MEDIO ORIENTE, Palestinesi. Offensiva diplomatica di Ramallah in Medio Oriente, tuttavia Mahmoud Abbas non ha buone carte in mano

Il presidente palestinese spera di ripristinare la posizione internazionale dell'Autorità palestinese, ma ai suoi recenti sforzi si oppongono oggettive difficoltà, non ultima la divisione intra-palestinese, che potrebbe condurre a un boicottaggio economico reciproco tra Gaza e Cisgiordania. L’analisi del complesso scenario delle dinamiche mediorientali

Negli ultimi due mesi il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha cercato di trarre fuori dall’isolamento politico l’Autorità Palestinese (AP), stimolato in questa sua azione dall’elezione alla Casa Bianca del candidato democratico antagonista dell’attuale presidente Donald Trump, la cui politica estera ha nei fatti costretto nell’angolo sia in Cisgiordania che nella striscia Gaza.

A muso duro ma senza speranza

A seguito della serie di riconoscimenti dello Stato ebraico da parte di Paesi musulmani (non soltanto arabi) si è potuto verificare – ma, al riguardo, nessuno si era comunque fatto delle illusioni – come la retorica espressa nei termini più duri dalla dirigenza palestinese del Fatah non abbia minimamente influito sugli orientamenti di coloro i quali avevano avviato il processo di normalizzazione delle relazioni con Israele.

A Ramallah, dunque, la conclusione è stata quella che si sarebbe dovuto cambiare tattica, cercando a questo punto di approcciare Washington nella speranza di ottenerne un sostegno nei tentativi di ricucitura dei rapporti con i Paesi arabi. Nel prossimo futuro si dovrebbe quindi assistere a un’ampia apertura all’amministrazione statunitense presieduta da Joe Biden, che si insedierà a Washington nei prossimi giorni.

Ma, secondo alcuni osservatori molto introdotti nella dinamica palestinese – come Adnan Abu Amer, capo del dipartimento di scienze politiche dell’Università della Ummah di Gaza, che è intervenuto recentemente ad al-Jazeera – Mahmoud Abbas cercherà contestualmente di ottenere un risultato anche sul piano finanziario, poiché le casse della sua entità amministrativa sono praticamente esangui.

Il cambio di passo dichiarato

Ed ecco che, il 17 novembre scorso, cioè a pochi giorni dalla conferma del successo di Biden alle presidenziali Usa, da Ramallah veniva improvvisamente diffuso un comunicato ufficiale nel quale si dichiarava che i Palestinesi stavano ripristinando le relazioni sospese con lo Stato ebraico, riavviando con esso le attività di coordinamento in materia di sicurezza che erano state precedentemente sospese.

A questo cambio di passo annunciato, l’Amministrazione palestinese ha associato anche la ripresa dell’incameramento dei trasferimenti derivanti dalle entrate fiscali che il Governo israeliano raccoglie per suo conto, gesto che assume le forme di un segnale inviato a Washington nel senso della propria buona volontà a riprendere il dialogo.

L’attivismo di Ramallah sarebbe poi proseguito due giorni dopo con il ritorno dei suoi rappresentanti presso gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, dopo che la scorsa estate erano stati richiamati in segno di protesta contro la normalizzazione delle relazioni con Israele.

Lo stesso atteggiamento è valso anche nei confronti del Sudan, che aveva annunciato la normalizzazione dei legami con Israele in ottobre, come nessuna reazione c’è stata nei riguardi del Marocco.

Una dolorosa consapevolezza

Certamente la dirigenza palestinese di Ramallah ha rinvenuto anche altre buone ragioni per rimandare i propri ambasciatori a Manama e ad Abu Dhabi, infatti, le due petromonarchie del Golfo Persico avrebbero potuto anche considerare l’eventualità di una ritorsione punitiva consistente nell’espulsione in massa delle migliaia di lavoratori immigrati palestinesi, fatto che avrebbe provocato un ennesimo colpo devastante alla stabilità della già precaria Cisgiordania.

Con ogni probabilità, alla mente dei dirigenti del Fatah sarà tornato lo spiacevole precedente risalente alla prima guerra del Golfo, quando Yasser Arafat, a quel tempo alleato del dittatore iracheno Saddam, si vide cacciare via tutti i palestinesi immigrati dal Kuwait dopo che l’Emirato era stato liberato dalle forze armate della coalizione dell’Onu.

Ma, forse – come sottolinea Adnan Abu Amer – nel suo intervento ad al-Jazeera – la vera ragione alla base della nuova politica dell’AP è stata resa necessaria dall’avvenuta consapevolezza da parte della dirigenza palestinese «di avere perso il “potere di veto” sulla normalizzazione delle relazioni tra i Paesi arabi e Israele», dato che i primi, ormai, non si preoccuperebbero più di tanto delle proteste di Ramallah.

È evidente che questo processo avrà un seguito, che piaccia o no ai palestinesi e, se Mahmoud Abbas dovesse ritirare i suoi rappresentanti da ogni Stato arabo che normalizzerà le proprie relazioni con Gerusalemme, a quel punto otterrebbe l’unico risultato di accentuare ulteriormente l’isolamento oggi esistente.

Deficit totale di cassa e i timori di un colpo di stato

Inoltre, a differenza degli islamisti di Hamas al potere nella striscia di Gaza, che hanno continuato a percepire gli aiuti in dollari del Qatar, per l’Amministrazione Palestinese l’aspetto economico riveste un’importanza fondamentale, soprattutto dopo il respingimento degli Accordi di Abramo, un deciso rifiuto che ha comportato la conseguente cessazione del sostegno finanziario fornito a Ramallah dai Paesi arabi, con l’unica eccezione rappresentata dall’Algeria, che, assieme alla cessazione dei trasferimenti fiscali da Israele hanno messo in ginocchio la Cisgiordania.

Ad avviso del capo dipartimento dell’Università di Gaza, l’assedio finanziario posto a Ramallah ha sollevato tensioni all’interno del Territorio palestinese, innescando nella dirigenza del Fatah i timori di un possibile colpo di stato a suo danno. «Abbas è particolarmente preoccupato per la sua nemesi, Muhammad Dahlan, ex leader di Fatah a Gaza (al tempo di Arafat era a capo della temuta Forza di sicurezza preventiva) e attuale “inviato” degli Emirati Arabi Uniti nei Territori palestinesi», una personalità che sarebbe pronta ad assumere la carica di presidente.

L’offensiva diplomatica di Mahmoud Abbas

Giocoforza, Mahmoud Abbas si è visto dunque costretto a ritornare a una politica improntata alla diplomazia. Il 29 novembre si è recato ad Amman è ha incontrato Re Abdullah II di Giordania, il giorno dopo è volato al Cairo per parlare al-Sisi e, infine, il 14 dicembre ha fatto tappa a Doha, dove ha interloquito con principe Tamim bin Hamad, guida del “dinamico” Emirato del Qatar.

Il presidente egiziano ha interesse a ospitare un vertice congiunto tra Abbas e Netanyahu allo scopo di riaffermare il ruolo del suo Paese nel quadro delle dinamiche israelo-palestinesi, sminuito dalle recenti politiche degli EAU e dei sauditi, che perseguono propri obiettivi nello scenario regionale, a cominciare dalla riduzione della crescente influenza esercitata sui palestinesi dalla Turchia e dal Qatar.

Abbas cerca inoltre di pervenire a una nuova posizione unitaria degli arabi sulla questione palestinese, egli tenta disperatamente di ottenere un sostegno alla sua leadership nella prospettiva di una nuova iniziativa di pace da proporre all’amministrazione Biden quale alternativa all’Accordo patrocinato da Trump.

Egli è giunto a invitare l’Onu a convocare una nuova conferenza di pace sul conflitto israelo-palestinese con tutti i principali Paesi interessati, ottenendo, si afferma, il sostegno di Giordania ed Egitto.

Le incognite sul futuro di Ramallah

Tuttavia non si riscontra eccessivo ottimismo sul possibile successo di questa nuova azione diplomatica di Mahmoud Abbas, anche perché l’Amministrazione Palestinese attualmente controlla soltanto la Cisgiordania (dove glielo lasciano fare gli israeliani) e, anche alla luce delle perduranti divisioni con l’antagonista Hamas, non può certo pretendere di rappresentare tutti i palestinesi.

A questo si aggiunga l’incerta situazione politica in Israele, paese destinato alle ennesime elezioni, le quarte in due anni, situazione transitoria che fa sì che a Gerusalemme un nuovo esecutivo non sarà in grado di negoziare per almeno i prossimi sei mesi, con l’ulteriore incognita rappresentata dalla possibile coalizione di governo che uscirà dalle trattative che seguiranno l’esito delle urne.

Infatti, il successore di Netanyahu potrebbe non essere disponibile a fare concessioni ai palestinesi sugli insediamenti colonici, mentre un ritiro militare di Tsahal dal West bank e il riconoscimento di uno Stato palestinese rimane assolutamente fuori questione.

Un’altra incognita deriva dall’atteggiamento che avrà la nuova amministrazione statunitense presieduta da Biden, con il conflitto israelo-palestinese che non costituisce più una priorità nell’agenda di Washington.

In questi ultimi anni il mondo è andato avanti spedito, anche in Medio Oriente, ponendo fuori gioco i palestinesi, che ora, disperati, tentano di recuperare posizioni nello scenario internazionale.

Intanto Israele ha gioco facile dalle divisioni palestinesi

Essi, ormai, si sono tolti dalla testa ogni ubbia relativa a una impensabile alleanza araba contro lo Stato ebraico, l’ultimo episodio del genere risale infatti alla Guerra dello Yom kippur del 1973.

Da allora, non solo la maggior parte degli Stati arabi ha rinunciato a combattere direttamente Israele, anche e soprattutto grazie al Trattato di pace firmato con Egitto di Sadat, l’avversario di Gerusalemme militarmente potente, ma neppure le principali organizzazioni terroristiche non statali, che da un certo momento in poi si sono viste costrette a combattere Israele da sole.

Una situazione divenuta ancora più favorevole per lo Stato ebraico a partire dall’estate del 2007, quando la lotta intestina divampata tra l’Autorità Palestinese controllata dal Fatah e Hamas, che ha portato alla totale separazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza.

Secondo Hillel Frisch, analista del BESA Center, presso la Bar Ilan Univerisity (Israele), l’enorme divario politico tra le due entità palestinesi potrebbe addirittura trasformarsi in un assedio economico reciproco, le cui avvisaglie si rinverrebbero nel recente annuncio di Gaza relativo a un possibile blocco delle importazioni di prodotti lattiero-caseari provenienti dalla Cisgiordania.

Israele ha sempre tratto vantaggio nell’affrontare i suoi nemici uno per volta e, dal 2007 i palestinesi sono divisi. Ora, dunque, la minaccia di un boicottaggio di Hamas sui beni prodotti in Cisgiordania non farebbe che approfondire ulteriormente il divario tra le due entità.

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