USA, elezioni presidenziali. Trump vs Biden: e il petrolio americano?

Un presidente, quello attualmente in carica, che è «pro-petrolio», e un candidato alla sua successione alla casa Bianca che invece è «pro-green Era». Entrambi hanno a cuore, tuttavia con parole diverse, quella strana materia chiamata «energia»

di Michele Marsiglia, presidente di FederPetroli Italia, pubblicato su “L’Indro” il 2 ottobre 2020 – Mai come in questo periodo gli Stati Uniti d’America sono in un ciclone non climatico, come spesso accade, bensì in uno di quei fenomeni che spazia dalla crisi provocata dal Covid-19 alle prossime imminenti elezioni di novembre, nonché per la politica estera di Washington, che parrebbe zoppicare se considerata nel suo insieme.

Sicuramente l’accordo di pace tra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti siglato alla Casa Bianca qualche settimana evidenzia un’azione determinata degli Usa nella road map che si sono prefissati per il Medio Oriente.

Certamente, però, sottovalutando la parte palestinese di Abu Mazen – scontenta sin dai tempi dei tempi e pronta ad azioni che da un momento all’altro potrebbero far mostra del risentimento contro la lunga e faticosa occupazione israeliana nei Territori,  in primis nella Striscia di Gaza -, questo tanto ventilato e decantato “Accordo di pace” non sembra possa esserlo ancora.

Dove va Washington? Ma oggi Washinton come si posiziona? O meglio, in tutto questo susseguirsi di problematiche, gli Stati Uniti del petrolio, l’America energetica, dove sono finiti?

Tra repubblicani e democratici, sia al Congresso che alla Casa Bianca, anche nell’alternanza Obama-Trump si è sempre registrata una politica dura da seguire per le corporations statunitensi del settore.

Certo, il Covid-19 ha abbattuto al suolo gran parte di quelle Independent Oil Companies, cioè quelle piccole società di trivellazione che si trovavano già in affanno per via di un costo del greggio eccessivamente basso che si trascinava da anni.

Esse non sono riuscite a resistere agli effetti devastanti della pandemia, non solo per il prezzo del petrolio ai minimi, ma addirittura anche con due giorni di svalutazioni e di quotazioni ben sotto lo zero sui mercati internazionali.

Alle richieste di sussidi e sostentamenti finanziari pubblici da parte di questi piccoli e medi operatori del settore, necessari per un loro “respiro” nel delicato momento attraversato dall’economia mondiale, non è però seguito nulla. Non  è arrivato niente.

Trump nei mesi scorsi si è distinto per una massiccia azione di forza nei confronti dell’Opec e dell’Arabia Saudita nel tentativo di far risalire i prezzi del greggio o, quantomeno, di rendere possibile la vendita del surplus americano di idrocarburo e liberare in questo modo i depositi che, ormai dovevano regalare il prodotto per insufficienza di stoccaggio.

La riduzione da parte dell’Opec dell’immissione graduale di greggio sui mercati non ha tuttavia prodotto sensibili effetti nel breve periodo e non ha neppure recato aiuto alle major petrolifere statunitensi, né tantomeno a coloro che avevano urgente bisogno di concreti aiuti economici, i cercatori di «oro nero», quelle società che del fracking avevano fatto il loro core-business.

Due americani e l’Oil & Gas. Dunque oggi si trovano con un presidente (Donald Trump) negazionista riguardo alla effettività dei mutamenti climatici in atto e formalmente, almeno nelle sue dichiarazioni ufficiali, protettore dell’industria petrolifera, che però non è riuscito ad aiutare nel momento in cui questa lo richiedeva.

Dall’altra parte c’è il candidato democratico alla Casa Bianca, Jo Biden, uno che sulla falsariga del proprio compagno fidato di partito ed ex presidente, Barack Obama, non nega l’America energetica, pur permanendo però, allo stesso tempo, su posizioni più moderate, limitandosi a cavalcare quello slogan divenuto globale oggi di scena: il «green».

Anche in politica estera, il Congresso Usa per bocca dei due senatori repubblicani Ted Cruz e Jeane Shaheen, rispettivamente eletti nel Texas e nel New Hampshire, si accingerebbe a varare nuove restrizioni nei confronti delle compagnie petrolifere estere e anche di alcune categorie di imprese impegnate nel progetto di raddoppio del gasdotto North Stream 1, che collegherà i giacimenti di materia prima russi con la Germania (North Stream 2), poiché questo gasdotto incrementerà il livello di dipendenza energetica dell’Europa da Mosca.

Una situazione che contrasta nettamente con la volontà americana di vendere lei idrocarburo da Shale all’Europa, seppure a oggi, le attività industriali poste in essere attraverso questa tecnologia segnano il passo.

Assistiamo quindi a politiche statunitensi, più che democratiche, di forte ostruzionismo e di violenza industriale, come le sanzioni più volte adottate nei confronti dell’Iran e di alcuni paesi dell’America Latina.

Africa, interessi e guerriglia islamista. E non manca l’Africa, dove con FederPetroli Italia siamo coinvolti in progetti e commesse e dove assistiamo a due operatori attivi nella stessa regione del nord del Mozambico. Si potrebbe definirla «una condivisione della stessa casa tra la francese Total (che ha acquistato il giacimento dall’americana Anadarko) alla sempre americana Exxon, pronte a trasformare nel giro di pochi anni il gas da giacimenti off shore nelle acque al confine con la Tanzania, la tormentata regione di Cabo Delgado, in gas naturale liquefatto (GNL). Quindi interessi energetici su più fronti.

Oggi più che mai, l’evento delle prossime elezioni presidenziali americane è qualcosa che catalizza i mercati finanziari internazionali, un palcoscenico globale dove il protagonista principale oltre all’energia sarà il debito pubblico statunitense, che continua a crescere mentre, contestualmente, la Federal Reserve fatica a tenere bassi i tassi di interesse, e con gli operatori di Wall Street in continuo fermento.

Un clima di tensione alimentato anche da un Trump che, mettendo le mani avanti, ha minacciato una possibile transizione politica non pacifica e ha inoltre pericolosamente paventato possibili brogli elettorali che potrebbero venire compiuti dai suoi avversari politici del Partito Democratico nei giorni delle elezioni.

Dal canto suo, Biden auspica  una transizione energetica internazionale – o meglio, una «sostenibilità ambientale dovuta» – mentre l’attuale inquilino della Casa Bianca si professa amico dei petrolieri ma senza però definire alcuna politica energetica.

Il «countdown» è iniziato. Qualora venisse eletto, Biden potrebbe tagliare qualche contributo all’industria del petrolio per stornarlo all’economia green. Se ci soffermiamo un po’ sulle parole ed i trucchi delle politiche industriali, senza cadere in facili ma capziosi espedienti di natura verbale e dialettica, a esclusione di poche società mirate, il cerchio industriale rimane lo stesso: l’energia.

Un segnale di questo probabile orientamento perviene dai 2.000 miliardi di dollari che ha promesso in sostegno della riduzione delle emissioni di carbonio entro l’anno 2035, fondi dei quali beneficerebbero in primo luogo le compagnie petrolifere impegnate in programmi sostenibili e conversioni di impianti.

Ma non solo, poiché le diverse e non mantenute strategie industriali di Trump in campo energetico, unite alle note divisioni interne al Partito Repubblicano evidenziatesi vieppiù nel corso della sua amministrazione, hanno frenato considerevolmente gli investimenti nel settore infrastrutturale dell’Oil & Gas, che costituisce il collegamento tra i diversi Stati dell’Unione, cioè i grandi oleodotti.

Tra grafici di Borsa, scelte elettorali, tasse (forse) non pagate e petrolieri sul lastrico, senza parlare poi delle proteste sociali e di quelle generate dalle discriminazioni razziali la situazione non è certamente rosea.

Se una volta le parole «petrolio», «Texas» ed «energia», potevano  condizionare in qualche modo l’elettorato indeciso facendo guadagnare qualche voto, oggi le cose sono cambiate.

Ovviamente gli Stati Uniti d’America restano sempre un grande paese, tuttavia ora hanno davvero bisogno di relazionarsi col resto del mondo per riacquisire quella credibilità che da soli non sono più i grado di consolidare.

Il «countdown» è dunque iniziato e le cancellerie estere attendono di conoscere chi sarà il nuovo presidente, cioè il risultato di queste delicatissime elezioni.

La transizione energetica e le posizioni dei due candidati alla Casa Bianca. Il cambiamento climatico rappresenterà un argomento davvero “caldo” in quest’ultima fase di campagna elettorale, poiché saranno proprio le politiche ambientali il punto cardine sul quale chi diverrà presidente dovrà confrontarsi.

Oggi gli americani sono preoccupati a causa dei mutamenti climatici, in particolare dopo gli incendi che hanno colpito la California e le tempeste che si sono abbattute su diversi Stati dell’Unione.

Una transizione energetica che vede impegnati anche noi che nell’Oil & Gas operiamo da questa sponda dell’Oceano Atlantico, transizione che FederPetroli Italia accetta e condivide assieme a buona parte di altre imprese del settore, mentre Trump non solo vi è contro, ma spinge verso qualcosa che forse l’industria petrolifera non vuole più, avendo iniziato un processo di rinnovamento ecologico.

In America l’indotto del settore energetico occupa oltre dieci milioni di persone ed è dunque evidente come il popolo americano presti estrema attenzione ai deleteri gap nel mondo del lavoro che qualsiasi genere di cambiamento possa causare.

Tuttavia – e lo dimostrerebbe quanto verificatosi di recente negli Usa riguardo al Cares Act – lo scontro tra democratici e repubblicani è al calor bianco e, questa volta, sarà molto più difficile da ricomporre rispetto al passato.

In definitiva, comunque, il presidente attualmente in carica, dichiaratamente «pro-petrolio», e il candidato alla sua successione, che invece si dichiara «pro-green Era», hanno entrambi a cuore, seppure da posizioni differenti, quella strana materia chiamata «energia».

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