NUCLEARE, rifiuti radioattivi. Li lasciamo lì dove sono adesso?

Recentemente la SOGIN, società italiana già attiva nella costruzione di centrali nucleari e attualmente dedita al loro «decommissioning», ha reso nota la sua proposta relativa alla Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. La cosa, come prevedibile, ha suscitato polemiche di varia natura; insidertrend.it ne ha parlato con il professor Alberto Clô

Recentemente la SOGIN, società italiana già attiva nella costruzione di centrali nucleari e attualmente dedita al loro «decommissioning», ha reso nota la sua proposta relativa alla Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. La cosa, come prevedibile, ha suscitato polemiche di varia natura.

A ormai quasi trentaquattro anni dall’uscita improvvisa dell’Italia dal nucleare (sancita dal referendum del 1987, un anno dopo il disastro di Černobyl) e a tredici dalla «rivolta» della popolazione di Scanzano Ionico, comune in provincia di Matera nel quale il II Governo Berlusconi aveva individuato il sito per un deposito unico nazionale delle scorie, l’argomento è di nuovo oggetto di trattazione.

Si riparla dell’argomento

Un deposito unico del genere consentirebbe una sistemazione definitiva ai materiali radioattivi a bassa, media e alta intensità attualmente collocate in vari siti sparsi sul territorio italiano. Si tratterebbe di uno stoccaggio di capienza massima pari a 78.000 m³, le dimensioni di un palazzo di sedici piani lungo ottanta metri e largo venti.

Recentemente, il professor Alberto Clô – docente di formazione cattolica vicino a Romano Prodi che fu membro del Consiglio di amministrazione dell’ENEA e che ricoprì la carica di ministro dell’Industria nell’esecutivo presieduto da Lamberto Dini – è intervenuto sulla materia dalle pagine de “l’Astrolabio”, la newsletter online dell’associazione ambientalista Amici della Terra.

Nel suo editoriale, intitolato «Una situazione non degna di un paese civile», egli ha ricordato sinteticamente le cause dei ritardi che negli ultimi diciassette anni hanno riguardato la decisione di realizzare un deposito unico in Italia, attribuendone in gran parte la responsabilità agli «atteggiamenti irresponsabili della classe politica, dei mezzi di informazione ma anche della cosiddetta società civile».

Una decisione rinviata per anni

Non è stato l’unico a tornare sulla semidimenticata questione, poiché a stretto giro, anche Rosa Filippini – già parlamentare dei Verdi e del Partito socialista italiano e attualmente consigliere nazionale degli Amici della Terra – è intervenuta nel dibattito dai microfoni di Radio Radicale nel corso di una recente trasmissione di approfondimento.

Ella, alla luce dei ritardi decennali nella realizzazione di un’opera del genere, ha ribadito la propria convinzione riguardo al fatto che nella realizzazione «è evidente non si può fare affidamento sulle scadenze previste per legge», aggiungendo che: «sulla base di un’ipotesi più realistica sarà difficile riuscire ad avere un impianto attivo e funzionante prima della metà del secolo». Ma cos’è un deposito unico di rifiuti radioattivi?

Intanto va chiarito che i rifiuti radioattivi non sono soltanto quelli prodotti dalle centrali nucleari in esercizio, le cosiddette «scorie nucleari», ma anche numerose altre tipologie di materiali tuttora in uso in attività che esulano dall’elettro generazione.

Rifiuti radioattivi

Nel deposito unico dovrebbero confluire materiali di diversa natura che, giunti a fine vita operativa, necessitano di venire smaltiti. Essi spaziano dai residui delle centrali nucleari (le citate «scorie radioattive») a quelli delle applicazioni biomediche e di quelli dell’industria, fino ai parafulmini delle abitazioni civili che contengono al loro interno sorgenti alfa, o le teste radiogene dei macchinari per le RX e le TAC utilizzate negli ospedali e negli ambulatori.

A tutta questa massa di materiali radioattivi vanno poi aggiunti anche quelli dei quali si dovranno «liberare» le Forze armate, poiché fino a oggi non hanno potuto farlo e che, per disposizione di legge, dovranno seguire il medesimo percorso e venire riversati nel futuro deposito unico nazionale.

Il deposito nazionale unico

Un deposito nazionale unico dei rifiuti radioattivi risponde sia a requisiti di economia di scala che di sicurezza, infatti, è più semplice e meno problematico sorvegliare un unico sito piuttosto che diversi siti sparsi sull’intero territorio nazionale.

Le aree idonee a ospitare un sito simile che sono state individuate sul territorio italiano e successivamente incluse nella Carta elaborata dalla SOGIN sono sessantadue, esse sono state definite dall’ISPRA sulla base delle linee guida stabilite dall’AIEA, l’agenzia ONU per l’energia atomica.

In ambito tecnico e progettuale (ma non solo) c’è sempre stata una differenza di vedute riguardo al fatto se fosse meglio realizzare depositi del genere in superfice oppure interrarli. Va da sé che una struttura sotterranea risulta meglio protetta di una che invece si trova in superfice, ed è quindi esposta di più, tuttavia… «la gente ha paura di ciò che non vede», quindi per questa ragione i decisori politici hanno optato per la soluzione dello smaltimento superficiale.

Per altro, in Italia questo è previsto specificamente dalla legislazione statale vigente in materia, malgrado nel Paese fossero disponibili numerose cavità sotterranee risultate idonee a ospitare il deposito nazionale unico, quali grotte, cave dismesse e vecchie miniere.

La messa in massima sicurezza dei contenitori dei rifiuti

Oltre a tenere in debita considerazione il grado di antropizzazione delle zone considerate, quello della natura del terreno o della vicinanza al mare o a corsi d’acqua, tutte cause di esclusione ai fini della possibile futura realizzazione di un deposito nazionale unico, lo studio effettuato dalla SOGIN che ha portato all’elaborazione della Carta ha ovviamente preso in esame il fattore relativo al rischio sismico.

Infatti, sono stati vagliati mediante criteri scientifici tutti i punti del territorio nazionale sulla base della relativa massima accelerazione esercitata al suolo prevedibile nel caso si verificasse un terremoto.  Al riguardo, i criteri fissati dall’ISPRA rendono idonee quelle zone dove l’accelerazione al suolo non supera gli 0,02G.

Soltanto i quei luoghi verrebbero costruite le vasche di cemento armato all’interno delle quali si collocherebbero i contenitori protetti dei rifiuti radioattivi, anch’essi affogati nel cemento in maniera da renderli oltremodo immobili. Una volta riempite di contenitori le celle predisposte al loro accoglimento, anche queste sarebbero oggetto di una ulteriore colata di cemento in funzione bloccante.

Questi depositi verrebbero infine ricoperti di terra, con l’effetto di renderli esteriormente un rilievo dell’altezza al massimo di una decina di metri.

I potenziali vantaggi derivanti da un deposito nazionale unico

La superficie massima di un deposito nazionale unico di rifiuti radioattivi è stata fissata per legge in quindici ettari, oggi in Italia di appezzamenti di terreno rispondenti sia a tali misure che alla trentina di criteri inderogabili ai quali necessariamente fare riferimento per la realizzazione di strutture del genere ne sono stati individuati più di sessanta, quindi «la palla» adesso passa agli amministratori degli enti locali territoriali, che dovranno decidere se ospitarla o meno.

Essi dovranno tenere conto che un deposito sul proprio territorio comunale e regionale può costituire una fonte di ricchezza, poiché verrebbe accompagnato da non indifferenti finanziamenti pubblici (attualmente, per la dozzina di siti esistenti sono somme proporzionate alla radioattività emessa dai materiali depositati) oltreché da vantaggi sul piano occupazionale derivanti dalla creazione di un annesso centro di ricerca, un polo tecnologico associato al deposito dei rifiuti radioattivi.

È lì, infatti, che andrà fatta l’ultima lavorazione dei materiali radioattivi conferiti, un programma di attività connesso al sito di stoccaggio che avrà una durata di trecento anni, cioè fino a quando il materiale messo a dimora sarà decaduto dal punto di vista della radioattività.

A quel punto il deposito nazionale unico dei rifiuti radioattivi sarà diventato un monolito di cemento contenente pezzi di metallo, stracci e brandelli di tute a perdere in materiale plastico.

Allo scopo di approfondire ulteriormente questo argomento, insidertend.it ha interpellato il professor Alberto Clô. L’audio integrale dell’intervista (A299) è disponibile di seguito per l’ascolto sul sito web del nostro news aggregator.

A299 – NUCLEARE, DEPOSITO UNICO RIFIUTI RADIOATTIVI: UN ARGOMENTO CONTROVERSO. la SOGIN, società italiana già attiva nella costruzione di centrali nucleari e attualmente dedita al loro «decommissioning», ha reso nota la sua proposta relativa alla Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi.
La cosa, come prevedibile, ha suscitato polemiche di varia natura; insidertrend.it ne ha parlato con il professor ALBERTO CLÔ, docente di formazione cattolica vicino a Romano Prodi che fu membro del Consiglio di amministrazione dell’ENEA e che ricoprì la carica di ministro dell’Industria nell’esecutivo presieduto da Lamberto Dini.
Egli recentemente è intervenuto sulla materia dalle pagine de “l’Astrolabio”, la newsletter online dell’associazione ambientalista Amici della Terra, reclamando un urgente realizzazione di un sito dove mettere a dimora i materiali dismessi da trattare fino al loro esaurimento. Con lui insideretrend.it ha discusso delle responsabilità e alle inerzie della politica degli aspetti relativi a un’operazione di tale portata.
Condividi: