NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (9)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

XXV

   «Sembrerebbe quasi fatta dunque».

Il pubblico ministero parve soddisfatto. Mentre si trovava davanti all’ingresso del Reparto Operativo dei Carabinieri in attesa dell’arrivo del capo della Mobile, parlottando con Borlacco si lasciò andare un poco alla pedanteria.

«Che profonda disponibilità al male colonnello, siamo davvero in un mondo senza innocenza…»

L’ufficiale l’assecondò anche se cercò subito di cambiare discorso.

«Dottoressa, ho saputo che ha preso casa nuova: poi che ha fatto, ha risparmiato comprando in fabbrica?»

La Catalano non si sottrasse al nuovo argomento, anzi, con una punta di vanità e un filo d’ironia rimarcò come il caro prezzi nel settore dell’arredamento fosse divenuto insostenibile, ma lo fece esclusivamente allo scopo di sottolineare il pregio dei suoi ultimi acquisti.

«Eeeeh… mica tanto colonnello, sa? Mi hanno rovinata: quelli sono degli autentici piranha. Per rifare il bagno, alla fiera del mobile di Prata ho speso un capitale, altro che storie!»

La piemme si era presentata all’appuntamento elegantemente vestita e truccata di tutto punto. Ci teneva ad apparire carina e tutto sommato risultava anche piacente, tuttavia i tratti del suo viso erano irrimediabilmente deturpati da un orribile naso camuso.

«Ce l’ha fatta ad arrivare – commentò quando in lontananza vide sopraggiungere l’auto di Zorzon – È quasi mezz’ora che lo stiamo ad aspettare».

Sceso dalla vettura, il capo della Mobile salutò i due, poi accampò una scusa allo scopo di giustificare il suo ritardo, quindi fecero tutti ingresso nell’edificio. Nell’ufficio del comandante ad aspettarli c’erano tutti gli altri investigatori. La piemme tenne allora un briefing.

«Forse abbiamo imboccato la pista giusta, ma adesso è spuntata fuori questa novità delle armi. Una brutta faccenda che complica le cose e che va chiarita per intero. Se l’indiziato indicherà dei siti, effettueremo dei sopralluoghi. Io, per non sbagliare, a questo qui oggi gli formalizzo le accuse, così lo teniamo dentro e lo spaventiamo pure un po’: se non è lui il responsabile dovrà darci i nomi dei colpevoli».

Ma cosa si sapeva di preciso di quella piccola organizzazione criminale capeggiata da Plavi grom? Fu Zincone a introdurre il tema.

«Partiamo dal capobanda, cioè Šeks Tomislav, che durante la guerra nella ex Jugoslavia assume il nome di battaglia di “Plavi grom” e si pone a capo della sedicente milizia paramilitare “Autodifesa Patriottica della Scacchiera”. Ruoli apicali nella gang vengono ricoperti anche suo fratello Josip e altri due o tre elementi; si tratta di un gruppo molto localizzato dal punto di vista territoriale, che nell’ambito della criminalità croata svolge un ruolo del tutto residuale. Dopo la smilitarizzazione delle milizie, la banda tenta di accreditarsi nei confronti di organizzazioni di maggiore spessore criminale con l’obiettivo di incrementare il volume d’affari fino a quel momento derivato principalmente dal traffico di auto rubate e dallo spaccio di droga. Tentano dapprima di ritagliarsi uno spazio nei lucrosi settori del traffico di stupefacenti e, a partire da un momento successivo, anche di esseri umani, avendo però sempre consapevolezza delle proprie ridotte capacità militari e di quelle di controllo del territorio. Va tenuto conto che dopo la guerra si registrò il crollo della credibilità di parte dei referenti della grande criminalità croata, sia dei mediatori che degli esportatori, quindi per quest’ultima sorsero seri problemi nella gestione dei traffici. Per altro, in quello stesso periodo le forze dell’ordine e la magistratura italiana esercitarono forti pressioni sulle organizzazioni criminali dell’Est Europa, assestando loro duri colpi. In questa situazione di crisi si aprirono spazi di manovra per chi, qui in Italia, il terreno invece lo controllava saldamente».

«La droga, gli approdi degli scafisti: ma certo! – intervenne Zorzon – Sono questi i possibili nessi con la morte di Calegaro. Ragioniamo: dopo la fine della guerra nella Jugoslavia, dal Friuli Venezia Giulia iniziano a transitare sempre più armi dirette in nord Europa, mentre le coste vicine a Trieste e Monfalcone divengono gli approdi dei trafficanti».

Il capo della Mobile si sentì vicino alla soluzione. In quel momento ritenne di stare riuscendo a dipanare l’ingarbugliata matassa che aveva portato l’inchiesta fino in Dalmazia.

«Attraverso Kovacich e, forse anche attraverso la manovalanza di Calegaro, la banda dei fratelli Šeks riesce a inserirsi nel giro del piccolo spaccio delle province di Pordenone e di Udine. Si tratta di roba da poco e, comunque, lo fa dopo aver ottenuto il permesso, in via temporanea probabilmente, quale corrispettivo per dei servizi precedentemente forniti ad altre mafie più grandi, quali ad esempio quella del Brenta. Plavi e i suoi stanno molto attenti a non pestare i piedi a nessuno, mantenendosi lontani dalle grosse piazze di spaccio notoriamente appannaggio di altri».

Pur essendo soltanto un sodalizio criminale di limitato spessore, restava il fatto che la banda dei croati per commettere l’omicidio del Meduna avrebbe comunque dovuto organizzare un gruppo di fuoco in grado di spostarsi e agire in territorio italiano, dapprima sequestrando la vittima, poi eliminandola fisicamente. Non era un’azione che tutti erano capaci di compiere.

«Allora possiamo concentrarci su questa pista? – chiese conferma la Catalano – Il movente dell’assassinio, la cui responsabilità andrebbe ascritta alla banda di Šeks, con la probabile complicità del Kovacich, andrebbe rinvenuta in una questione di droga?»

La risposta venne in qualche modo data sempre da Zorzon.

«Dottoressa, poniamo il caso che la vittima sia stata coinvolta in un traffico di stupefacenti verso l’Italia, mettendosi a fare, come ha affermato Kovacich, il corriere per la banda. Beh, alla luce della personalità del Calegaro, a questo punto una ipotesi possibile è quella che egli abbia potuto operare per conto dei croati su una doppia direttrice del traffico di cocaina: una dalla Dalmazia al Friuli e l’altra in senso opposto, cioè dall’Italia verso la Slovenia attraverso il goriziano. Non è un caso che recentemente i colleghi della polizia di Lubiana ci abbiano segnalato le targhe di autovetture di soggetti riconducibili al mondo delle tossicodipendenze che dalla Slovenia hanno fatto ingresso in Italia per rifornirsi di droga».

Zorzon fece una pausa. Ne approfittò per estrarre una sigaretta dal pacchetto che aveva nella tasca della giacca. La tenne fra le dita, ma non la accese. Quindi proseguì a parlare.

«Dunque, posto che da un tronco principale “balcanico” gli stupefacenti giungevano in Italia, luogo da dove poi proseguivano per la Slovenia, eccoci qua al punto cruciale: Calegaro, in accordo o meno con Kovacich, potrebbe essersi reso responsabile della continua sottrazione di ridotte quantità di stupefacenti dalle partite da lui trasportate, che poi rivendeva a suo esclusivo profitto qui da noi. Questo spiegherebbe la sua eliminazione da parte della banda: quando i fratelli Šeks hanno avuto contezza degli ammanchi lo hanno punito esemplarmente facendolo fuori in quel modo sul greto del Meduna».

Se Calegaro aveva veramente sottratto la droga rivendendola sulla piazza friulana, per i poliziotti non sarebbe stato difficile ottenere dai pusher locali delle conferme. Tuttavia permaneva ancora aperta la questione delle armi e degli esplosivi. Allo riguardo la dottoressa Catalano dispose un’ulteriore perquisizione nelle aree di pertinenza dell’abitazione di Nevio Calegaro.

Terminato il summit col pubblico ministero gli investigatori tornarono nella stanza dove si trovava Kovacich. Il colonnello Borlacco era dovuto andare a Udine dal comandante della Legione Carabinieri e aveva quindi delegato il capitano Cadrella alla prosecuzione dell’interrogatorio. L’ufficiale venne affiancato dal parigrado Ciro Bellavita e da uno Zincone stremato dalla stanchezza. Era rimasto anche Zorzon, ormai convintosi che la pista della sottrazione della droga fosse quella giusta. Il capo della Mobile si mise in disparte per osservare la scena. Cadrella volle strappare una confessione al pregiudicato in stato di fermo e per intimorirlo iniziò a trattarlo con durezza e disprezzo, ma senza ottenere risultati.

Col passare degli anni il fascicolo informativo relativo allo spacciatore di Servola era notevolmente cresciuto. In esso i militari dell’Arma non avevano trascurato di annotare il suo arruolamento nella milizia di Plavi grom..

«Forza! – gli gridò l’ufficiale dei Carabinieri – Ripartiamo dai tuoi amici croati: facci la descrizione della banda e raccontaci come si trasformò in gruppo paramilitare».

«Ve l’ho già detto – replicò sfinito Kovacich –, era una piccola unità, una milizia soltanto per modo di dire».

Rassegnatosi, il triestino ricominciò a trattare l’argomento, riferendo cosa era davvero stata l’Autodifesa Patriottica della Scacchiera. Nel farlo, però, aggiunse dei particolari che in precedenza aveva omesso di rivelare.

«Tomislav e suo fratello non controllavano completamente il territorio e neppure i porti o le arterie stradali più importanti, loro si limitavano al contrabbando di sigarette e al racket».

«E con la guerra? – chiese Zorzon interrompendo il suo prolungato silenzio – Con la guerra la banda crebbe in importanza?»

Kovacich continuò a minimizzarne lo spessore.

«Non combinavamo nulla d’importante, davamo una mano alla Guardia Nazionale quando questa era impegnata in combattimento, facevamo dei rastrellamenti a ridosso del fronte e sorvegliavamo qualche prigioniero catturato da altri. Ci spingemmo fin dentro la Lika, non lontano da Gospić, ma mai più avanti di lì. Poi, nel 1992 i fratelli Šeks sciolsero la milizia e nascosero tutte le armi».

Le Nazioni Unite avevano decretato un embargo generale sulle armi a tutti gli Stati sorti dalla dissoluzione della Federazione jugoslava, tuttavia le organizzazioni criminali furono nelle condizioni di violarlo, dando il via a traffici di ogni genere. In quella fase storica il mondo stava cambiando con rapidità, divenendo sempre più globalizzato e deregolamentato e contestualmente le frontiere cessavano di svolgere la loro funzione di contenimento, avvantaggiando chi invece si andava internazionalizzando. Come appunto le mafie.

Nel suo piccolo anche Nevio Calegaro approfittò di questi sconvolgimenti epocali per trarne vantaggio e si mise a fare il corriere della droga per i fratelli Šeks.

«Il vecchio era perfetto per quel ruolo – sottolineò Kovacich -, perché non dava assolutamente nell’occhio. È andato tutto liscio e il capo lo ha fatto lavorare anche con i cinesi»

«I clandestini? – chiese Cadrella – Glielo propose direttamente Šeks oppure facesti da tramite tu anche stavolta?»

«Fece tutto Plavi da solo. Anch’io avevo lavorato a un paio di sbarchi, lo ammetto, ma in questo settore il vecchio si dimostrò un vero specialista. Conosceva a menadito i sentieri nascosti che attraversano il confine con la Slovenia. Un pomeriggio mi ci accompagnò prima del tramonto per fare il punto. Si portò dietro una carta topografica, disse che quelli erano i più sicuri per il passaggio dei migranti clandestini. Ma dovetti ricordargli che i punti di attraversamento li decidevano gli altri e che lui non avrebbe dovuto assolutamente prendere iniziative personali».

Zorzon volle però tornare sul passato della vittima.

«Calegaro ti spiegò le ragioni di queste sue competenze? Non fosti incuriosito dalla sua perizia, dalla sua padronanza dei luoghi?»

«Mi pare che mi disse di esserci stato anni prima quando era militare».

«Solo questo? Non ti disse nulla di più!?!»

Il capo della Mobile trasecolò.

«Ma come: quello prima vi offre armi ed esplosivi, poi alla ricognizione del percorso ti conduce a occhi chiusi sui sentieri del contrabbando e tu non gli fai neanche una domanda?»

«Ma in quel momento chi ci pensava… – rispose Kovacich – io volevo sbrigarmi e basta. Dovetti stargli appresso perché me lo aveva ordinato Plavi, erano lui e suo fratello Josip che volevano saperne di più sui sentieri che il vecchio affermava di conoscere».

«Coi clandestini andò sempre tutto liscio?», chiese allora Zincone.

«Voi non ve ne accorgevate, ma in quel periodo vi passavano tutti sotto al naso. Erano quasi sempre piccoli gruppi. Non furono poche le volte che il capo fece ricorso al vecchio e come vi ho detto in alcune occasioni dovetti supportarlo io… come quella volta che prelevammo i cinesi a Devetachi».

«Devetachi hai detto? – domandò interessato Zorzon – Non è vicino a Gorizia?»

Kovacich annuì.

«Sulla strada che porta alla statale quattordici c’era un sentiero dove facevano passare cinesi e bengalesi».

«Cosa facevate di preciso?», fu la domanda di Zincone.

«Dipende, intanto controllavamo che il sentiero fosse a posto, cioè che ci fossero tutti i segnali codificati concordati coi passeur sloveni che stavano dall’altra parte del confine».

«Spiegaci Miro, che genere di segnali?»

«Indicazioni semplici, comprensibili anche da chi non parla la nostra lingua. Non so: bottiglie di plastica schiacciate col collo rivolto nella direzione giusta dove andare, pietre disposte a forma di freccia, una serie di brandelli di stoffa dello stesso colore attaccati ai cespugli lungo il percorso. Sul Carso per esempio spezzavamo i rami bassi degli alberi allo scopo di renderli facilmente identificabili».

«Una volta attraversato il confine eravate sempre voi a trasportare materialmente i clandestini in un altro luogo?»

«Poteva capitare anche questo, raramente però. Di solito c’era sempre un cinese col furgone in attesa sulla strada, questo li prelevava non appena mettevano piede in Italia. Per i bengalesi invece era diverso, a quelli li lasciavamo andare via da soli. L’importante era che passassero la frontiera, perché tanto a noi il viaggio lo avevano già pagato, quindi una volta dentro i che se rangi tra de lori…»

«Ma che bravi! Non poté fare a meno di commentare con una vena di disgusto Zincone – E Calegaro? Che mansioni svolgeva?»

«Entrava in azione quando si doveva fare da ponte coordinando il passeur sloveno con l’autista cinese, che era poi il terminale delle mafie etniche che avevano curato l’intero viaggio dei migranti clandestini. Plavi e Josip prendevano ordini da due o tre boss che in Croazia a quel tempo la facevano da padroni».

I tre maggiori boss croati mantenevano i collegamenti con le potenti organizzazioni asiatiche all’origine del traffico di esseri umani.

«Da Rijeka – proseguì Kovacich – il capo spostava continuamente il punto di ingresso dei clandestini allo scopo di rendere difficile alla polizia italiana la loro intercettazione. Si passava da un transito via terra, magari vicino a Trieste, a un altro via mare che poteva essere molto più lontano, a Monfalcone o magari addirittura a Chioggia».

«E dicci di Calegaro – si inserì Cadrella –, che faceva di preciso quando li sbarcavate qua in Friuli?»

«Calegaro interveniva quando non era disponibile l’uomo di fiducia della banda, un tizio di Muggia che avevo conosciuto quando ero detenuto al Coroneo. In quei casi il vecchio risultava di fondamentale importanza, i quanto sapeva scegliere il punto giusto e controllare le condizioni del mare, inoltre verificava che non ci fossero madame in zona. Comunicando per mezzo dei telefonini cellulari, tutte le persone coinvolte nell’operazione al momento dovuto convergevano rapidamente sulla spiaggia che aveva individuato per lo sbarco: io provvedevo a guidare gli autisti cinesi, lui invece, sempre in contatto sia con me che con Plavi, dava il via libera al gommone partito da Lussino, guidandolo all’approdo mediante dei segnali luminosi».

  

XXVI

   Per il tardo pomeriggio la dottoressa Catalano aveva convocato una conferenza stampa in Procura. All’esterno sul caso del Meduna non erano filtrati particolari, però adesso la ricerca del deposito delle armi e degli esplosivi avrebbe inevitabilmente attratto le attenzioni dei giornalisti. Decise dunque di giocare d’anticipo.

Gli inquirenti non avevano ancora in mano la confessione del colpevole, quindi Kovacich restava solo un indiziato. Il pregiudicato aveva retto all’interrogatorio, seppure il suo impianto difensivo si fosse mostrato via via più debole, evidenziando evidenti punti di faglia che andavano scricchiolando sempre più. Nonostante l’esame dello stub avesse dato esito negativo, il suo alibi per la sera del delitto non reggeva, poiché le sue dichiarazioni configgevano con le riprese delle telecamere dell’autogrill di Portogruaro e con il traffico telefonico del suo cellulare: non poteva essere rimasto tutta la sera assieme a sua madre, infatti, le celle agganciate in quelle ore risultavano molto distanti dalla sua casa nel quartiere triestino di Servola. Così, si era così trovato nella necessità di organizzare in tutta fretta una linea difensiva, ma c’era riuscito male e adesso non aveva vie d’uscita.

Le accuse a suo carico erano pesanti: per il momento solo associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, traffico di esseri umani e di armi oltre a tutta una serie di capi di imputazione minori. Quella notte sul Meduna poteva anche non aver premuto materialmente il grilletto della Glock, però aveva sicuramente partecipato all’azione.

Non aveva raccontato tutto e per gli investigatori esisteva un filo rosso che legava la brutale esecuzione di Calegaro con la storia della droga. Lo compresero quando il pregiudicato fece riferimento al traffico di esseri umani. Fu allora che intuirono che la vittima avrebbe potuto trafficare anche in stupefacenti, venendo portati istintivamente a ritenere che il movente dell’omicidio si annidasse proprio lì. Cercarono quindi di inchiodare il pregiudicato di Servola alle sue responsabilità.

«Voi due vi fottevate la droga di Plavi – sentenziò Zincone – e lui ha filato il movimento e ha accoppato il vecchio, però non capisco una cosa: come mai tu ti sei salvato?»

Domanda logica, dato che al quel punto per Kovacich l’unico modo per tirarsi fuori poteva essere stato quello di fare la spiata in anticipo ai fratelli Šeks cercando di accollare tutto sulle spalle di Calegaro.

«Hai venduto il vecchio ai croati – concluse il maresciallo aiutante della Sezione investigativa –, te la facevi sotto perché sapevi che prima o poi loro lo avrebbero scoperto e lui avrebbe coinvolto anche a te, allora hai spifferato qualcosa a Plavi. Ma soltanto qualcosa, robetta da poco, vicende nelle quali tu non comparivi, che però hanno messo la pulce nell’orecchio al croato. Ma, anche qui, non riesco a comprendere il comportamento di Calegaro: perché non si è discolpato in qualche maniera a sua volta tirando dentro anche te? Cosa gli sarebbe costato? In fondo per lui era finita e tu eri quello che l’aveva fottuto: perché non vendicarsi?»

Aveva colpito nel segno e Kovacich si sentì perduto. Il pusher ormai era sfatto e sarebbe bastato poco per abbatterne le residuali difese. A farlo ci pensò il capo della Mobile.

«Vi fottevate la droga e ve la rivendevate qui in Friuli. Non tanta, piccoli quantitativi e soltanto un poco alla volta. Ma veramente pensavate che i destinatari dei carichi non se ne accorgessero? Siete stati veramente dei polli! Per quanto sbruffone, Plavi non aveva mica l’anello al naso. Prima o poi sarebbe venuto comunque a sapere tutto, bastava che uno qualsiasi di quei piccoli spacciatori che rifornivate per quattro soldi, magari un tossicomane, riferisse a qualcuno che la roba gliela davate voi e tutto sarebbe finito lì. Ci sarebbe voluto pochissimo a far girare la voce fino in Dalmazia».

Zorzon era riuscito a terrorizzare Kovacich.

«Non lo avrebbero dovuto ammazzare – dichiarò nel tentativo di separare la propria posizione da quella degli altri –, l’idea iniziale dei fratelli Šeks era quella che per recuperare la droga lo si sarebbe dovuto solo spaventare. Sì, certo che lo avremmo anche punito. Plavi voleva spaccargli le ginocchia per farlo camminare zoppo tutta la vita, aveva intenzione di fargli male, ma non al punto da accopparlo. Ma, che cazzo però! È degenerato tutto così in fretta…»

Kovacich stava andando troppo avanti, allora Zorzon lo bloccò. Il capo della Mobile voleva ricondurlo alla fase iniziale della vicenda per ricostruirla interamente senza saltare alcun passaggio.

«Aspetta Miro – gli disse col suo consueto tono pacato –, adesso devi dirci con precisione cosa aveva a che fare Calegaro con la droga».

«I fratelli Šeks non lo utilizzavano solo in qualità di passeur, ma anche come corriere».

Il pregiudicato descrisse nei dettagli il coinvolgimento della vittima nel traffico di stupefacenti, ma mantenne un fondo di reticenza che venne tuttavia immediatamente percepito da Zorzon.

«Attento Miro, stai bene attento a non farmi innervosire: tu non mi stai dicendo tutta la verità! Chi fu a decidere dell’assassinio di Calegaro?»

Kovacich si ostinava a respingere quell’accusa, negava e ancora negava.

«Io con l’omicidio non c’entro! Vi ripeto che anche loro all’inizio non lo volevano ammazzare, sarebbe stato anche un modo per lanciare un segnale agli spacciatori che avevano comperato la droga da lui che era stato ristabilito l’ordine. La punizione inflitta a Calegaro avrebbe dovuto avere un valore di esempio per tutti. I fratelli Šeks non potevano mica perdere la faccia facendo la figura di quelli che si erano fatti fregare da uno come il vecchio».

«E poi invece che è successo? – Domandò Cadrella – Dov’è che si è inceppato il meccanismo?»

Kovacich descrisse i fatti.

«Per non insospettirlo si decise di prelevarlo in territorio italiano. Plavi e Josip mi dissero di telefonargli per dargli appuntamento vicino all’autostrada, fui io a proporre di farlo a Villesse, in una stradina secondaria dove c’eravamo già incontrati in precedenza. Al vecchio dissi che sarei venuto da solo per parlargli di lavoro».

Zorzon lo interruppe con una altra domanda.

«Prima hai detto che volevate prelevarlo. Cosa intendi rappresentare con l’uso del termine “prelevarlo”: era vostra intenzione sequestrarlo?»

«Proprio così. Volevamo sequestrarlo per costringerlo a condurci alla cava, perché pensavamo che la roba la tenesse lì. Quando il vecchio arrivò al luogo concordato per l’appuntamento con la sua macchina, da dietro un boschetto dove si erano nascosti saltarono fuori gli altri e lo immobilizzarono. Non ci furono testimoni, per la strada non c’era anima viva. Lo caricammo di peso a bordo del mio suv e filammo via. Uno della banda si mise alla guida della sua Chrysler e poi l’abbandonò ad Aurisina vicino alla ferrovia, noi invece ce ne andammo a Spilimbergo a cercare la droga».

«Dicci i nomi di quelli che erano con te: in quanti eravate a Villesse?»

«I soliti. Quelli che facevano quel tipo di azioni: cioè: Plavi, Josip e altri due».

«Poi che successe?»

«Un casino – rispose sospirando Kovacich –, alla cava non trovammo nulla, né la droga né i soldi. Allora Plavi si incazzò di brutto e cominciò a urlare. Agitava davanti al muso del vecchio un pezzo di marmitta arrugginita che aveva raccolto da terra gridandogli che lo avrebbe fatto a pezzi. Poi avvicinò una sigaretta accesa alla narice minacciandolo che se non avesse restituito tutto gliel’avrebbe spenta dentro al naso. Quella della sigaretta nel naso e nelle orecchie durante la guerra era una pratica frequente con i prigionieri…»

«Ma che bravi! – esclamò disgustato Cadrella – Dei veri combattenti! Ma guarda sto’ pezzo di merda».

Kovacich non replicò agli insulti, preferì concludere la sua versione dei fatti giungendo al climax.

«Poi il vecchio ne fece una delle sue e per lui fu quella decisiva. Era uno che non si faceva mettere i piedi in testa, ma in quella situazione non avrebbe proprio dovuto farlo…»

Tutti pendettero dalle labbra del pregiudicato triestino. Lui rimase zitto per alcuni secondi, fino a quando Zincone non gli impose bruscamente di proseguire.

«Fare che cosa? Allora, vuoi parlare o no!?!»

Kovacich rise sardonicamente e lasciò cadere inerti le mani sul tavolo. Giù, a peso morto, come se fossero di gomma. Solo allora concluse il suo racconto.

«Quel pazzo esaltato ha mandato Plavi a fare in culo. Non solo, gli ha pure sputato in faccia. “Cosa credi – gli ha detto guardandolo dritto negli occhi con disprezzo –, mica mi fai paura sciavo de merda!”. Potete immaginarvi quale possa essere stata la reazione del croato: ha perso completamente la testa e ci ha ordinato di caricare immediatamente il vecchio in macchina. Ha parlottato un po’ col fratello e quindi siamo partiti sgommando. Giunti poco distante dalla cava, sempre sul greto del torrente, lo abbiamo tirato giù. Plavi ha estratto la pistola e gli ha sparato. Così, subito, senza pensarci un istante. Il vecchio è venuto giù come un sacco di patate. Era in un lago di sangue, ma Plavi gli ha voluto tirare lo stesso il colpo di grazia in testa, dopodiché ce ne siamo andati da quel posto del cazzo».

In questi termini l’assassinio di Nevio Calegaro appariva come un capolavoro di grossolana superficialità. Lo stesso Kovacich non usciva bene da questa storia, seppure nessuno fosse in grado di smentirlo con una diversa versione dei fatti, poiché per il momento non c’erano altri testimoni dei fatti.

Malgrado il pregiudicato triestino non brillasse per attendibilità, le sue dichiarazioni avevano comunque impresso un’importante svolta alle indagini. La ricostruzione della dinamica dell’omicidio avrebbe permesso alla dottoressa Catalano di affrontare meglio il previsto assalto dei giornalisti nel corso della conferenza stampa fissata per il pomeriggio in Procura.

(9 – continua)

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