NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (12)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

 XXXII

   Fatti e circostanze che la riguardavano combaciavano perfettamente con la contestuale videoregistrazione del passaggio del suv di Kovacich davanti alla caserma di Tauriano, ma a insospettire Zincone fu la sua reticenza, poiché Luisella Marconaro si ostinava a tenere per sé i motivi della sua presenza in quei luoghi al momento dell’omicidio di Nevio Calegaro. Ci girava continuamente intorno ma non arrivava mai al punto. Fu per questa ragione che in caserma non la mollarono e, quella che avrebbe dovuto essere una formalità, si trasformò in una cosa molto più seria. Tutavia, un volta messa davvero sotto pressione non ci volle molto per farla cedere. A un certo punto Luisella fu in procinto di piangere e di rivelare tutto.

«Allora, signorina Marconaro – le chiese Zincone -, all’una e venti circa della notte tra domenica e lunedì lei è stata fermata da una nostra pattuglia che effettuava un servizio di controllo alla periferia di Spilimbergo: conferma?»

«Sì» – rispose lei a bassa voce.

«Bene, andiamo avanti». Proseguì il maresciallo aiutante. «Adesso ci dica precisamente cosa ci stava a fare quella notte vicino al luogo dell’omicidio di Nevio Calegaro e, soprattutto, se ha visto qualcuno o qualcosa di strano».

«Accompagnavo un’amica a casa – rispose Luisella –, eravamo state a Pordenone a mangiare una pizza e avevamo fatto tardi, lei sarebbe dovuta rientrare in caserma».

«È una soldatessa? – chiese Zincone – La sua amica è un militare? In quale caserma presta servizio, a Tauriano?»

Luisella resistette ancora per non rivelare il nome della sua amante, ma commise l’errore di cadere in contraddizione.

«No maresciallo… non è una ragazza, è un ragazzo. Un soldato, però non stavamo insieme… insomma, un po’ come un gioco, capisce?»

«No, guardi signorina: io non capisco proprio! – Rimarcò severo il sottufficiale – Era una ragazza oppure un ragazzo? È un militare oppure no? Così cominciamo male, sa! Cosa fa: inventa? Chi vuole coprire? Sappia che noi tanto lo verremo a sapere lo stesso di chi si tratta e molto presto! Quindi cerchi di restare tranquilla e di riflettere bene sulle risposte che ci darà. Mi rendo conto che si tratta di una situazione difficile, però la invito ugualmente a non farsi prendere la mano dall’emozione e a dirci tutto quello che sa. Se quella notte ha visto qualcosa che potrebbe avere a che fare con l’omicidio ce lo deve dire, altrimenti potrebbe andare incontro a seri problemi».

   Zincone la convinse. A prima vista quella ragazza le era sembrata una persona per bene, quindi evitò di traumatizzarla eccessivamente.

«Non abbiamo fatto nulla – disse allora Luisella -, glielo giuro. Ero con un’amica, si chiama Antonella e fa la soldatessa a Tauriano».

«Lo vedi… – replicò con tono conciliante il sottufficiale –, così devi fare. Devi dirci la verità. Quella e basta. Tu sei una brava ragazza e queste sono cose molto più grandi di te, non ti ci avvitare dentro. Adesso facciamo una pausa: tu te ne resti qui tranquilla ad aspettare e noi andiamo a pigliare la tua amica, così vi sentiamo tutte e due assieme. Vedrai che sarai a casa per cena stasera».

Toffanin si allontanò per prelevare la caporalessa nella caserma dell’Esercito poco distante dall’edificio della Compagnia Carabinieri, nel frattempo Zincone condusse Luisella presso l’erogatrice automatica delle bevande e le offrì un caffè. Quindi, dopo una breve pausa, fecero nuovamente ritorno nella stanza.

Luisella si sentì più rilassata e si sedette ad attendere. Dopo circa un’ora Toffanin tornò con la caporalessa. Le due ragazze incrociarono gli sguardi. Luisella accennò un sorriso, però per tutta risposta Antonella fu sprezzante.

«Cosa vi ha raccontato quella? – esclamò acida – Guardate che io mica sono come lei!»

Iniziò a tradirsi. Ciò che tenacemente Luisella aveva tenuto per sé ora usciva immediatamente fuori dalla bocca della sua amante, che con quella frase avventata aveva aperto involontariamente una breccia nell’impenetrabile riserbo col quale l’altra aveva gelosamente custodito la loro relazione omosessuale.

Fu Toffanin a rivolgersi deciso alla soldatessa.

«Caporale, cosa vuole rappresentare con la frase “io non sono mica come lei”?»

Antonella tacque. Ma così facendo rafforzò negli investigatori la convinzione che stesse nascondendo qualcosa. Allora il vicebrigadiere la ammonì duramente abbandonando definitivamente il «lei» per passare a un tono più diretto.

«Signorina bella, guarda che se non parli, tu da questa stanza non esci mica sai! Allora, vediamo un po’: Faiella Antonella, di anni ventisei, originaria di Ogliastro Cilento in provincia di Salerno; in servizio come volontaria in ferma breve col grado di caporale presso il Reggimento carri di Tauriano …allora caporalessa: la sera che sul Meduna hanno ammazzato a quello, tu e la tua amica davvero non avete notato nulla di strano? Movimenti di persone, grossi fuoristrada o altre robe simili? E poi… che vuol dire che tu non sei come lei? Rispondi!»

Antonella chinò la testa per la vergogna. Poi, mantenendo sempre basso lo sguardo, fece uscire le parole dalla bocca.

«Io non lo so che vi ha raccontato quella, ma non dovete darle retta perché io con lei nun ce sò mai stata, perché a me mi piacciono gli uomini no le donne. È lei che mi si è appiccicata addosso, le piacevo e con me ci provava. Quella sera eravamo andate a mangiare la pizza a Pordenone. Ci siamo andate con la macchina sua perché la mia l’ho lasciata giù a Salerno. Poi alla fine mi ha riaccompagnata in caserma. Ma io durante tutto il viaggio non ho visto proprio niente di strano, a quell’ora per la strada non girava un’anima viva».

«Eh, no cara mia! – eccepì allora Zincone – Sta’ storia la racconti a qualcun altro, perché tu quella sera in caserma ci sei rientrata tardi, dopo mezzanotte. Ed è proprio qui il punto: dove ti trovavi prima? O meglio, dove vi trovavate?»

Gli investigatori separarono le ragazze per interrogarle una alla volta da sole. Antonella venne fatta accomodare in un’altra stanza in attesa di essere nuovamente ascoltata, mentre le attenzioni vennero concentrate dapprima su Luisella, ritenuta l’anello debole di una catena che andava spezzata. Zincone attaccò con la paternale.

«Luisella, tu sei una brava ragazza e noi questo lo abbiamo capito, però adesso mi devi spiegare che genere di rapporto ti lega ad Antonella. Voglio dire: siete amiche oppure qualcosa di più? Mi rendo conto che è difficile… ma, tu con Antonella ci facevi all’amore? È andata così vero? Figlia mia, con me devi aprirti per forza, perché dobbiamo assolutamente sapere quello che è successo quella sera e voi dovete aiutarci a trovare il colpevole».

Era arrivato il momento. Prima o poi sarebbe successo, poiché era nella natura delle cose.

«Quali saranno le conseguenze?» Chiese affranta Luisella, ormai pronta a rivelare la sua diversità.

«Nessuna, te lo garantisco – cercò di tranquillizzarla Zincone –, l’Ufficio terrà tutto sotto silenzio, soprattutto con la stampa».

Non sarebbe andata così e Zincone lo sapeva benissimo, ma mentì perché doveva a tutti i costi farla parlare. E lei rivelò tutti i particolari di quella notte maledetta.

«Ci trovavamo in macchina. Si era fatto tardi ma volevamo stare insieme lo stesso, almeno dieci minuti. Il giorno seguente Antonella avrebbe montato di guardia e non ci saremmo riviste fino al martedì successivo. È successo tutto in un attimo. Quelli sono piombati all’improvviso e per fortuna non ci hanno viste, poi in pochi secondi…»

«Quanti erano? –  le chiese Zincone – Li hai visti? Riesci a ricordare?»

«No, non lo so… davvero. Comunque pochi. È durato tutto molto poco. C’era trambusto, come se stessero tirando a forza qualcuno fuori dalla macchina».

«Che macchina era, ci hai fatto caso? – le domandò ancora il maresciallo – Hai riconosciuto la marca, il tipo… non lo so, il colore o qualche altro particolare come un’ammaccatura sulla carrozzeria, un adesivo appiccicato al vetro, qualche numero della targa?»

«Mhhh… era grande, era un fuoristrada».

Un fuoristrada. Il conto adesso tornava. Zincone ci si sarebbe giocato i coglioni che era quello di Kovacich. Allora le domandò chi potessero essere le persone che avevano trascinato la vittima fuori dalla macchina.

«Ebbi l’impressione – descrisse Luisella – che lì davanti ci fosse tanta concitazione, però quelli non gridavano. I finestrini della mia macchina erano chiusi per il freddo, ma da quella distanza se avessero gridato li avrei sicuramente sentiti. Però… aspetti! Uno sì. Uno di loro gridò qualcosa nella maniera di come si parla dalle parti di Monfalcone e di Trieste».

«Ti ricordi le parole pronunciate da quell’individuo?»

«Mah, erano parolacce. Insulti pesanti… parolacce insomma».

«Parolacce e basta?»

«Anche minacce».

«E tu saresti in grado di riconoscerla quella voce?»

«Non credo».

«Poi che è successo?»

«Poi abbiamo sentito tre colpi secchi e Antonella mi ha detto che avevano sparato con una pistola».

«Vai avanti».

«Niente signor maresciallo, dopo gli spari quelli sono risaliti in macchina e se ne sono andati».

«E allora voi cosa avete fatto?»

«Avevamo una paura tremenda. Antonella però mantenne la calma più di me. Abbiamo aspettato cinque minuti e siamo venute via da lì. Io la ho accompagnata in caserma e poi me ne sono tornata a casa. Il resto lo sapete, mi hanno fermato al posto di blocco e mi hanno fatto la multa».

«Però non avete chiamato la polizia: perché? Volevate evitare che la vostra storia venisse fuori?»

«Sì maresciallo».

Oltre a inchiodare Kovacich, quella testimonianza ebbe anche l’effetto di mutare radicalmente l’esistenza di Luisella. D’ora in avanti nulla sarebbe stato più come prima. Quanto ai colpevoli, per loro era fatta: il caso veniva chiuso dalla testimonianza della Marconaro, che aveva confermato una parte della confessione di Kovacich demolendone però i suoi fragili distinguo. Infatti, il pregiudicato triestino quella notte non era a Servola con l’anziana madre, bensì sui magredi del Meduna, tra pioppi, faggine e sambuchi, dove, pur non sparando materialmente a Nevio Calegaro, aveva comunque preso attivamente parte all’azione omicidiaria.

 

 XXXIII

   «Allora, ricapitoliamo…»

Con soddisfazione, il pubblico ministero Rosalba Catalano si avviò a concludere l’incontro con la stampa. Nel corso dell’ultima fase dell’indagine una serie di elementi e di testimonianze avevano reso ancora più coerente il disegno accusatorio. Le fondamentali dichiarazioni rese da Luisella Marconaro, confermate in seguito anche dalla sua amica-amante Antonella Faiella, avevano messo gli inquirenti nelle condizioni di incastrare Kovacich.

Quest’ultimo, vistosi perduto, alla fine aveva ammesso per intero le sue responsabilità. Era nel suo interesse che Calegaro morisse, poiché in questo modo si sarebbe portato nella tomba il pericoloso segreto della loro complicità nella sottrazione di droga ai fratelli Šeks e la colpa di tutto si sarebbe scaricata sul vecchio, visto che Kovacich si era sempre guardato bene dal contattare personalmente i pusher di Pordenone e Udine delegando Nevio a questa funzione.

La spedizione punitiva in Friuli l’aveva decisa Plavi grom, ma la banda dei croati era rimasta all’oscuro del fatto che delle sottrazioni fosse stato partecipe anche il triestino. Plavi, che aveva incaricato Kovacich di fare da tramite con Calegaro per le consegne di stupefacenti in Friuli, una volta accortosi degli ammanchi lo aveva reso responsabile in solido col vecchio, non ritenendolo comunque colluso con lui. Insomma, fino a quel momento a Kovacich era andata bene, ma per continuare a campare tranquillo avrebbe dovuto recitare la commedia fino in fondo, facendo credere ai sanguinari fratelli Šeks che lui era “pulito” e aiutandoli al contempo a preparare la vendetta senza porre in allarme la vittima.

Questo spiegava anche il suo accanimento su Calegaro all’ultimo atto della tragedia, quando lo aveva maltrattato mentre lo tirava giù dal suv prima che Plavi gli sparasse. Tutto il resto erano solo chiacchiere, come quelle della messa in scena nella quale Plavi avrebbe voluto terrorizzare Calegaro per mezzo di una finta esecuzione.

Mentre si trovavano a bordo del fuoristrada, Kovacich aveva continuato a fare il “pesce in barile”, poi però, quando Nevio aveva iniziato a insultare pesantemente Plavi, vedendo quest’ultimo perdere completamente le staffe aveva intuito che era arrivato il momento di far morire il vecchio e allora si era inserito scientemente nella dinamica omicidiaria. Se lo immaginava, infatti, che Nevio avrebbe mantenuto un contegno sprezzante fino all’ultimo. Il vecchio era un duro e Kovacich, astuto e infame, aveva fatto di tutto per apparire ai suoi occhi come un fratello.

Aveva recitato due parti in commedia, evitando di far trapelare il minimo sospetto su di lui sia in Nevio che nei fratelli Šeks. Non si associò al pestaggio, al contrario, lanciò alla vittima delle occhiate complici senza farsi scorgere dagli altri. Ma quando si rese conto che Tomislav e Josip stavano per ucciderlo, partecipò in modo “caricato” all’azione. Il resto è noto: Kovacich aggredì la vittima trascinandola giù dal fuoristrada e, assieme a Plavi, la scaraventò sulle pietre bianche del Meduna senza dargli modo di dire una sola parola. Infine il tragico epilogo: tre colpi di calibro nove esplosi a distanza ravvicinata posero fine alla controversa esistenza di Nevio Calegaro.

Una messa in scena, la sua, destinata a essere smontata dagli investigatori, che in breve ricostruirono le varie connessioni tra le persone implicate nel caso: uomini, date e telefonate collimarono perfettamente, disegnando un triangolo criminale con base in Calegaro e Kovacich e vertice nei fratelli Šeks.

«Kovacich era d’accordo con Calegaro e partecipava alle sottrazioni di droga a danno dei fratelli Šeks – rese noto la Catalano ai giornalisti convenuti alla conferenza stampa – piccoli quantitativi che poi piazzavano in Friuli. In seguito, quando i fratelli Šeks hanno scoperto il movimento, il pregiudicato triestino ha avuto paura e così ha pensato bene di far ricadere la colpa sulla vittima. Una volta eliminato per sempre Calegaro pensava di farla franca, invece si è andato a infilare in un guaio molto più grosso».

   L’improvviso rumore dell’apertura della porta interruppe le considerazioni finali del pubblico ministero. Un maggiore dei Carabinieri entrò precipitosamente nella sala.

«L’avete sentita? – esclamò leggermente agitato rivolgendosi ai presenti che lo guardavano meravigliati – Non mi dite che qua dentro non l’avete sentita… di là ha tremato tutto!»

«Ma di che sta parlando maggiore? – chiese la Catalano infastidita – Cosa è successo di là?»

«La scossa dottoressa – rispose l’ufficiale –, c’è stato il terremoto. Qui voi eravate talmente presi dal caso Calegaro che non ve ne siete nemmeno accorti».

    Un lieve sisma con epicentro tra le montagne della Carnia aveva concluso l’incontro con la stampa in Procura. Fortunatamente una scossa che non aveva provocato danni né alle persone e né alle cose, una delle tante che si avvertono in Friuli.

***

   Primo e Ada ebbero modo di vedere uno degli assassini del loro fratello nel corso del telegiornale regionale trasmesso nel primo pomeriggio. Sullo schermo scorsero le consuete immagini della traduzione in carcere dell’arrestato. All’uscita della caserma, Kovacich venne condotto nella vettura che si trovava in attesa davanti al portone. Il pregiudicato camminò a testa bassa, cercando di coprirsi il volto per non farsi riprendere dalle telecamere, poi con estrema rapidità uno dei carabinieri lo fece entrare dentro alla macchina proteggendogli la testa con una mano per evitare che urtasse contro il montante della carrozzeria.

Una sgommata lasciò nell’aria il puzzo dei pneumatici bruciacchiati e l’auto, lampeggianti stroboscopici accesi e sirene bitonali spiegate, schizzò via verso il carcere di Via Spalato a Udine.

Gli ingredienti per un megaminestrone mediatico c’erano tutti: i misteriosi depositi di armi, la guerra nella ex Jugoslavia, il narcotraffico, la tratta degli esseri umani a opera delle mafie balcaniche e, manco a dirlo, i servizi segreti. Infine, naturalmente, anche Miro Kovacich, quello squallido personaggio che ben si prestava alla semplificazione classica del romanzo giornalistico, lo spacciatore di Servola rimasto intrappolato nella stretta gabbia del suo stesso cliché. In fondo era un perdente, dunque non sarebbe potuto sfuggire al suo destino. Per qualche giorno la melassa mediatica gli avrebbe conferito un effimera notorietà agli occhi dell’opinione pubblica locale, tuttavia, tutto ben presto si sarebbe comunque sgonfiato, poiché al tramonto anche le ombre dei nani appaiono lunghe, però, poi scende inesorabile l’oblio della notte.

***

   Quella che avevano ricostruito insieme ai Carabinieri era una storia torbida, intrisa di miserie umane e di meschinità. Però adesso era fatta e il vicequestore aggiunto Andrea Zorzon poté prendersi alcune ore di libertà.

Dopo aver dribblato la pattuglia di giornalisti a caccia di interviste fece finalmente quello che avrebbe voluto fare da tempo, cioè isolarsi dal mondo circostante. Prese la macchina e girò il muso verso le montagne. La sua mente spaziò fluida in cerca di appigli. Libera di pensare a qualsiasi cosa e allo stesso tempo anche fortemente attratta da qualcosa che non riusciva però concretamente a definire. Un viaggio sulle strade bagnate dalla pioggia, attraverso la pianura magredile alla ricerca di se stesso, passando senza fretta in auto tra i paesini, i vitigni e le piantagioni di mais.

Dopo alcuni chilometri l’alta pianura finì, lasciando spazio alle montagne. Presso Venzone svoltò a destra in un’ampia area di sosta di un bar locanda. Fermò l’automobile e spense il motore. Ma volle rimanere ancora alcuni istanti seduto al posto di guida per rilassarsi, stringendo con le braccia all’indietro il poggiatesta del sedile.

Osservò a lungo il retro di quella palazzina. Al piano di sotto c’erano il bar e il ristorante, di sopra gli alloggi e da un lato l’abitazione dei proprietari, mentre dall’altro le camere da affittare ai clienti. Quella un tempo era la strada che portava al confine con l’Austria. Allora il traffico era sostenuto e alla sera la gente si fermava a dormire lì. Ad Andrea, il retro di quell’edificio parve come un’uniforme distesa verde muschio, punteggiata qua e là da colori vivaci: arancio, rosso, celeste. Quei puntini variopinti altro non erano che i giochi d’infanzia dei figli dei padroni: un’altalena, un girello e un canestro da basketball, tutte cose arrugginite dagli anni.

Aprì la portiera e scese dalla vettura. Prima di entrare nel bar indugiò ancora un po’, soffermandosi alcuni istanti a stirare ossa e muscoli. Quindi fece finalmente ingresso nel locale. Il cielo era grigio e si annunciava un altro temporale. Salutò la matura signora che si trovava dietro al bancone e poi si accomodò a un tavolo. Alla parete era appeso un maxischermo che rimandava le immagini del telegiornale. Di lato, incorniciata, una fotografia sbiadita scattata con una Polaroid ritraeva un gruppo di famiglia davanti a una vecchia Ford Taunus. Al centro dell’immagine c’era il patriarca, vestito con l’abito della festa scuro e la cravatta a losanghe, immortalato mentre abbracciava stretta la moglie, la stessa donna che adesso si trovava dietro al bancone. Lei, quel giorno di molti anni prima aveva indossato la maxigonna, un capo d’abbigliamento che andava molto di moda. Intorno alla coppia c’erano i loro tre figli, due maschi e una femmina.

Fu proprio la donna a prendere la sua ordinazione. Zorzon notò che aveva mantenuto la stessa pettinatura della fotografia, con i lunghi capelli castani raccolti in una voluminosa messa in piega stile anni Sessanta.

«Buonasera – le disse rivolgendosi a lui con fare cortese –, desidera mangiare? Sa, glielo dico perché la cucina è chiusa e possiamo fare solo dei panini».

Andrea la fissò in volto e sorrise, poi rispose. «No signora, la ringrazio, mi basterà una focaccina ripiena di prosciutto e un po’ di vino nero».

La donna si voltò e si rivolse a un uomo sulla quarantina che teneva un vassoio tra le mani.  

«Meni! Una focaccina al San Denel e un taj per il signore».

Meni, Domenico, era suo figlio. Uno di quei fanciulli che tanti anni prima avevano giocato con l’altalena e il girello nel giardino retrostante. A Zorzon quell’uomo parve assai diverso dal bambino della fotografia, perché a distanza di tanti anni gli sembrava disincantato, completamente privo di entusiasmo.

Ricevuta la comanda dalla madre, l’uomo poggiò il vassoio sul bancone di marmo e prelevò dal frigorifero un gambo di prosciutto sistemandolo poi sull’affettatrice a mano color carminio. Zorzon osservò attentamente la scena attraverso il cristallo bombato del bancone. Provava immenso piacere nel guardare nel mentre si facevano i lavori di gastronomia al bar.

Fuori cominciò a piovere forte. Nonostante fosse ancora il primo pomeriggio il cielo si oscurò completamente, un’atmosfera che gli rese la permanenza all’interno di quel locale ancora più piacevole. Col temporale quelle mura gli infusero maggiore sicurezza. La signora del bar gli portò il bicchiere di vino. Zorzon non attese la focaccia farcita, preferì sorseggiare subito un goccino, continuando a guardare fuori dalla grande vetrata le gocce che cadevano sull’asfalto della Statale Pontebbana. Più in là, i primi contrafforti prealpini erano già scomparsi dietro le dense nubi.

Improvvisamente il suo sguardo si fissò sulla cornice della vetrata accanto al tavolino dov’era seduto, venne attratto da un’insignificante piccola superficie di cemento che, a prima vista, sembrava tinteggiata uniformemente di ocra. Invece no: quante diverse sfumature cromatiche erano sfuggite alla sua osservazione superficiale. Da quelle candide delle piccole ghiaie di fiume, incastonate nel getto dell’armatura, fino ai punti di luce riflessi dai quarzi, pronti ad accalappiare e rimandare via, una volta resolo luminescente, il più vagabondo dei fotoni. A quel punto non poté fare a meno di introiettarsi in una delle sue cervellotiche riflessioni. Se il muro di questa ostaria potesse parlare – pensò –, chissà quante cose potrebbe raccontarmi. Fatti dei quali in tanti anni è stato muto testimone: gioie, dolori, amori, liti, disgrazie. E le domeniche?!? Aaaah… io non le ho mai potute sopportare le domeniche! Che tristezza mi mettono. Eeeeh… muro muro, amico mio: in fin dei conti anche io sono un po’ come te, posso permettermi di osservare tutto dall’esterno senza prendere parte agli eventi in corso. Ma tu lo sai, vero? Alla fine il bilancio è sempre negativo, perché  anch’io, allo stesso modo di te vivo un’abissale solitudine.

Continuò a piovere, ma con minore intensità. Con la coda dell’occhio Zorzon scorse la presenza di una persona accanto a lui. Era la vecchia signora del bar che gli aveva portato la focaccia. Si volse in guisa da consentirle d’appoggiare con maggior comodità il piatto sul tavolino e, nel ringraziarla, abbozzò uno strano sorriso. Sardonico, tutto frutto della sua malinconia.

 

Viers Pordenon e il mont

   Viers Pordenon e il mont… Verso Pordenone e il mondo. Luisella non aveva mai letto i versi del Testament coran di Pier Paolo Pasolini, tuttavia anche lei se ne stava andando per sempre da lì. A rendere irrevocabile la sua scelta aveva pesato il coming-out cui era stata costretta dall’interrogatorio dei Carabinieri.

Il suo irrisolto rapporto coi genitori si era definitivamente incrinato. Li aveva sempre supplicati entrambi. Gli aveva chiesto solo un briciolo d’affetto e nulla più, ma non era servito a nulla. Anche la sua testimonianza di vita, fatta di emulazione e di lavoro fin dall’adolescenza era valsa a poco. Lei, distante anni luce da quella coppia dal cuore duro come la pietra non sarebbe riuscita mai a confidarsi con loro e rivelargli la sua sessualità, dirgli che era lesbica. Così aveva continuato a tenere tutto dentro di sé, fino al giorno in cui cedette alla passione per quella soldatessa meridionale. La ragazza della quale si era innamorata e che aveva fracassato in mille pezzi tutte le remore che l’avevano sempre condizionata comprimendo il suo intimo essere. Però, alla fine anche Antonella l’aveva delusa e ormai era tardi per tutto.

Faceva freddo quel primo pomeriggio di marzo. Il cielo era plumbeo e l’asfalto era bagnato dalle piogge cadute in precedenza. Il perdurante maltempo di quei giorni aveva costretto i tecnici della società elettrica che gestiva le dighe sul Meduna a svuotare gli invasi di Cà Zul, Chievolis e Redona. È la regola in questi casi, si fa così per evitare la tracimazione dai bacini divenuti ricolmi. L’acqua era quindi defluita impetuosa giù a valle e, nella sua corsa verso l’Adriatico, aveva completamente inondato il largo greto del torrente, compreso il guado di Basaldella dove avevano ammazzato Nevio.

Luisella uscì per l’ultima volta di casa mentre le grandi nuvole grigie si schiacciavano sui contrafforti della Carnia. Volle recare con sé soltanto una piccola valigia. Uno di quei trolley brutti da vedere ma pratici da trasportare che hanno un volume interno ridotto. In ogni caso, per quello che si apprestava a fare, lo spazio offerto da quella valigetta era più che sufficiente. Non si portò dietro molto, solo qualche ricordo di quella sua terra che aveva così intensamente amato e che stava per lasciare.

Se ne andava via con un’enorme tristezza nel cuore. Non sarebbe più tornata indietro, almeno così si era ripromessa. Aveva deciso di trasferirsi all’estero per sempre. Sarebbe andata a Londra, a fare la cameriera in un coffee-bar, lassù avrebbe finalmente trovato un po’ di serenità.

Il decollo del volo low cost che aveva prenotato all’agenzia viaggi era previsto per le ventuno allo scalo di Tessera, quindi si sarebbe dovuta presentare al desk per l’imbarco almeno due ore prima. All’autostazione di Spilimbergo avrebbe preso la corriera per Pordenone, poi da lì il treno per Mestre, infine, con un tassì avrebbe raggiunto l’aeroporto Marco Polo.

I genitori li aveva salutati per l’ultima volta a casa, al momento di uscire. La madre aveva pianto, suo padre avrebbe voluto accompagnarla ma lei aveva preferito separarsi da loro e andare via da sola.

Quando attraversò Spilimbergo la cittadina era semideserta, poiché a quell’ora erano tutti a pranzo. Ben presto raggiunse la fermata delle autolinee. Al bar della vecchia stazione era sempre tutto così uguale, come cristallizzato nel tempo: i vecchi giocavano a carte sorseggiando un bianco, il muratore albanese si faceva scaldare un panino con la pancetta dall’avvenente barista e alcuni ragazzi con gli zainetti in spalla facevano ritorno da scuola; qualcun altro, invece, attendeva la coincidenza per i paesini della pedemontana, mentre altri se ne stavano seduti ai tavolini, attardandosi in conversazioni oziose oppure giocando coi loro game boy.

La corriera sopraggiunse da Maniago in perfetto orario. Dopo una breve sosta sull’ampio piazzale sarebbe ripartita per Pordenone. Una lacrima solcò il viso di Luisella. Prima di salire a bordo volse lo sguardo per l’ultima volta alle montagne del Friuli.

All’interno dell’autobus, al di sopra del cruscotto di vinile, i numeri dell’orologio, rossi e luminosi, indicavano a intermittenza le quattordici e dieci, questo mentre l’autoradio accesa diffondeva le note di un celebre brano di musica leggera. Il motivo faceva da sottofondo alle facezie della coppia di conduttori della trasmissione di punta del network radiofonico locale.

Non c’erano molti passeggeri, Luisella dopo aver obliterato il biglietto alla macchinetta non ebbe difficoltà a trovare un posto a sedere. Intanto, dopo aver bevuto velocemente un caffè al bar, il conducente dell’ATAP raggiunse l’autobus e si accomodò al posto di guida. La poltrona cigolò un poco, molleggiando sotto il peso del suo fisico corpulento. Quando fu sufficientemente comodo, l’uomo premette col dito un pulsante vicino allo sterzo e in un attimo, con uno sbuffo d’aria compressa, le porte si chiusero. Quindi pigiò lievemente sul pedale dell’acceleratore e la corriera ripartì.

(12- fine)

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