeliano a seguito della vittoriosa «guerra dei sei giorni».

Per Abdallah II, evidentemente, un evento del genere avrebbe rappresentato suo figlio agli occhi dell’opinione pubblica giordana in una dimensione eroica, rafforzandone l’immagine sia nel Regno hashemita che nel mondo arabo in vista di una sua futura incoronazione.

Nulla sarebbe stato casuale, poiché la visita del principe ereditario al Monte del Tempio era stata prevista in una data sacra all’Islam, quella nella quale per i credenti il profeta Maometto compì il suo viaggio notturno alla Moschea di al-Aqsa.

Tuttavia, sebbene le disposizioni di sicurezza per quella storica visita fossero state attentamente pianificate dai due Paesi, le autorità israeliane furono sorprese nello scoprire al momento dell’arrivo di Hussein che il suo numero di guardie del corpo armate che lo accompagnavano era molto maggiore di quanto precedentemente concordato, fatto che portò alla cancellazione della visita.

A complicare poi ulteriormente le relazioni tra Amman e Gerusalemme, fu il trapelare della notizia che il principe aveva pianificato di incontrare nel corso della sua visita alcuni esponenti politici israeliani all’opposizione al governo in quel momento in carica.

Condividi: