ENERGIA, Eni. Caso «Nigeria», Abuja chiede il risarcimento: tra le cifre controverse si cela la verità sulla presunta tangente

Il 9 settembre scorso lo Stato nigeriano, costituitosi parte civile al processo per corruzione internazionale in corso a Milano a carico di Eni e Shell ha chiesto una provvisionale di oltre un miliardo di dollari, oltre al danno economico da calcolare in sede civile

Il governo di Abuja agisce in veste di parte civile nel procedimento penale in corso di svolgimento al Tribunale di Milano per il reato di corruzione internazionale, in merito alla presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari pagata da Eni e Shell per ottenere l’ormai famigerata licenza petrolifera Opl 245.
In aggiunta a ciò che ha richiesto la Pubblica accusa, che ha visto associarsi la parte civile, vi è la richiesta di una provvisionale pari all’ammontare della presunta tangente, alla quale andrà sommata anche l’ulteriore cifra che verrà eventualmente calcolata in sede civile.
Il prezzo pagato da Eni e Shell per il giacimento è stato pari a 1,3 miliardi di dollari, a fronte di un valore di mercato del lotto Opl 245 superiore ai tre miliardi di dollari, una valutazione sulla quale in sede dibattimentale aveva concordato anche uno degli imputati, Ednan Agaev, ex diplomatico russo ritenuto vicino ai servizi segreti che la Procura della Repubblica ritiene essere stato intermediario con il Governo nigeriano nell’operazione per conto della compagnia petrolifera anglo-olandese.
La tesi dell’avvocato che patrocina gli interessi di Abuja è quella che la differenza tra il valore reale e il prezzo per l’assegnazione di Opl 245, per altro avvenuta in assenza di gara, sia sproporzionato.
Un prezzo – si asserisce – che Eni e Shell avevano prestabilito di pagare nel 2010 ricorrendo a una fitta rete di intermediari e, nel caso dell’Eni, anche ricorrendo ai contatti personali dell’attuale amministratore delegato del Gruppo di Piazzale Mattei, Claudio Descalzi.
Degli 1,3 miliardi di dollari pagati dalle due compagnie petrolifere, poco più di duecento sono stati versati nella forma di signature bonus, cioè di forfait al Governo nigeriano oppure a “società veicolo” a esso collegate al momento della firma della concessione.
Ma queste signature bonus avrebbero conosciuto un sostanziale incremento di valore nel tempo, passando dai venti milioni di dollari iniziali ai duecento del 2001, rimando poi costanti negli anni seguenti, nonostante – sempre secondo la parte civile – le ulteriori esplorazioni del sottosuolo abbiano incrementato le potenzialità produttive di materia prima energetica del giacimento.
I legali dello Stato nigeriano indicano in questa oscillazione il favore nel prezzo praticato alle due compagnie petrolifere e, a sostegno della loro tesi, essi richiamano i precedenti delle licenze di prospezione ed estrazione concesse nel 2015 alla Chevron e quella al Governo angolano nel 2006 per altri blocchi.
Dal canto suo, Eni fornisce una versione in netto contrasto con quella dell’accusa e della parte civile, affermando che i 210 milioni di dollari versati rappresentano ancora oggi il bonus di firma più elevato mai incassato dallo Stato nigeriano per la concessione di una licenza petrolifera, in quanto che, in termini economici quella offerta «era in realtà congrua e ragionevole considerato il valore del campo esplorativo e degli investimenti necessari per poterlo mettere in produzione».
Un prezzo minimo che per Abuja, secondo i calcoli effettuati dall’agenzia Openeconomics (consulente di Eni), si rendeva accettabile a un valore di 1, 241 miliardi. Tuttavia, sempre sulla base della relazione di Openeconomics, il prezzo corrisposto da Eni e da Shell risultava superiore agli 1,3 miliardi, ricondotti alla cosiddetta opzione «back-in», prevista nella disponibilità del governo del Paese africano nel quadro dell’accordo conclusivo sulla cessione del giacimento, una possibilità di rientrare in un investimento a seguito di un evento che ne muta il valore, ad esempio a causa dell’avvenuta scoperta di nuove riserve di greggio all’interno di un giacimento.
I periti che hanno fornito la loro consulenza ne stimano l’ammontare in 402 milioni di dollari, cifra che va considerata come parte del prezzo pagato. Quindi, sulla base di tutti questi calcoli, Eni e Shell avrebbero pagato 1,702 miliardi di dollari, totale derivante dall’aggiunta del valore dell’opzione back-in.
Inoltre, i consulenti del Gruppo di Piazzale Mattei hanno anche stimato il valore del giacimento in questione una volta in produzione, giungendo alla conclusione che il 76% di esso andrebbe assegnato al Governo nigeriano e il rimanente 24% ai concessionari.
Una procedura di calcolo in contrasto con quella applicata dalle organizzazioni non governative che pongono le due compagnie del settore Oil & Gas sul banco degli imputati. Infatti, per i consulenti delle prime l’opzione di back-in non andrebbe calcolata come un valore aggiuntivo dell’accordo, bensì esclusivamente come un onere a carico del Governo nigeriano, che, in ogni caso, per esercitare l’opzione in predicato dovrebbe versare 870 milioni di dollari, cioè un ammontare pari al 50% del valore complessivo della licenza, con un conseguente notevole aggravio per le finanze di Abuja.
Secondo la parte civile a Mohammed Adoke Bello (all’epoca dei fatti ministro della Giustizia), Alison Diezani-Madueke (allora ministro del Petrolio) e il Presidente Jonathan Goodluck andrebbero ascritte le responsabilità in ordine all’episodio di corruzione a danno dello Stato nigeriano, poiché, sempre secondo la ricostruzione dei legali del Governo di Abuja, i loro interventi avrebbero favorito la prosecuzione della trattativa per la cessione del blocco Opl 245 in una fase nella quale si trovava in uno stallo.

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