NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (2)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

Tutto si consumò in un attimo. La donna, che per decoro si era rivestita come se fosse dovuta uscire, li attese sulla porta di casa e quando le furono di fronte non diede il tempo di dire nulla a nessuno.

«È morto vero? Nevio è morto, lo so …dimmi la verità, cosa è successo?»

Ada pianse implorando il nome del fratello deceduto, allora Primo la abbracciò stringendola forte e carezzandole dolcemente il capo.

«Aduccia dobbiamo farci forza. Credimi, io ancora non mi capacito se stia vivendo un incubo o se sia tutto vero».

Tutti e quattro fecero ingresso nel piccolo appartamento. Una volta dentro, Zincone iniziò a esplorare discretamente il soggiorno dove quella pensionata trascorreva buona parte delle sue giornate. Si concentrò sulle fotografie appese alle pareti, poi diede un’occhiata alle suppellettili. Nel frattempo, mentre Primo era intento a consolare la propria sorella, Toffanin si accomodò sul divano e aprì la cartellina di cartone rigido serrata da un elastico, quindi ne estrasse alcuni fogli.

«Adesso ti faranno delle domande, disse Primo ad Ada, e tu dovrai rispondere. Prima lo farai e prima se ne andranno, così potremo restarcene in pace per conto nostro».

Con un fazzolettino di cotone ricamato ai bordi la donna asciugò dalle lacrime i suoi begli occhi azzurri, poi, ignorando completamente i due carabinieri, si rivolse nuovamente al fratello.

«Naturalmente tu resterai qui con me stanotte…»

Non si trattò di una richiesta, piuttosto un ordine, tuttavia lui rispose egualmente di sì. Fu soltanto allora che, con il tatto dovuto, i due sottufficiali della Sezione investigativa iniziarono a raccogliere le dichiarazioni della donna.

Ella apparve loro fredda e distaccata. Ebbero infatti l’impressione che il dramma che stava vivendo in quel momento fosse qualcosa di atteso, di previsto. Percepirono tutto questo dalla profondità del suo sguardo.

Zincone e Toffanin non ottennero molto dalla Calegaro, soltanto qualche dettaglio in più sulla personalità della vittima, cioè che Nevio non aveva stabilito legami affettivi con alcuna donna e che della sua famiglia gli erano rimasti esclusivamente Primo e Ada, con i quali, però, i rapporti non erano certamente assidui, poiché raramente incontrava il fratello e mai la sorella. Questa era la ragione per cui questi ultimi non si erano mai preoccupati delle sue frequenti e prolungate assenze da Spilimbergo. I carabinieri appresero anche che la vittima non si era mai occupata di politica e che, dopo aver svolto il servizio militare, per diretta intercessione di un sacerdote della sua parrocchia era stato assunto in una cava. Per questo aveva richiesto il porto d’armi. Infatti, Nevio possedeva un revolver calibro trentotto special e una semiautomatica Beretta, armi che portava con sé quando si recava in banca a versare gli incassi in contanti dell’azienda per la quale lavorava.

Terminato il colloquio, i carabinieri si congedarono dai Calegaro con delle frasi di circostanza. Si raccomandarono con loro di restare tranquilli e li preavvisarono di una prossima audizione in caserma, convocandoli per il mattino seguente presso l’obitorio di Pordenone per il formale riconoscimento del cadavere del fratello, quindi si avviarono verso l’uscio. Ma appena fuori dell’appartamento Zincone indugiò un istante sul pianerottolo e poi si rivolse ancora una volta ai due anziani.

«Perdonateci signori, ma vorremmo sapere un’ultima cosa e poi non vi disturberemo più…»

Primo annuì stancamente con un cenno del capo, attendendo inerte l’ennesima domanda.

«Addosso a vostro fratello è stato trovato un passaporto: vi risulta che viaggiasse spesso? E se sì, per dove?»

Ada rispose a mezza bocca al quesito posto dal sottufficiale.

«In Jugoslavia maresciallo …in Jugoslavia probabilmente».

Ottenuta l’informazione i carabinieri se ne andarono lasciando quei due vecchi da soli in quel piccolo appartamento con la loro tristezza. Ada preparò il giaciglio per la notte al fratello. Aprì il divano letto del soggiorno, poi dall’armadio della sua camera prese delle lenzuola profumate alla lavanda e una coperta di lana, disponendo tutto sulla rete. A quel punto si sedettero l’uno accanto all’altra.

«Eh, se don Verzotto fosse ancora tra noi – affermò Ada –, povero Nevio… gli abbiamo sempre chiesto più di quanto lui potesse davvero dare».

La frase della donna provocò l’irrigidimento di Primo, che replicò con severità.

«Dimenticalo don Verzotto! Don Verzotto non c’è più… è chiaro Ada!?! E noialtri siamo abbastanza grandi per farcela da soli».

Altri minuti trascorsero nel silenzio più totale. Rimasero ancora un poco abbracciati sul divano letto, ma a un certo punto Primo non poté fare a meno di chiederle una cosa.

«Dimmi la verità Ada: ma tu non ne sapevi veramente niente di cosa andasse a fare di là in Jugoslavia? Intendo dire oltre alle ragazze… non so se mi spiego!?! Ti è mai parso che potesse essersi infilato in qualche guaio? In qualcosa più grande di lui?»

L’anziana donna si strofinò gli occhi con le mani, quindi poggiò adagio sullo schienale della sedia a dondolo lo scialle antracite col quale fino a quel momento si era rivestita le spalle.

«Mi aspettavo una domanda del genere da te, sai… – rispose – lo sai bene che con lui non parlavo quasi mai, figuriamoci se quello veniva a raccontarmi i fatti suoi. Che andasse a troie… beh, senti, non c’era certo bisogno di chiederglielo, visto che lo sapeva tutta Spilimbergo cosa facesse con le slave. Anche se credo che con noi provasse ancora un fondo di vergogna per la vita disordinata che conduceva».

  

IV

Tra gli amici del circolo la notizia della morte di Nevio Calegaro piombò improvvisa come un macigno.

Al tavolo dell’osteria di Via Umberto Primo, loro abituale luogo di ritrovo, fino a quel momento la discussione si era incardinata sul tema della prossima attesissima attività conviviale: la gara di pesca prevista per la domenica seguente al bacino artificiale Tramont, una competizione aperta anche ai non soci alla quale si era deciso di abbinare una prova di “riconoscimento vini”.

Quella sera da Afro c’erano tutti: Deganutti, Marsanich e Liut, inoltre era atteso anche Simeone, che di lì a poco, una volta chiusa la bottega in Piazza Borgolucido, li avrebbe raggiunti.

Negli ultimi tempi quegli incontri si erano andati facendo sempre più frequenti: si incontravano all’osteria e tra un bianco e l’altro discutevano di pesca e di volontariato. L’età media dei soci era attorno ai cinquant’anni, tutte persone molto partecipi e alla ricerca di un rifugio dove trascorrere alcune ore lontani dalle mogli. A parte le gare in bacino, le attività del circolo erano molteplici. Esse spaziavano dai turni di guardiapesca lungo i fiumi e i torrenti, alla semina e al controllo della risalita delle trote nelle rogge. Poi c’erano le emergenze, come quella del micidiale gambero rosso del Missouri, che, complice il graduale riscaldamento delle acque, era arrivato fino in Friuli e aveva iniziato a fare strage della fauna ittica locale. Infine c’erano le attività conviviali, cioè adunate, gare di pesca, grigliate e soprattutto cene periodiche, tutte occasioni nelle quali si faceva il punto sugli organi associativi, sui finanziamenti regionali e sulle condizioni in cui versavano le vecchie utilitarie a trazione integrale utilizzate per il controllo dei corsi d’acqua.

Al secondo bicchiere di merlot la discussione entrò nel merito. Livio Deganutti, un pensionato che aveva lavorato nelle acciaierie Danieli, come sempre sentenziò con la sua abituale prosopopea.

«Guardate, qua è inutile stare a perder tempo, perché se gli Alpini faranno il loro raduno, e vedrete che lo faranno …figuratevi se quelli perdono un’occasione, sarà meglio rinviare la gara, grigliata compresa, perché da noi non ci verrà proprio nessuno».

Effettivamente, le date della gara di pesca e del raduno delle penne nere a Spilimbergo coincidevano, e il rischio che un buon numero di potenziali partecipanti disertasse il convivio al bacino Tramont era concreto, infatti numerosi soci del circolo della pesca erano anche iscritti all’associazione d’Arma. Si sarebbe dovuto ovviare in fretta al problema, anche perché i manifestini dell’evento erano già stati fatti stampare dalla tipografia e qualcuno era addirittura stato affisso nei locali pubblici della cittadina. Senza contare poi, che gli Alpini si sarebbero radunati in un ristorante del centro di Spilimbergo, mentre la gara di pesca e la grigliata avrebbero avuto luogo fuori città, in una tensostruttura all’aperto che avrebbe offerto riparo in caso di tempo cattivo. Deganutti, che se la tirava sempre un po’ col suo piglio da capetto, egemonizzò il gruppo trascinando la discussione verso la ricerca di un responsabile sul quale scaricare le colpe dell’eventuale insuccesso.

«L’avevo detto io di aspettare a stampare, adesso che ci facciamo con tutti quei manifesti che abbiamo fatto fare? Carta da cesso è diventata, altro che!»

In breve si scatenò un acceso confronto che vide il Deganutti assumere il ruolo del mattatore. L’uomo iniziò a straparlare e a impartire disposizioni agli altri, poi alla fine, come al solito, si inalberò divenendo paonazzo in volto. L’ex dipendente delle acciaierie era una persona a tratti sgradevole, incline a scivolare facilmente nella volgarità e sempre tendente a prevaricare i suoi interlocutori. Era un comportamento che, però, si poteva permettere soltanto quando non c’era il Nevio, dato che mai e poi mai quest’ultimo si sarebbe fatto mettere i piedi in testa da uno come lui. Col più giovane dei Calegaro non si scherzava mica, poiché era uno svelto di mani, e se gli giravano i coglioni non ci pensava due volte a passare alle vie di fatto.

Nevio era una brava persona, ma con la fama di “duro”. Negli ultimi tempi con quelli del circolo si era allargato un po’ troppo e aveva rivelato alcuni particolari della propria vita privata. Alcuni avevano ritenuto che i suoi racconti fossero esagerati, frutto delle fantasie di un vecchio malato di protagonismo che si vantava dei flirt mercenari consumati oltrefrontiera quando andava a giocare al casinò. Aveva preso a fare il galletto, raccontando a tutti nei minimi particolari le sue avventure sessuali, rendendosi a volte persino ridicolo. Tuttavia, non aveva mancato di suscitare fra i suoi conoscenti anche una certa dose di invidia. In ogni caso a Spilimbergo non era un segreto per nessuno che se la facesse con le puttane.

«Le ucraine – amava vantarsi – sono delle strafighe: con cinquanta carte te le trombi in camera e ti danno pure il culo. Hanno certe gambe …altro che ste’ quattro contadine magnamerda a cottimo di qua!»

Tendeva a esagerare, però gli amici del circolo restavano lo stesso ad ascoltare interessati le sue affabulazioni triviali. Si trattava delle stesse persone che poi alle sue spalle non perdevano occasione per infilzarlo con le loro velenose frecciate.

«Sì sì, vedrai come finirai vecchio porco – si bisbigliavano acrimoniosi l’un l’altro – vedrai se quelle troie di slave oltre all’uccello e al portafogli non ti succhieranno pure l’anima prima o poi».

Le medesime persone che, appresa la notizia della sua morte in circostanze così tragiche, provarono una sottile indicibile soddisfazione. Dopo la scoperta del suo cadavere, il sincero dolore dei pochi veri amici si fuse alle dicerie degli untori di provincia, che associarono subito quella fine violenta alla disordinata condotta di vita dell’uomo negli ultimi anni.

A un tratto la porta a vetri dell’osteria si aprì e Simeone Treppo venne preceduto da una folata di vento gelido. Il commerciante di scarpe raggiunse gli amici al tavolo in fondo alla sala.

«Ma dove vi siete messi? – esclamò – Già che c’eravate potevate accomodarvi dentro al cesso la dietro!»

Marsanich gli fece spazio e Simeone si sedette. In quel mentre, rapidissima, sopraggiunse la cameriera a chiedergli se voleva mangiare. Simeone rispose di no, ma ordinò un bicchiere di merlot, poi con la mano prese una patatina fritta dal piccolo vassoio di ceramica che era davanti a Genesio Liut e questi, per scherzare, simulò una reazione malmostosa al gesto dell’amico.

«Dì, cos’è …non le hai vendute le ciabatte oggi? Perché non te le comperi le patatine invece di scroccare!?! Guarda che questa non è mica la Caritas diocesana sai».

Simeone non diede seguito al siparietto e preferì inserirsi nel vociare chiassoso del gruppo sovrastandone il clamore.

«Avete saputo del Nevio? Che tragedia, mamma mia …non è che adesso i carabinieri vorranno sentire pure noi?»

Deganutti appoggiò con dolcezza il suo bicchiere sulla tavola e abbozzò una risposta a quell’interrogativo. Fino ad allora avevano esorcizzato l’argomento sorvolandoci sopra, però nonostante tutto quel brutto presentimento continuava ad aleggiare sulle loro teste.

«Eeeh… possibile, possibile. Può darsi che ci chiamino per interrogarci visto che eravamo suoi amici. Ci chiederanno delle sue storie con le puttane e di quello che andava raccontando in giro».

La cameriera portò il bicchiere di merlot a Simeone e lui, ripensandoci su, le chiese di portargli anche una fettina di pane con lo speck allo scopo di accompagnare meglio il vino. Sul gruppo di amici calò il silenzio, i loro sguardi si incrociarono sgomenti fino a quando Deganutti riprese a pontificare sull’universo mondo, passando senza neppure farci caso dalla discussione su Calegaro a quella sulla gara di pesca.

«Oramai rinviare non vale più la pena – affermò poi Liut – facciamola e tanti saluti! Ci varrà da lezione per la prossima volta. Allora Marsanich, al pranzo pensi tu?»

Marsanich annuì con sicumera. In questo campo ci sapeva fare, questo genere di grigliate le organizzava anche per conto di altre associazioni, dunque non avrebbe avuto problemi nel preparare il tutto.

«Allora signori miei, io direi di fare solo la carne, così passiamo direttamente al secondo e ai contorni: punto e basta. Perché se ci mettiamo a fare la pasta, a parte il fatto che ci vuole l’acqua e tutto il resto, poi il tempo che la gente finisce la gara, prende il piatto e si siede al suo posto, la pasta è bella che andata. Si scuoce e alla fine tutti vengono a romperci i maroni… fanno il piagnisteo e come al solito criticano l’organizzazione».

Marsanich non aveva tutti i torti, però Bovoletto si intromise esprimendo scarsa convinzione riguardo all’eliminazione della prima portata.

«Tu pensi proprio che quelli poi la pasta non la vorranno? Ma lo sai che la gente vuole riempirsi la pancia …ce la facciamo a saziarli solo con la carne e il contorno?»

Marsanich replicò secco.

«Guarda che alla fine della fiera si tratta di tre o quattro etti di spiedini a testa, eppoi ci sono anche i fagioli, il pane e tutto il resto: cosa vuoi che si mangino questi!?!»

Se sul cibo permanevano ancora delle divergenze, sui vini l’accordo fu completo: avrebbero comperato al supermercato le solite damigiane da cinque litri di merlot. Invece, riguardo alla gara a premi l’orientamento del gruppo oscillò. Deganutti ritenne che si sarebbero dovuti assegnare dei trofei, delle coppe e delle targhe commemorative, mentre per la prova del “riconoscimento vini” ai vincitori sarebbero state assegnate delle bottiglie di vino dello stesso tipo di quelle appena riconosciute. Se un concorrente della categoria “bianchi” riconosceva quel particolare tocai di quella particolare annata riceveva in premio una bottiglia di tocai di quella stessa annata.

La gara dei riconoscimenti sarebbe servita a ravvivare l’ambiente. I partecipanti avrebbero degustato tre diversi bicchieri di vino versati da bottiglie con l’etichetta coperta, cercando poi di indovinarne l’esatta denominazione ed eventualmente l’annata di produzione. A rendere allegra l’atmosfera ci avrebbe pensato Genesio Liut con la sua fisarmonica, suonando ai convenuti l’intero repertorio del Trio Pakaj. Lo conosceva praticamente a memoria e, dopo aver bevuto “qualcosina” di più di un paio di bicchieri, era in grado di suonarlo di filato per un’ora. Insomma, sarebbe valsa proprio la pena di fare questa gara, nonostante le previsione meteorologiche per il fine settimana fossero incerte e, soprattutto, che la tragica morte di Nevio avesse funestato il clima.

  

V

Addosso al cadavere non era stato rinvenuto alcun cellulare, ma per i carabinieri non fu difficile accertarsi se la vittima ne avesse posseduto uno. Risalire a quel numero di utenza era uno dei passi preliminari dell’indagine, perché avrebbe consentito l’esame del traffico telefonico attraverso la visione dei tabulati forniti dal gestore. Dalle chiamate effettuate o ricevute si sarebbero potuti acquisire elementi utili.

E infatti fu così, dato che emerse che nei suoi ultimi giorni di vita Nevio Calegaro aveva ripetutamente contattato due utenze, una italiana e una croata, dalle quali aveva in seguito ricevuto alcune chiamate. La rapida verifica delle celle alle quali la scheda si era andata agganciando fornì un possibile quadro degli spostamenti della vittima: da Spilimbergo a Villesse, località nei pressi di Gorizia e non lontano da Trieste. Poi però, a un certo punto l’apparecchio non aveva più né chiamato né ricevuto e dalla tarda mattinata del venerdì precedente se ne erano addirittura perse le tracce elettroniche.

Un buco nero tra il momento della presunta presenza a Villesse e quello dell’assassinio sul greto del Meduna.

Inoltre, non era ancora stata ritrovata la sua autovettura, il mezzo col quale presumibilmente si era spostato dalla destra Tagliamento al goriziano. Mediante una serie di semplici incroci dei dati ricavati dai tabulati i periti furono in grado di formulare una prima ipotesi: con ogni probabilità, tre giorni prima di essere ucciso Calegaro si era incontrato col possessore del cellulare nel quale era inserita la scheda del gestore italiano, dato che alle dieci e quarantasette del venerdì i due apparecchi avevano comunicato per oltre quaranta secondi all’interno della stessa cella, quella di Villesse, dunque a breve distanza fra loro.

Un possibile incontro nei pressi del casello autostradale dell’A4? Durante la marcia in auto, non trovando il luogo preciso stabilito in precedenza per l’appuntamento, Calegaro si sarebbe sentito col suo interlocutore per ottenere indicazioni maggiormente dettagliate chiamandolo al cellulare.

A partire dal periodo immediatamente successivo agli attentati compiuti dai terroristi nel marzo del 2004 a Londra e Madrid, nel corso delle indagini criminali vengono tenute in considerazione non solo le registrazioni delle chiamate seguite da una risposta, ma anche quelle apparentemente andate a vuoto. Infatti, in quelle tragiche circostanze furono proprio delle chiamate effettuate verso telefoni cellulari trasformati dagli jihadisti in inneschi a far esplodere a distanza gli ordigni. Una procedura che venne seguita anche nel caso dell’omicidio del Meduna, dove però l’aspetto rilevante correlato alle chiamate a vuoto risultava essere la notevole frequenza con la quale la vittima, il venerdì mattina prima della sua morte, aveva contattato quel cellulare. Un telefono risultato intestato a un’anziana donna di Trieste, tale Rosina Sancin. I carabinieri non erano però ancora in possesso delle intestazioni relative all’altra utenza mobile, poiché per conoscere quella croata gli sarebbe occorso altro tempo. Comunque, per il momento già il nome di quella donna costituiva pur sempre un punto di partenza.

Rosina Sancin, vedova Kovacich, era nata ottantadue anni prima a Orsera, un paese dell’Istria attualmente in territorio croato, e risiedeva da tempo in un piccolo appartamento in via del Pane Bianco, nel popolare rione triestino di Servola.

Si era trasferita nel capoluogo giuliano insieme alla sua famiglia nel 1947, seguendo il triste destino dei profughi italiani in fuga dalla Jugoslavia. A Trieste si era poi sposata e aveva dato alla luce tre figli, due femmine e un maschio. A suo carico non risultarono precedenti penali, l’unica macchia emersa dall’archivio fu una vecchia denuncia per furto aggravato sporta nei suoi confronti molti anni addietro, un procedimento giudiziario risalente alla metà degli anni Sessanta che si era chiuso con l’estinzione del reato per effetto di un’amnistia intervenuta prima del processo.

Era stato il suo cognome da coniugata, però, a richiamare l’attenzione degli uomini della Sezione investigativa. Kovacich era un nominativo conosciuto, dato che il figlio dell’anziana donna, Miro Kovacich, risultava essere un pregiudicato.

Dunque, nulla escludeva che potesse essere stato lui l’usuario della scheda SIM intestata a sua madre. Quel venerdì Calegaro aveva chiamato due volte il numero della Sancin: la prima volta alle nove e mezza, quando si trovava dalle parti di Palmanova, la seconda alle dieci e tre quarti da Villesse. Non risultarono, invece, chiamate in uscita dall’apparecchio dell’anziana verso quello di Calegaro, mentre invece quest’ultimo era stato contattato una volta dall’usuario della scheda croata e ben tre volte da un telefonino rubato nel quale risultava inserita una scheda SIM intestata a Italo Brigadin, un cinquantatreenne senza fissa dimora e col cervello bruciato dall’alcool che si trovava ricoverato all’ospedale di Cattinara da un mese.

Evidentemente, in precedenza, per quattro soldi il Brigadin si era prestato a fare da prestanome a qualcuno, ma permaneva in ogni caso l’interrogativo se fossero stati gli assassini ad aver chiamato la vittima prima dell’omicidio servendosi della scheda a lui intestata. Le celle telefoniche agganciate quella mattina dalle schede SIM di Brigadin e della Sancin formavano dei tragitti coincidenti: dal centro di Trieste verso Villesse per poi piegare indietro fino a Villa Opicina.

Un aspetto però non convinceva gli investigatori: se Kovacich avesse realmente avuto a che fare con l’omicidio di Calegaro, perché poco prima della sua esecuzione avrebbe usato l’apparecchio della madre per chiamarlo? Sarebbe stata una gravissima  leggerezza, una cosa oltremodo strana anche per un balordo della sua risma.

Miro Kovacich era noto all’Ufficio in quanto piccolo spacciatore di periferia, un malavitoso di mezza tacca attivo a cavallo del confine, tra l’altopiano e la Slovenia.

A un certo punto, alcuni anni prima, nel sottobosco criminale della città giuliana iniziò a circolare la voce che avesse stabilito dei legami con non ben precisate organizzazioni operanti sulla costa dalmata. Comunque restava pur sempre una figura di secondo piano, uno con alle spalle piccoli precedenti per spaccio e la cattiva fama di confidente della polizia. Che fosse un “infame” a Trieste lo sospettavano in molti, dal tempo in cui tentò, per la verità con scarso successo, di infiltrarsi nell’estrema destra e negli ultras alabardati. Era stata un’idea della DIGOS, di cui Kovacich era effettivamente un informatore, che aveva pensato di penetrare i gruppuscoli neofascisti della città facendo leva sulla leggenda della partecipazione del pusher di Servola ai combattimenti nella ex Jugoslavia. Un argomento ritenuto sensibile in quegli ambienti, dove effettivamente Kovacich tentò di accreditarsi costruendosi ad arte un’immagine di reduce dai fronti balcanici.

Allo scopo ostentò delle sue presunte capacità nell’uso delle armi da fuoco, ma la cosa non funzionò e ben presto quelli che era riuscito ad avvicinare iniziarono a sospettare di lui. Anche ai meno smaliziati ci volle poco per capire che le sue chiacchiere erano solo millanterie, malgrado il fatto che allo scoppio della guerra il pregiudicato si era veramente arruolato in una milizia paramilitare croata. Compresero che stava recitando, poiché in realtà della guerra non possedeva che conoscenze superficiali e incomplete. Inoltre “puzzava” anche perché nel momento in cui croati, serbi e musulmani si scannavano a due ore di macchina da Trieste, lui in città aveva contatti con tutti, senza avere il minimo problema.

A quel tempo lo si era visto frequentare i luoghi di abituale ritrovo della comunità serba, come piazza Garibaldi o la chiesa San Spiridione, dove aveva avuto spesso incontri con il pope ortodosso del tempio, Ivić. I carabinieri furono indotti da questo a ritenere che svolgesse occasionalmente il ruolo di tramite fra la gang croata alla quale faceva riferimento e i referenti dei servizi segreti jugo-serbi attivi nella città giuliana.

Magro, di statura elevata e con i capelli lunghi e lisci, da mesi girava per la città a bordo di un grosso suv. Negli ultimi tempi aveva in parte mutato il suo aspetto esteriore, in lui si notava una maggiore cura della persona, inoltre vestiva meglio e gli abiti eleganti che indossava avevano contribuito a modificare la sua precedente immagine di pusher tossicofilo. Una metamorfosi che era anche indice di una maggiore disponibilità di denaro. Probabilmente coi croati aveva fatto i soldi.

In attesa di ulteriori riscontri sulla sua posizione, il giudice per le indagini preliminari non lo iscrisse ancora nel registro degli indagati, però lo avrebbero dovuto assolutamente rintracciare e interrogare al più presto. Gli investigatori ritennero di aver imboccato la pista giusta. Adesso stava per cominciare una lunga serie di interrogatori. A cominciare da quelli degli ermetici parenti chiusi nel dolore, fino a coloro i quali, per una ragione o per l’altra, la notte dell’omicidio si erano trovati dalle parti di Tauriano.

Il rapporto indiziario redatto da Zincone, passato già alla firma del capitano Cadrella, suo diretto superiore alla Sezione investigativa, stava per essere consegnato nelle mani del comandante del Reparto Operativo di Pordenone, il colonnello Egidio Borlacco. In esso erano contenuti i rilievi e le richieste di informazioni sul Kovacich. Vistandolo, Borlacco ne permise la successiva trasmissione alla Procura della Repubblica.

Salito al piano di sopra, il maresciallo aiutante bussò alla porta dell’ufficiale chiedendo il permesso di entrare nella stanza.

«Permesso? Comandi signor colonnello! La disturbo? Guardi, è per l’omicidio Calegaro…»

Borlacco era seduto alla scrivania. Dietro di lui, attaccati alla parete alle sue spalle, equidistantemente appesi pendevano i crest delle unità dove aveva prestato servizio durante la carriera. Il colonnello era concentrato su alcuni fogli dattiloscritti, stava leggendo attentamente un rapporto ricevuto pochi minuti prima. Senza alzare gli occhi dalle carte, con un cenno della mano autorizzò l’ingresso di Zincone.

«Venga, venga, si accomodi pure. Lo so, è per quella storia del Meduna, ne ho parlato proprio poc’anzi col suo capitano… beh, allora? A che punto siete?»

Zincone fece per avvicinarsi alla scrivania, ma Borlacco lo bloccò con una frase.

«Sì, sì, quel pregiudicato triestino …pensi un po’, era pure un confidente del grande avversario: proprio un bel tipo quello lì, il mercenario ustascia dei miei collioni!»

Il sottufficiale restò ammutolito. Dopo una breve pausa il colonnello riprese subito a parlare.

«Ne sono al corrente perché ho dato anch’io un’occhiata ai tabulati telefonici, me ne sono fatto dare una copia da Cadrella. Vabbè, il triestino potrebbe anche essere una buona pista, ma c’è una novità della quale voi non siete ancora al corrente».

Udite queste parole Zincone raggelò. Sentì scivolarsi via di dosso tutto l’ottimismo che fino ad allora lo aveva permeato, corroborandolo nella fase terminale di quel massacrante turno di servizio che si protraeva ininterrottamente dalla sera precedente.

«Perché signor comandante – balbettò – …mo’ che è successo?»

Finalmente Borlacco alzò gli occhi dai verbali che stava esaminando e guardò fisso in volto Zincone.

«Zincò – gli disse – e allora che fa? Resta all’inpiedi?!? E si sieda, su! Che aspetta? Mica stiamo alla scuola allievi qua».

Il maresciallo si afflosciò su una delle poltrone di fronte alla scrivania, quella che era rimasta vuota, perché l’altra era occupata da un silente capitano Cadrella, che, fulmineo, aveva preceduto il suo sottoposto nell’ufficio del comandante. Ora entrambi pendevano dalle labbra di quest’ultimo.

«Naturalmente bisogna sentire cosa stabilisce la piemme, perché se quella decide di metterci tra le palle la Mobile qui cambia tutto e pure stavolta ci tocca andare “in doppia”. Voi comunque proseguite con questo stronzo di Kovacich, però io vi consiglierei di non correre troppo, almeno per le prossime ore. Guardate che la Polfer ha fermato un marocchino con addosso il telefonino e la carta d’identità del morto. L’hanno beccato per caso… anzi, diciamocelo: a quelli gli è cascato tra le mani. Adesso bisogna capire chi cazzo è sto’ marocchino e se è veramente stronzo oppure “ci fa”, cioè se qualcuno ce l’ha mandato apposta. Sbrigarsi Zincone, sbrigarsi! La stampa rompe i collioni, già stanno qua fuori quelli. Non gli pare vero. Già me la immagino quella scassacazzi della Maritan: “Dobbiamo fare sistema colonnello, questa è una piccola realtà di provincia, fare sistema…” No, no, no ragazzi, assolutamente no. Allora: sentite immediatamente tutti quelli che hanno avuto a che fare con il Kovacich e coi suoi amici croati. Se poi sono veramente croati.. perché io, guardate …due proprio no, tutti e due i collioni non me li gioco, ma uno certamente sì, che sto’ stronzo di marocchino ce lo troviamo sul mattinale della questura in bella posta. Vedrete e mi saprete dire. E non vorrei che poi qua si impantanasse tutto».

Poggiato il piccolo faldone del caso Calegaro sulle altre carte che nel tempo si erano andate accumulando sulla scrivania del colonnello, Zincone si congedò dal suo superiore. Ci mancavano pure i polferini col marocchino adesso, pensò sconsolato mentre insieme al capitano Cadrella discendeva i gradini delle scale per fare ritorno al piano di sotto dove lo stava aspettando Toffanin.

Avrebbe dovuto smontare, invece si metteva proprio male. Alla Sezione erano in quindici, di cui tre fissi tra le intercettazioni e la strada. Tre erano anche le autovetture di servizio, che certe volte neanche si mettevano in moto, infine c’era la fotocopiatrice perennemente senza toner in condomino con tutto il piano. Per di più, tanto per non farsi mancare nulla, l’indomani si sarebbero dovuti occupare anche del riconoscimento della vittima all’obitorio.

Rientrato nella sua stanza, Zincone venne improvvisamente colto da un insostenibile bisogno di dormire. Senza proferire una parola si sedette sulla sua poltroncina e appoggiò la testa tra i faldoni sulla scrivania. Il sonno lo colse in un attimo.

  

VI

Primo era un tipo mattiniero. Si destava abitualmente alle sei, poi con estrema regolarità consumava la colazione, si radeva il viso e si faceva la doccia. Usciva sempre presto di casa per comprare il giornale all’edicola di Corso Roma e, una volta in centro, sorseggiava un caffè espresso al bar. Ma quella grigia giornata che stava iniziando era completamente diversa dalle altre, poiché si svegliò intorpidito in casa della sorella.

Per lui quelle poche ore di sonno trascorse nel soggiorno di Ada erano state il rifugio dove si era immerso per rimuovere temporaneamente il dolore. Un sollievo effimero destinato a cessare con le prime luci dell’alba, quando avrebbe nuovamente avvertito dentro di sé un grande senso di vuoto. Spinto come da una forza d’inerzia, a fatica compì i gesti della sua quotidianità: lavarsi, vestirsi e mangiare qualcosa.

Si interrogò per l’ennesima volta sulle possibili cause di quella tragedia. Cercò di scavare nel profondo della sua memoria nel tentativo di far emergere dai ricordi sbiaditi dagli anni qualcosa del passato di Nevio che avesse un nesso col suo omicidio.

Seduto sul bordo del divano letto col capo raccolto fra le mani udì il trillo della sveglia provenire dalla camera di Ada. Dopo poco la sorella lo raggiunse in soggiorno. L’anziana donna era ancora in camicia da notte e portava i lunghi capelli grigi sciolti sulle spalle a ricoprirgli la schiena. Alzatosi in piedi, le si fece incontro e la avvolse nello scialle scuro che era rimasto appoggiato dalla sera precedente su una delle poltrone. Era sempre stato molto protettivo nei riguardi di Ada.

Insieme consumarono velocemente una frugale prima colazione. Nessuno dei due aveva voglia di mangiare, ma misero comunque qualcosa di caldo nello stomaco. In pochissimo tempo furono pronti per uscire: si sarebbero recati a Pordenone in treno.

In strada veniva giù una pioggerellina leggera e fitta che infradiciava tutti coloro che, per pigrizia o per stoltezza, se ne andavano in giro senza ombrello. Raggiunsero a piedi la stazione ferroviaria. L’interregionale diretto a Mestre era atteso al binario entro dieci minuti. Sui marciapiedi c’erano alcuni pendolari e un gruppetto di studenti appena scesi dal treno locale giunto da Cividale. Non appena il loro convoglio arrestò la marcia sui binari, Primo e Ada si infilarono repentinamente in una delle carrozze. Dopo circa tre quarti d’ora di viaggio arrivarono a Pordenone. Lei non tornava in quella città da anni e, una volta fuori dalla stazione, si rese conto che non era poi così diversa da come se la ricordava. Salirono a bordo di un taxi fermo in attesa di clienti sul piazzale. Primo si rivolse all’autista.

«Ci porti all’ospedale per piacere».

Il taxista avviò il motore e partì. Durante il breve tragitto fino all’ospedale rimasero tutti in silenzio, l’unica voce che si udì all’interno dell’abitacolo fu quella della signorina della centrale radio della cooperativa autopubbliche, diffusa dagli amplificatori fissati alle portiere.

Arrivati a destinazione, ancora prima di scendere dalla vettura, riconobbero attraverso i finestrini uno dei due carabinieri che il giorno prima gli avevano comunicato la notizia della scomparsa di Nevio. Il militare li stava attendendo di fronte al complesso ospedaliero di Via Montereale. Si trattava del più giovane dei due, quello che si era espresso in un italiano venato da una marcata inflessione dialettale veneta.

Silvano Toffanin aveva trentaquattro anni. Era nato in un piccolo centro agricolo del veronese. Di famiglia contadina, da ragazzino quando non andava a scuola lavorava nei campi con i genitori. Robusto nel fisico e gentile nei modi, si appassionava alle cose con intelligenza manifestando sempre grande curiosità. Tuttavia non era andato oltre la terza media, poiché aveva deciso di andare subito a lavorare. Una volta maggiorenne si era arruolato nell’Arma e dopo alcuni anni si era sposato con la sua fidanzata, una bella ragazza di Caorle dalla quale aveva avuto Giada, una bimba diversamente abile affetta da sindrome di Dawn che adesso aveva sette anni. Un handicap, quello della figlia, che aveva accentuato la sua sensibilità.

Veduti sopraggiungere i Calegaro, il vicebrigadiere gli andò incontro e li invitò a entrare nella morgue facendogli strada.

Era un luogo che conosceva perfettamente. Seppure i casi di omicidio verificatisi a Pordenone fossero pochi, gli capitava egualmente di andarci per via dei riconoscimenti connessi con altri tipi di morte violenta.

Fecero ingresso in una stanza con la serranda dell’unica finestra quasi completamente abbassata. Toffanin saluto il collega della Polizia di Stato in servizio quel giorno all’obitorio e gli comunicò a bassa voce il nominativo del cadavere che le due persone che accompagnava avrebbero dovuto riconoscere.

«Calegaro Nevio, il cadavere è a disposizione dell’Autorità giudiziaria. Sai, il caso di omicidio volontario di due giorni fa».

«Come no – replicò il poliziotto – è quello che hanno portato ieri».

Primo e Ada, in disparte, osservarono i due che interloquivano tra loro, poi, una volta finito di parlare con Toffanin, il poliziotto li chiamò entrambi.

«Si tratta solo di una rapida formalità, faremo presto. Cortesemente dovreste declinarmi le vostre generalità, quindi procederemo al riconoscimento».

Nome, cognome, data di nascita, residenza: tutto verbalizzato pigiando con le dita sulla tastiera di un vecchio computer. Poi i fogli del verbale fuoriusciti lentamente dalla stampante vennero fatti firmare ai parenti della vittima. A questo punto, i due anziani vennero condotti nella stanza adiacente, un camerone disadorno con le pareti rivestite da piastrelle di ceramica biancastre. Subito dopo, da una porta laterale un portantino spinse la barella col corpo di Nevio al centro di quell’ambiente tetro.

Era avvolto in un telo bianco che gli lasciava scoperto soltanto il volto. La regione occipitale del cranio, devastata dal proiettile, poggiava su una federa di cotone ripiegata più volte al fine di mantenere rialzato il capo. Sulla fronte, accuratamente ripulita dai residui ematici, risultava evidente il foro di ingresso dell’ogiva.

Per quei due vecchi fu una forte emozione. Alla vista del fratello morto Ada impallidì. Si mantenne in piedi a stento cercando di resistere il più a lungo possibile al montante senso di nausea. Ma non ce la fece, e allora dovette sorreggersi al braccio di Primo. Gli chiese di accompagnarla fuori. Mentre si allontanavano il portantino ricoprì il volto di Nevio con un lembo del lenzuolo, quindi con un piccolo sforzo trasse a sé la barella e la riportò nel locale delle celle frigorifere.

Ad Ada venne offerto un bicchiere d’acqua, ma lei lo rifiutò. Voleva andare subito via da quel brutto posto impregnato da un insopportabile odore di disinfettante.

Era lui, Calegaro Nevio, di anni sessantotto: tutto era compiuto e poterono uscire. Primo si intrattenne un ultimo istante per chiedere a Toffanin quando avrebbero potuto celebrare il funerale. Il vicebrigadiere gli rispose che per il nulla osta del magistrato avrebbero dovuto attendere ancora qualche giorno, bisognava fare ancora l’autopsia.

Fuori dall’ospedale la vita di tutti i giorni proseguiva normale. Ada, provata da quella sgradevole esperienza, vide i pordenonesi indaffarati nelle loro attività quotidiane che camminavano per Via Montereale.

Insistette per tornare a casa da sola, ma Primo quasi si arrabbiò. Tuttavia non ci fu nulla da fare, poiché a prevalere fu l’ostinazione dell’anziana donna. Quindi lui l’accompagnò fino alla stazione e attese che salisse sul treno per Udine, poi se ne tornò a Spilimbergo in corriera.

Anche stavolta non erano molti i posti a sedere liberi. Si era fatta l’ora di punta e gli studenti delle scuole superiori avevano riempito gli autobus per tornarsene a casa. Il vecchio Calegaro si sedette sulla prima poltroncina disponibile che trovò. Avrebbe voluto bersi un bicchiere di vino. A casa proprio non voleva andarci, aveva bisogno di restare in mezzo alla gente.

  

VII

Mahmoud Jaffna, cittadino extracomunitario di nazionalità marocchina, aveva fatto ingresso illegalmente in territorio italiano. L’anno prima lo avevano fermato e ai sensi della legge gli era stato notificato l’ordine di abbandono del Paese entro quindici giorni.

Si trattava di una disposizione cogente per modo di dire, visto che quasi mai gli stranieri irregolari che la ricevevano poi la rispettavano. E così, anche Jaffna era rimasto in Italia, seguendo i destini di tanti altri immigrati clandestini, cioè accentuando quei profili di illegalità che già caratterizzavano la sua posizione. Escluso dall’ultima sanatoria, aveva comunque cercato lavoro presso un viticoltore ma invano, quindi aveva prestato saltuariamente la sua opera come bracciante presso alcune aziende agricole della provincia di Treviso, però anche qui, privo di permesso di soggiorno, non era riuscito a stabilizzarsi.

Con l’arrivò della crisi economica dall’oggi al domani si era trovato in mezzo a una strada e senza un tetto sulla testa. Ben presto la disperazione, unita alla lusinga dei facili guadagni, lo aveva indotto a mettere da parte ogni scrupolo residuo e a iniziare a spacciare droga, per lo più hashish. A volte gli capitava anche di ricettare degli oggetti rubati, avvitandosi ulteriormente nel vortice della sua misera esistenza vissuta di espedienti.

Anche quella carta d’identità e il telefono cellulare li aveva ricettati. Un suo conoscente li aveva sottratti dalla tasca della vittima mentre si trovava alla cassa del tabacchino a pagare le sigarette. Nevio Calegaro non aveva avuto il tempo denunciarne il furto. Quella carta d’identità era un documento valido per l’espatrio che se adeguatamente contraffatto si poteva adattare anche a un’altra persona.

«Un documento si vende sempre», gli aveva confidato il suo complice e Jaffna sperava di darlo via velocemente, cercando al contempo di accreditarsi anche come malavitoso agli occhi degli acquirenti.

Sapeva già a chi rivolgersi: avrebbe fatto la proposta a degli egiziani che a Mestre trafficavano coi permessi di soggiorno falsi e i documenti rubati. Jaffna aveva approfittato del fatto che il suo amico borseggiatore non aveva i canali giusti per piazzarlo e si era offerto come intermediario proponendo personalmente l’affare agli egiziani. Avrebbero diviso a metà, ma solo lui avrebbe mantenuto i contatti con la banda, lasciando fuori l’amico. Quelli di Mestre erano referenti sicuri, una famiglia che gestiva un buffet non lontano dalla stazione, punto d’incontro abituale per molti nordafricani, gente in massima parte all’oscuro delle attività illegali che avevano luogo sotto la copertura offerta dall’esercizio commerciale. Anche agli occhi degli italiani la filiazione veneta di quel clan di Al Arish pareva perfettamente integrata nella società ospite. Laboriosi e sempre cortesi, fornivano l’immagine ideale dell’immigrato: non parlavano mai né di politica né di religione, mantenendo ottimi rapporti anche con la polizia, al punto che gli agenti delle volanti spesso si fermavano da loro a mangiare un panino.

Però, quel pomeriggio a Jaffna era andato davvero tutto storto. La Polizia ferroviaria lo aveva fermato alla stazione di Pordenone. Gli agenti erano intervenuti all’interno della sala di attesa richiamati dalle grida scomposte di un ubriaco che stava dando in escandescenze. Con la bocca impastata molestava gli astanti biascicando parolacce.

«Come sssarebbe a dire che non missservi la grappa ssstronso! Io ti cci ho campatto coisssoldi nel tò bar del casso: furlano de merda! Tessspaco l’cul dio buono!»

Completamente obnubilato dall’alcool, aveva poi apostrofato con degli insulti una coppia di punk seduti su una panchina.

«Cossa ti ghà da vardar, facia de merda!?! Rrrompo l’cul a ti e assstaltra troja!»

Per tutta risposta il punk gli aveva lanciato contro la bottiglia di birra ormai quasi vuota che teneva in mano colpendolo alla spalla. La bottiglia ricadendo a terra si era poi infranta e il fragore conseguente era stato udito anche nell’atrio, richiamando l’attenzione dei poliziotti in servizio che in quel momento si trovavano nei pressi della biglietteria.

Non volendo rimanere coinvolto nella rissa, Jaffna si era allontanato immediatamente, camminando veloce lungo il marciapiede del primo binario. Era riuscito a guadagnare alcune decine di metri fuori dalla sala e avrebbe voluto raggiungere una panchina più distante dove stava seduta una ragazza che attendeva il treno, ma i due agenti spuntati dall’ingresso principale avevano notato il suo allontanamento repentino e, insospettiti, lo avevano ritenuto in qualche modo partecipe della baruffa. Lo raggiunsero e uno di loro gli chiese i documenti pressandolo contestualmente con una serie di domande.

«Ce l’hai il permesso di soggiorno? No, non ce l’hai! E allora che ci fai qui? Che è successo là dentro? Allora, rispondi o no!?! Ce l’hai un nome? Guarda che se non rispondi ti sbattiamo dentro sai!»

Mahmoud era spaventato, temeva guai per via di quella carta d’identità rubata che aveva in tasca.

Ben presto, in supporto alla Polizia ferroviaria sopraggiunsero due volanti. Nel frattempo all’interno della sala di attesa il trambusto era cessato e l’ubriacone era stato immobilizzato. Venne chiamata un ambulanza per il suo ricovero coatto in ospedale, mentre i due punk furono trattenuti per accertamenti. Un graduato sceso da una delle pantere, infilatosi un paio di guanti di lattice bianchi “usa e getta”, si rivolse a una sua collega con riferimento alla ragazza punk.

«Mo’ questa qua la porti dentro all’ufficio della Polfer e la perquisisci. Fatti assistere da Maraglione e vedi se cià le sostanze; guardale pure nel buco del culo, perché là fuori i colleghi hanno fermato un marrocchino che scappava, che però prima della rissa stava qua dentro e può essere che se cià la robba gliel’ha ceduta lui.»

Anche Mahmoud venne condotto nel posto di polizia della stazione. Gli agenti lo perquisirono convinti di trovargli addosso della droga, ma lui non ne aveva. Allora controllarono meglio le tasche dei suoi pantaloni e quelle del giubbotto cercando possibili doppifondi ricavati negli indumenti. Non ne trovarono, però videro quella carta d’identità appartenente a un cittadino italiano. Del telefonino, in un primo momento, non immaginarono potesse trattarsi del provento di un furto, meno che mai di un cellulare sottratto a un uomo assassinato poche ore prima.

«Cumpà …’e chissta a chi l’hai grattata? – gli grido in faccia un poliziotto di origini meridionali – Dov’è che volevi anda’ tu col treno? A Venezia? E che ci andavi a fa’ a Venezia, a incontra’ a qualcuno?»

Per Mahmoud fu la fine del viaggio. Gli strinsero le manette ai polsi e lo caricarono su una volante che schizzò via a sirene spiegate in questura.

(2 – continua)

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