MEDIO ORIENTE, Gerusalemme Est. Revoca della residenza ai palestinesi e loro trasferimento altrove

Attraverso l’assegnazione di un fragile «status di residenza», le autorità israeliane sarebbero riuscite a revocare e successivamente a sradicare migliaia di palestinesi dalla città.

Mentre sempre più Paesi arabi normalizzano le loro relazioni con lo Stato ebraico, il governo di Gerusalemme starebbe perseverando nella sua politica di “trasferimento silenzioso” dei palestinesi di Gerusalemme Est, settore della città controllato a seguito della vittoria nella Guerra dei sei giorni combattuta nel 1967.

La denuncia del fatto è di Ibrahim Husseini, che si è espresso mediante l’emittente satellitare televisiva qatarina al Jazeera il 27 settembre scorso.

Revoca dello status di residente. Egli ha affermato che gli strumenti utilizzati dagli israeliani sarebbero la revoca della residenza ai palestinesi, lo spostamento di questi attraverso demolizioni di case e gli ostacoli frapposti all’ottenimento dei permessi di edificazione e l’imposizione di tasse elevate.

Si tratterebbe, secondo l’opinione del ricercatore palestinese Manosur Manasra, «della prosecuzione della politica dei trasferimenti dei Palestinesi da Gerusalemme Est iniziata subito dopo la guerra del 1967, che portò all’occupazione militare della parte orientale della città».

Risale infatti ad allora l’applicazione della legge israeliana anche a Gerusalemme Est, con la contestuale concessione ai palestinesi dello status di residente permanente, poiché a essi non venne riconosciuto il diritto all’acquisizione automatica della cittadinanza israeliana.

Una situazione di quasi apolidia, dato che a loro non vengono, però, neppure rilasciati i passaporti dall’Autorità palestinese (AP), mentre solitamente possono ottenere documenti di viaggio temporanei giordani e israeliani.

Gli allontanamenti da Gerusalemme Est. Si tratterebbe dunque di un fragile status esposto al rischio di revoche da parte delle autorità dello Stato ebraico, il primo passo, sempre secondo i palestinesi, con il successivo sradicamento dalla città, attuato attraverso la pratica aggressiva di demolizione delle abitazioni.

Husseini afferma che sarebbero 14.200 i palestinesi allontanati da Gerusalemme Est a partire dal 1967, un fenomeno che non si sarebbe arrestato negli anni, dato che le Nazioni Unite hanno registrato un incremento esponenziale del numero di sfollati nel periodo intercorrente tra il mese di gennaio e quello di agosto del 2020, con un aumento pari al 55% delle strutture demolite o confiscate su ordine della municipalità di Gerusalemme rispetto all’anno precedente.

Lo status di «residente permanente» viene mantenuto dal palestinese di Gerusalemme Est fino a quando egli è presente fisicamente nella città, tuttavia può essere revocato dalle autorità israeliane per motivi di sicurezza, quando ad esempio la persona viene riconosciuta appartenente a gruppi od organizzazioni che lo Stato ebraico ha posto fuori legge, come nel caso del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).

Le misure di sicurezza. In altri casi le autorità israeliane annullano invece i permessi di soggiorno dei coniugi di attivisti politici, persone originarie della Cisgiordania.

Ad esempio, nel 2010 sono stati revocati i permessi a quattro membri del vertice di Hamas, tre dei quali erano stati precedentemente eletti al parlamento palestinese e uno aveva ricoperto incarichi nell’AP, in quanto ritenuti pericolo per lo Stato ebraico in quanto impegnati in «attività ostili».

I palestinesi si appellano dunque al diritto internazionale, poiché, se le azioni poste in essere dalle autorità israeliane verranno riconosciute riconosciuta come una vero e proprio “annullamento della residenza” si tratterebbe di una violazione del dettato della IV Convenzione di Ginevra, e integrerebbe i termini del “trasferimento forzato”, che ovviamente è vietato.

Nel 2018 l’Alta Corte israeliana ha stabilito che la revoca dello status di residente ai palestinesi era illegale, in quanto atto non legittimato da normative in quel momento in vigore nel territorio dello Stato ebraico. Nella medesima sentenza i giudici concessero poi sei mesi di tempo alla Knesset al fine di consentirgli di emanare una legge in materia.

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